domenica 14 maggio 2017

Corriere 14.5.17
La politica che non accetta le domande scomode
di Luciano Fontana


l rapporto tra informazione e potere politico sta vivendo in questi giorni un’altra puntata singolare. Si evocano complotti, complicità, ossessioni. Un calderone dove scompare il merito, si prendono strade laterali per non rispondere a interrogativi molto chiari e semplici.
Riassumiamo: nel libro, appena pubblicato, dell’ex direttore e attuale editorialista del Corriere della Sera F erruccio de Bortoli si racconta di un intervento, nei giorni caldi della crisi di Banca Etruria, di Maria Elena Boschi presso UniCredit (e il suo amministratore delegato Federico Ghizzoni) per sollecitare il salvataggio dell’Istituto di credito toscano in bancarotta. La ministra non ha alcun titolo per occuparsi della vicenda, anzi ha un ostacolo insormontabile: suo padre è il vicepresidente della banca, il conflitto d’interessi è evidente. Boschi replica di non aver mai fatto pressioni (in Parlamento aveva anche dichiarato in passato di non essersi mai occupata di Etruria) e annuncia querele, senza specificare nei confronti di chi. Federico Ghizzoni (adesso ex amministratore) si limita finora a un «no comment» (o a qualche breve dichiarazione), così come ambienti di UniCredit che affermano di aver esaminato il dossier e di aver scartato la possibilità di intervenire.
Ieri la vicenda ha avuto una nuova escalation con l’intervista al Foglio di Matteo Renzi. Anche qui si allarga a dismisura il campo, non si sta alla questione di merito e si sferra un attacco incredibile a de Bortoli: avrebbe un’ossessione contro l’ex premier che lo porta a scrivere cose false.
Si mettono insieme un errore su Carrai, che de Bortoli ha onestamente riconosciuto, con il fastidio di Renzi per la presenza di un giornalista del Corriere nel suo albergo di vacanza a Forte dei Marmi. Un giornalista che stava solo facendo il suo mestiere e per questo venne minacciato dalla scorta presidenziale.
Si capisce bene che la vicenda delle banche toscane, con il colpo durissimo inferto da una gestione clientelare e dissennata a investitori e risparmiatori, sia una spina nel fianco del segretario Pd e della Boschi. È un capitolo oscuro, le inchieste e le intercettazioni dimostrano che intorno al salvataggio si mossero personaggi con un passato non raccomandabile. In quei giorni si raccontava, tra i soggetti istituzionali incaricati di trovare una soluzione alla crisi di Etruria, la seguente storia: a molte società di credito e a tanti investitori, anche stranieri, fu chiesto di intervenire per il salvataggio. Accadeva sempre questo: esaminavano le carte, facevano alcuni incontri e poi si ritiravano dopo aver conosciuto i personaggi e gli interessi «strani» che pesavano in quel piccolo mondo. Invece di immaginare trame si dovrebbe rispondere a queste semplici questioni sulla vicenda. De Bortoli ha raccolto, durante la stesura del suo libro, un’informazione e l’ha pubblicata. Così si comporta un giornalista. Il ministro ha reagito dicendo che non è vera ma il «no comment» di Ghizzoni e quello che ha aggiunto ieri al Corriere pesano. Non sono certo una smentita, anzi. Forse sarebbe meglio che anche il mondo bancario parlasse chiaramente. La trasparenza, dopo tutto quello che è accaduto in questi anni in cui le banche e le loro sofferenze sono state una zavorra per il Paese, dovrebbe essere un valore assoluto per tutti.
Il rapporto con l’informazione di Renzi e del suo mondo è, per usare un eufemismo, complicato. Un rapporto questo sì ossessionato dall’idea di nemici sempre in agguato. L’ex premier non ha ancora «elaborato» la sconfitta referendaria, è tornato sulla scena, dopo la vittoria delle primarie, come se nulla fosse accaduto. Parole d’ordine e atteggiamenti simili. E tanta insofferenza per le voci critiche e le notizie scomode. C’è un lavoro di ricostruzione e una sfida riformatrice su cui le forze politiche, tutte, dovrebbero concentrarsi. Macron insegna. Ma di Macron per il momento non se ne vedono in circolazione .

il manifesto 14.5.17


Ieri Debora Serracchiani ha provato con il furto. Travolta dalle critiche, indifendibile persino dal Pd per il suo commento a un episodio di violenza sessuale – «è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro paese» – la presidente del Friuli Venezia Giulia, in corsa per una difficile conferma, è diventata un esempio per i razzisti. I giornali della destra la esaltano, il suo volto con le sue parole compare in una campagna che Forza Nuova, «fascisti del terzo millennio», ha lanciato sui social. Ma la ex vice segretaria nazionale Pd ha tenuto il punto: non è stato un lapsus. Ieri ha esteso il «ragionamento» al furto. «Quando si parla di accoglienza dobbiamo mettere da parte le ipocrisie – ha detto. Se si vuole essere accolti bisogna rispettare le regole. Un furto in casa è sempre odioso, ma se lo compie la persona che ho accolto in casa mia il giorno prima mi dà ancora più fastidio. Credo sia normale». Meno normale è pensare che chi ha diritto all’asilo per il diritto internazionale sia debitore di qualcosa. Meno normale è equiparare lo stupro al furto.

Corriere 14.5.17
Il piano Gabanelli rischia lo stop E l’ex di Report ora è in bilico
La maggioranza del cda si oppone al nuovo portale della tv di Stato
di Sergio Rizzo


Su Milena Gabanelli una cosa si può dire senza essere smentiti: non è mai stata una figura comoda. Di sicuro non lo era quando guidava Report, senza curarsi troppo dei calli (quasi sempre appartenenti a piedi autorevoli) che pestava. Ma non lo è neppure adesso che di calli non ne dovrebbe pestare quasi più. Almeno, non fuori della Rai. Perché il suo problema, ora, è lì dentro. Ed è così grosso che a viale Mazzini rischia di ripetersi un caso pressoché identico a quello di cui pochi mesi fa è stato protagonista Carlo Verdelli, uscito di scena dopo la bocciatura da parte del consiglio di amministrazione del suo rivoluzionario piano editoriale che aveva fra i punti cardine il trasferimento del Tg2 a Milano. Nonché la realizzazione di un nuovo portale unico di notizie: dettaglio non trascurabile, perché è proprio quello che sta causando un terremoto intorno a Milena Gabanelli.
Dal 30 gennaio, su incarico del direttore generale Antonio Campo Dall’Orto, è lei che ha raccolto il testimone di Verdelli per la parte che riguarda il portale. E quasi da subito ha dovuto affrontare una guerra interna strisciante, che ha finito per coalizzare la maggioranza del consiglio di amministrazione. L’argomentazione che giustificherebbe l’opposizione al progetto del nuovo portale unico di notizie della Rai è quella secondo cui l’operazione farebbe nascere una nuova testata, proprio mentre l’orientamento generale emerso anche nella commissione parlamentare di Vigilanza sarebbe invece per una riduzione del numero eccessivo di testate. Un’argomentazione tuttavia inconsistente, perché il progetto al quale sta lavorando Milena Gabanelli si innesta su Rainews.it , una testata già esistente sia pure agganciata a Rainews24 di Antonio Di Bella, e attualmente senza un proprio direttore. Ma tant’è. Il risultato è che la terra sotto i piedi della ex animatrice di Report scotta almeno quanto scottava quella sotto le suole di Verdelli.
E qui è doveroso aprire una parentesi sul ruolo di Monica Maggioni. È di qualche giorno fa la ricostruzione apparsa sul sito Dagospia , secondo cui la presidente della tivù pubblica avrebbe chiamato uno per uno tutti i direttori di testata, la cui collaborazione sarebbe essenziale al progetto, allo scopo di convincerli che l’iniziativa non ha senso. Come non avrebbe senso che a gestirla fosse Milena Gabanelli, ritenuta inadatta a quel ruolo. Tale ricostruzione è stata però subito smentita, oltre a essere accomunata alle fake news che circolano sempre più spesso nella Rete, dalla stessa Monica Maggioni, che nella sua replica a Dagospia ha anche tenuto a precisare «l’assoluto apprezzamento» nei confronti di colei che per vent’anni ha guidato la trasmissione Report . Non l’unica fake news, a dire della presidente Rai, contenuta nella stilettata assestatale dal sito di Roberto D’Agostino, che ha versato sale pure sulle ferite del traffico dell’attuale portale della tivù di Stato, raccontando di un progressivo rinsecchimento del numero di utenze. Niente di più sbagliato: «Solo per la precisione, all’epoca della direzione di Monica Maggioni il Rainews.it , lungi dall’impoverirsi, ha triplicato i risultati di traffico del sito», afferma il comunicato di rettifica diffuso dall’azienda.
Ma da dove sia stato ricavato quel dato è difficile dire. I numeri dell’audionews dicono che gli utenti unici sono passati dai circa 100 mila del dicembre 2012 a poco più di 70 mila nel luglio 2015: con un calo del 30 per cento circa.

Corriere 14.5.17
La possibilità di essere madre
Ieri avere figli era destino ineludibile Oggi la maternità è un patrimonio: le donne lo valorizzino
di Silvia Vegetti Finzi


Che ne dite se una volta, almeno una volta, invece di denunciare la stanchezza, la solitudine, la mancanza di risorse economiche e di servizi delle mamme (tutto vero!) ci prendessimo la libertà, che sfiora l’incoscienza, di dire come sia importante e significativo e bello avere un bambino?
Non a caso le «feste più festose» accadono nei periodi storici e tra le popolazioni più indigenti, come se costituissero una reazione positiva ai pesanti condizionamenti imposti dalla società e dalla cultura. In questo momento il crollo delle nascite ai minimi storici (1,3 figli per ogni donna), suonando come un campanello di allarme, fa sì che s’investano più risorse sulla natalità, come mostra l’approvazione dei bonus bebè. Provvedimenti non certo risolutivi, ma significativi di una rinnovata sensibilità. Tuttavia da soli i soldi non bastano per risolvere un problema che è anche psicologico, sintomo di una caduta del desiderio inconscio, oltre che delle motivazioni razionali e coscienti.
Dagli anni ’70, abbiamo cresciuto figlie e nipoti incentivandole a studiare, trovare un lavoro soddisfacente, raggiungere elevati livelli di carriera, esprimere i loro talenti e realizzare le proprie aspirazioni. E in buona parte, ci siamo riuscite. Ma nel frattempo, poiché la vita è una coperta corta, una parte della femminilità si è raggelata: quella materna appunto. Mentre non mancano discorsi sulla sessualità, immagini erotiche, storie d’amore, discussioni sul gender, sulla maternità è caduta una cortina di silenzio. Il filo rosso che univa le generazioni femminili travasando di madre in figlia testimonianze, narrazioni ed emozioni si è interrotto e ora le adolescenti procedono ignare del compito che le attende. Le pulsioni del corpo sono state messe a tacere dalla ragione che, calcolando il futuro in termini di costi e ricavi, espelle dal suo perimetro l’ignoto rappresentato da quel misterioso, intempestivo «desiderio di pancia» con cui si dischiude il sipario della maternità.
Non si tratta più, come per secoli è avvenuto, di accettare un destino ineludibile, ma di tenerne conto considerando la possibilità di avere un figlio come un patrimonio inestimabile. Un patrimonio che può essere speso in tanti modi, ma che richiede innanzitutto di essere riconosciuto e valorizzato. E se non lo fanno le donne, nessuno lo farà al posto loro!
A cominciare dalla decisione d’inaugurare un’attesa che comporta indubbiamente dei costi, ma che, se vissuta per intero, corpo e spirito, costituisce un arricchimento della propria identità e una importante predisposizione all’accoglimento del nascituro. Difficile, nell’epoca della fretta, trovare il tempo e il modo di ascoltare il battito di cuori che funzionano all’unisono, i movimenti di corpi che si implicano a vicenda. Forte è la tentazione di procedere «come niente fosse». Eppure quel «due in uno» stabilisce una relazione che non ha eguali per intensità e durata. Destinata a sciogliersi dopo il parto e l’allattamento, l’interazione madre-figlio si troverà ad affrontare la più difficile delle prove. La madre dovrà accettare che L’ospite più atteso (come ho intitolato il mio ultimo libro) si allontani e divenga se stesso, senza mai sospendere la disponibilità e la responsabilità. Poiché tutti si nasce figli, la Festa della mamma riguarda ciascuno di noi. In qualsiasi modo si voglia esprimere, è un gesto di gratitudine che si compie. Dire grazie alla madre significa riconoscere che tutti, nei primi tempi della nostra vita, quando eravamo assolutamente dipendenti, abbiamo avuto bisogno della dedizione di una figura materna per sopravvivere.
Esprimere gratitudine per quella incondizionata disponibilità significa, sostiene il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott, liberare gli uomini dalla paura delle donne, dal timore del loro potere per stabilire, come è auspicabile, una nuova alleanza. La libertà richiede infatti di ammettere che nessuno basta a se stesso e che, nel processo di venire al mondo, il due precede l’uno. Un’etica, quella materna, che può offrire un valido paradigma di riferimento a una società disgregata dal prevalere della logica narcisistica dell’Io e del Mio, incapace di rispondere al bisogno collettivo di fiducia e di speranza.

Corriere La Lettura 14.5.17
Claudia Rannkine
«Avete inventato la razza e ci discriminate ancora. No, con voi bianchi non possiamo allearci»
di Serena Danna


Nel libro che ha cambiato i termini della discussione sulla razza in America non ci sono schiavi o predicatori ma la tennista Serena Williams, lo youtuber Jayson Musson e Trayvon Martin, il diciassettenne afroamericano ucciso da un poliziotto il 12 febbraio 2012. Sono loro i protagonisti di Citizen , il pluripremiato libro della poetessa Claudia Rankine, e di una nuova questione razziale che trova nel corpo nero — invisibile o troppo visibile, deriso, martoriato — un simbolo capace di replicarsi come un meme. A unirli, scrive Rankine — 54 anni, una cattedra in Letteratura americana al Pomona College — è «la rabbia accumulata attraverso l’esperienza e le lotte quotidiane contro la disumanizzazione che ogni persona nera o comunque scura vive semplicemente a causa del colore della pelle». Per la poetessa nata in Giamaica, sposata con il documentarista bianco John Lucas, il ceto sociale, la professione, il quartiere in cui si cresce contano poco rispetto a quell’immenso comun denominatore rappresentato dall’essere nero. Anche per questo, in Citizen , compare pure Zinedine Zidane con la sua testata a Marco Materazzi nella finale Italia-Francia del 2006: non è il campione del mondo ma un «algerino di merda, sporco terrorista».
Come mai quell’episodio è finito nel suo libro?
«La testata di Zidane è stata un incidente internazionale che va archiviato come evento razzista. Prima che si sapesse cosa aveva detto Marco Materazzi, gli esperti di lettura labiale avevano parlato di insinuazioni razziste dirette a Zidane. Poi abbiamo scoperto che gli aveva detto qualcosa tipo: “Tua sorella è una puttana”. Quest’ammissione mi ha ricordato una teoria dello psichiatra e studioso Frantz Fanon (1925-1961, ndr ), il quale sosteneva che per insultare i neri gli europei di solito insultano le donne della loro vita».
Uno dei temi ricorrenti nel suo lavoro riguarda le aspettative negative legate alla pelle scura, che non sembrano cambiate dai tempi di Fanon.
«Non è possibile eliminare del tutto gli stereotipi ma di sicuro i bianchi possono correggere, in maniera consapevole, gli atteggiamenti sbagliati nei confronti dei neri. Ad esempio, far notare ad altri bianchi quando si stanno comportando da razzisti».
La lettura di «Citizen» provoca nel lettore bianco un senso di colpa: come se il colore della pelle fosse un peccato originale che ha causato il dolore e le ingiustizie dei neri. Era il suo intento?
«L’esperienza della colpa bianca non serve se le persone che la provano non capiscono sul serio quanto le ingiustizie siano dolorose per chi le riceve e distruttive nei confronti di una società dove vige un’etica. Non si può ragionare in termini di alleanza: la nozione stessa di alleato induce in errore perché presuppone che la dominazione e la violenza bianca siano individualmente e strutturalmente accettabili in assenza di vittime».
Alcuni movimenti per i diritti civili nati negli ultimi anni credono in un approccio cosiddetto «intersezionale», basato sulla ricerca di obiettivi comuni delle vittime di diseguaglianza. Lei sembra andare in direzione contraria: i neri hanno ancora una battaglia esclusiva da combattere?
«Come abbiamo visto con le forze dell’ordine che continuano ad avere nel mirino le persone di colore, le istituzioni (come gli individui) non sono capaci di andare oltre la criminalizzazione e la cancellazione dei neri con l’immaginazione. So di poliziotti bianchi che hanno ammesso di non conoscere la ragione per cui avevano sparato a un nero disarmato.
Questa società ha creato categorie di pensiero intorno all’essere nero che portano a conseguenze terribili, come la perdita di benessere e della vita stessa. Per questo credo che, sì, esista una battaglia unica per i neri».
Lei è stata premiata con la borsa di studio della MacArthur Foundation dedicata ai «geni americani» e ha deciso di investire i 625 mila dollari del riconoscimento nella creazione dell’Institute of Racial Imaginary. Perché?
«Il nome stesso dell’istituto si lega alla missione di restituire la verità durevole della razza : un concetto totalmente inventato che tuttavia opera con una forza straordinaria nelle nostre vite di tutti i giorni, limitando i movimenti e l’immaginazione. Sappiamo che le percezioni, le risorse, i diritti e le vite stesse scorrono lungo linee razziali che portano alcuni a confrontarsi con restrizioni e altri ad avere un potere incontrollato. Queste linee sono state disegnate e conservate dal predominio bianco nonostante la ribellione di individui e di comunità. Sono convinta che dobbiamo investire nella decostruzione di queste dinamiche e capire che ci stanno distruggendo tutti».
Sostiene che tutte le sfere della vita siano «contaminate» dalla razza. Eppure in molti avevano salutato la presidenza di Obama come l’ingresso nell’epoca post- razziale...
«Abbiamo visto come il linguaggio aspirazionale di un’epoca post-razziale non l’abbia poi prodotta nella realtà. Non ci sarà giustizia se non si accompagna il desiderio a un lavoro di comprensione su quanto l’ideologia bianca e il concetto di razza controllino le nostre vite».
A questo proposito, lei sostiene che la discussione sulla razza non può limitarsi ai neri ma deve includere necessariamente i bianchi. Come?
«Abbiamo la tendenza a parlare di razzismo solo attraverso il punto di vista degli afroamericani e delle persone di colore in generale. Tuttavia le dinamiche che portano all’ingiustizia continuano solo quando c’è un investimento sociale: per frenarlo dobbiamo guardare alla costruzione dell’identità bianca e al modo in cui si lega al predominio».
L’elezione di Trump ha portato a un revival del suprematismo bianco?
«C’è una nuova enfasi sulla formazione dell’identità bianca e questo, come dicevamo, conduce inevitabilmente alla supremazia. Ci sono diversi libri sul tema, penso a Angry White Men di Michael Kimmel per citarne uno che ho letto di recente. Stando ai dati del Southern Poverty Center, dalle elezioni a oggi i crimini d’odio sono aumentati in America: le persone si sentono incoraggiate quando vedono la loro retorica incorporata dalle strutture di potere».
Negli ultimi anni abbiamo visto anche una nuova consapevolezza, dovuta in parte all’attivismo di Black Lives Matter, ma anche all’industria culturale che — dalla letteratura al cinema — ha spesso rimesso al centro la questione razziale. Crede che la vittoria agli Oscar di un film come «Moonlight» — che racconta la storia di un bambino afroamericano gay — abbia un valore simbolico importante?
«Certo, perché è un grande film. Racconta una vicenda che non avevamo ancora visto al cinema e riesce a conversare contemporaneamente con la storia del cinema americano, giapponese ed europeo».
Il suo lavoro non si esaurisce nella parola scritta, ma si nutre di contaminazioni con altre discipline: il teatro, il cinema, la performance. L’ultima frontiera è la danza. Lavorare con la fisicità nera è una ulteriore forma di indagine espressiva?
«Il mio lavoro si nutre di collaborazioni. È una pratica creativa che mi fa sentire meno sola rispetto al coinvolgimento solitario dello scrittore. Certo, sono interessata all’impatto dell’ingiustizia sul corpo e alle conseguenze che produce sia in termini di emozioni che di mobilità. Di conseguenza, lavorare con il brillante coreografo Will Rawls è stato un passaggio naturale per me».

Un’altra America, quella profonda delle comunità religiose (nella fattispecie, i mennoniti, tra i quali è cresciuta anche l’autrice) fa da sfondo al romanzo Un complicato atto d’amore (Marcos y Marcos) della canadese Miriam Toews: l’incontro con la scrittrice sarà sabato 20 in Sala Azzurra (ore 11). All’appuntamento, realizzato a cura di Caffeina Festival di Viterbo e dell’editore, interviene anche Daria Bignardi.

Corriere La Lettura 14.5.17
I passi indietro dell’Argentina
Lo sconto di pena ai militari, la crisi economica
Il futuro torna a spaventarci come il passato
di Alessia Rastelli


In due incontri si discuterà della situazione attuale in Turchia. Sabato 20 interviene al Salone di Torino lo scrittore Burhan Sönmez, autore di Istanbul Istanbul (nottetempo), in dialogo con Gabriele Santoro (Spazio Babel, ore 14.30). Domenica 21 l’incontro In esilio dalla Turchia con un giornalista turco in esilio, Can Dündar, che presenta Arrestati (Nutrimenti) all’Arena Piemonte (ore 14.30): intervengono Gigi Riva e Giulia Ansaldo.

«Avevo 21 anni quando c’è stato il colpo di stato. Mi sono rifugiata in Patagonia per un anno e mezzo, poi sono tornata a Cordoba e ho partorito mia figlia nella piccola stanza di una casa di appuntamenti, dove mi sono a lungo nascosta».
«Io ero già incinta quando la giunta militare prese il potere. Poi arrivò anche per me l’esilio interno, nella provincia di Buenos Aires. Sopravvivevo allevando polli. Mi dico sempre: “Questo è l’ultimo libro che scrivo sulla dittatura”, ma poi ne inizio un altro. Perché, anche se sono stata fortunata — non sono stata né arrestata né torturata né ammazzata — quell’esperienza ha segnato la mia vita».
María Teresa Andruetto, 1954, ed Elsa Osorio, 1953, scrittrici argentine, entrambe al Salone di Torino, appartengono alla stessa generazione da cui proveniva la maggioranza dei trentamila desaparecidos vittime del regime di Jorge Rafael Videla, dal 1976 al 1983. Nei loro nuovi romanzi, Lingua-Madre (Bompiani) e Doppio fondo (Guanda), fanno ancora i conti con la propria storia e quella del loro Paese.
In tutti e due i libri viene dato ampio spazio alla generazione dei figli dei desaparecidos. È un’evoluzione naturale della letteratura argentina che si confronta con la dittatura?
MARÍA TERESA ANDRUETTO — All’inizio ci furono soprattutto testimonianze, poi brevi racconti oggettivi e distaccati, quindi forme narrative più complesse. Dal ritrarre soprattutto i responsabili, inoltre, si è passati via via — ed è quello che mi interessa di più — alla zona grigia: a come la società abbia vissuto la dittatura, a come, per paura, indifferenza o ideologia, abbia potuto tollerare certi crimini. Adesso, infine, c’è maggiore attenzione per i figli dei desaparecidos, diventati adulti e in alcuni casi — Laura Alcoba, Félix Bruzzone, Paula Bombara, tra gli altri — loro stessi autori di racconti.
ELSA OSORIO — Già nel 1998 avevo scritto I vent’anni di Luz (Guanda), storia della figlia di una desaparecida sottratta alla sua famiglia e affidata a un militare, alla ricerca della sua vera identità. In Doppio fondo invece si parla di una donna della mia generazione prigioniera alla Esma, la scuola ufficiali della Marina argentina usata come centro di detenzione e di tortura. Al centro ci sono lei, che deve fingersi pentita della sua militanza passata, ma anche un figlio che giudica sua madre.
Dieci giorni fa la Corte Suprema argentina ha stabilito che i militari condannati per reati di lesa umanità ai tempi della dittatura possono vedere dimezzata la loro pena. E più volte le Madri di Plaza de Mayo hanno accusato Mauricio Macri di mettere a rischio il processo di memoria, verità e giustizia per i desaparecidos. Cosa pensate della linea del presidente?
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Da quando è stato eletto Macri, ci sono stati molti tentativi di ridimensionare l’importanza dei diritti umani, fino all’assurdità di mettere in dubbio, in un’intervista del presidente, il numero dei desaparecidos. Una cifra simbolica, trentamila, perché in realtà sono di più. Quanto alla decisione della Corte Suprema, la Camera ha già votato contro, inclusi i deputati del partito del presidente. Lui è l’unico che non ha detto una parola.
ELSA OSORIO — Appena ho saputo della Corte Suprema sono tornata ad avere le paure di un tempo. Non credo che la decisione sia stata un errore, è stata voluta, cercata. Ma noi non perdoniamo, non dimentichiamo, non ci riconciliamo. Noi chiediamo giustizia. Proprio per questo ho partecipato alla marcia organizzata in tutto il Paese contro la scelta della Corte.
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Anche io sono andata con mio marito, mia figlia e la mia nipotina. Dietro tutto questo c’è un tentativo di restaurazione economica che sarebbe devastante. Si vuole tornare alle politiche che subimmo durante la dittatura e sotto la presidenza Menem, negli anni Novanta: una restaurazione conservatrice che apre indiscriminatamente le porte del Paese e che favorisce solo una piccola fetta della società. Questa è la ragione per cui furono uccise tante persone, questa è la ragione, oggi, del voler tornare al passato.
ELSA OSORIO — È vero, il sistema imposto durante la dittatura è quello che vogliono recuperare adesso.
Nel Paese monta la protesta. Per l’Ocse il Pil crescerà del 3% nel 2017. Coma sta davvero l’Argentina?
ELSA OSORIO — Speriamo che la situazione migliori ma ora vedo un panorama grigio. È più caro andare al supermercato a Buenos Aires che a Parigi. I pensionati non riescono a pagare le medicine, i cittadini della classe media il riscaldamento, ci sono stati rincari fino al 1.000% su luce e gas. Anche le milonghe e le macellerie, nel Paese del tango e della carne, sono andate in rovina.
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Le frontiere sono aperte e migliaia di piccole e medie imprese hanno chiuso. Negli ultimi due anni non sono stati garantiti i libri nelle scuole. Il valore del salario si è molto ridotto e così i consumi. Il governo parla di ripresa ma io non vedo segnali, anzi ne colgo solo di disastrosi. Per fortuna l’Argentina ha una grande capacità di opporsi: a marzo ci sono state cinque marce in un mese: per la difesa dei lavoratori, ma anche delle donne e della memoria.
Recessione, diseguaglianze, fragilità delle istituzioni, corruzione e criminalità sembrano attraversare l’America Latina. Il caso più evidente è il Venezuela di Maduro. In aggiunta Donald Trump si presenta meno rassicurante di Barack Obama. Che cosa vi aspettate a breve e lungo termine?
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Noto un peggioramento al livello dei governi sudamericani: con lo spostamento a destra viene a mancare la protezione per il proprio Paese, di cui fanno le spese le classi medio-basse. Secondo me, invece, lo Stato dovrebbe farsi carico di alcuni settori fondamentali come sanità, istruzione e informazione.
ELSA OSORIO — Fino a due anni fa c’era senso di unione tra gli Stati dell’America Latina, ora lo coltivano solo Ecuador e Bolivia. In Venezuela la situazione cambia di continuo. In Brasile c’è stato di fatto un golpe bianco. Sono delusa, siamo tornati indietro. E non condivido che agli Usa sia concesso di avere da noi un ruolo importante. Con Trump tutto si è complicato, per il mondo intero.
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Il nuovo presidente è brutale ma in fondo ha solo messo fine al politicamente corretto. L’industria della guerra, in nome della quale sono state uccise milioni di persone, c’era già prima di lui ma si è sempre stati attenti a mantenere l’immagine democratica degli Stati Uniti. Come America Latina sarebbe bene essere indipendenti economicamente e dialogare anche con altri Paesi. Da Trump non possiamo aspettarci cose buone ma la sua volontà di distruggere e dominare non è nuova: sei anni fa sono stata a Ciudad Juárez e il muro c’era già.
La scorsa settimana Sergio Mattarella, in visita a Buenos Aires, ha detto che italiani e argentini sono «come fratelli». Nel vostro Paese ci sono 20 milioni di italo-argentini, pari a quasi metà della popolazione. Oggi invece i migranti arrivano da altri Stati dell’America Latina.
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Sì ma sono meno che negli anni Novanta, quando la nostra moneta, il peso, era forte e attiravamo immigrazione soprattutto da Paraguay e Bolivia. Oggi ci siamo impoveriti e abbiamo bisogno di meno persone.
ELSA OSORIO — L’immigrazione forte dall’Europa fu un modello di integrazione: tutti noi veniamo da qualche altra parte. Per i migranti che oggi arrivano dall’America Latina sento invece parlare di medici che rifiutano di curarli, persino di carcere. È un passo indietro, lontano dalla nostra tradizione di accoglienza.
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Mio padre e i miei nonni materni erano piemontesi. Lo racconto nel libro per ragazzi Viaggio di Stefano (Mondadori). L’approccio dell’Argentina con gli europei fu diverso perché puntavamo a essere una parte del Vecchio Continente in Sudamerica, più forte dei Paesi circostanti. Invece non saremmo ciò che siamo senza la popolazione indigena, che ha contribuito alla nostra natura mista e dinamica.
Anche Papa Francesco ha origini italiane e nel suo messaggio di Pasqua ha ricordato l’America Latina, esortando a costruire «ponti di dialogo», a perseverare nella lotta alla corruzione e nella ricerca di «soluzioni pacifiche, per il progresso e il consolidamento delle istituzioni democratiche».
MARÍA TERESA ANDRUETTO — Non è abituale negli alti vertici della Chiesa parlare di temi come il Sudamerica o i migranti. Talora come argentini vorremmo che fosse più radicale, una sorta di politico del nostro Paese a Roma, ma visto il ruolo sappiamo che è impossibile.
ELSA OSORIO — Sono rimasta positivamente sorpresa da Bergoglio. In Argentina la Chiesa è stata più complice che oppositrice durante la dittatura e il modo in cui lui si pone mi piace. Non solo può recuperare fedeli ma con il suo intervento potrebbero aprirsi archivi importanti per rintracciare bambini, donne e uomini. Sono andata anche a vederlo dal vivo, mi entusiasma.

Corriere La Lettura 14.5.17
Il settimo giorno della guerra dei Sei Giorni
1967-2017 Iterritori conquistati 50 anni fa sono un pesante fardello per Israele
di Lorenzo Cremonesi


Per Israele fu una vittoria straordinaria, quasi magica grazie ai successi militari fulminei su tutti i fronti. Per il mondo arabo si rivelò una sconfitta umiliante, tanto grave da condizionarlo per decenni. La chiamano guerra dei Sei Giorni, anche se in verità fu combattuta in poco meno di cinque. Viviamo tutti ancora sotto l’ombra lunga di quella guerra, affermano coloro che si occupano di Medio Oriente, compresi israeliani e palestinesi, per una volta concordi. Marcò tra l’altro l’inizio della decadenza del nasserismo e del nazionalismo arabo laico, mentre ha prodotto il rilancio dell’islam politico, dei Fratelli musulmani, e ha posto persino le fondamenta di al Qaeda e dell’Isis.
Le premesse più dirette risalgono al conflitto per Suez del 1956 (estremo singulto coloniale nell’era della guerra fredda), al termine del quale Usa e Urss costrinsero Israele ad abbandonare il Sinai e la striscia di Gaza. In cambio la penisola venne demilitarizzata con la presenza di un contingente dell’Onu. Undici anni dopo i sovietici, convinti che Israele prima o poi avrebbe attaccato la Siria, spinsero i leader arabi al conflitto, fornendo anche dati d’intelligence falsi, secondo i quali lo stato maggiore a Tel Aviv sarebbe stato in procinto di invadere le alture siriane del Golan. Il presidente egiziano Gamal Abdel Nasser, leader popolare del panarabismo, si scagliò contro il «nemico sionista da ributtare a mare». Divenne come prigioniero della sua retorica, tanto che il 17 maggio 1967 chiese il ritiro parziale dei 3.400 caschi blu al segretario generale dell’Onu U Thant. Questi commise un grave errore, sperando di dissuadere l’Egitto: o tutti o nessuno. Nasser non poteva perdere la faccia, era andato troppo in là nell’invocare la «liberazione della Palestina», così cacciò l’Onu e superò la linea rossa posta da Israele, inviando 600 carri armati e centomila uomini nel Sinai. Voleva veramente la guerra? No, almeno non in quel momento, non era pronto, un terzo del suo esercito era impegnato nello Yemen. Ma il conto alla rovescia era innescato.
In Israele regnava l’indecisione. Il premier Levi Eshkol tentennava. Il suo ministro della Difesa, Moshe Dayan, propendeva per l’azione immediata. Il padre della patria David Ben Gurion paventava un «nuovo Olocausto». A spostare il pendolo a favore dell’attacco fu l’intelligence militare: avevano i numeri in mano, informazioni accurate, il piano comportava un attacco aereo iniziale a sorpresa. Conoscevano i nomi dei piloti egiziani, avevano le foto aeree dei loro jet disposti sulle piste, delle unità di terra nel Sinai. Così il 20 maggio scattò la mobilitazione, con 264 mila israeliani sotto le armi: una situazione che poteva durare solo pochi giorni per evitare la paralisi dell’economia. Alle 7.45 del 5 giugno la prima ondata aerea appare nei cieli egiziani. Hanno volato rasoterra per ingannare i radar. Sono quaranta caccia Mirage e altrettanti bombardieri Mystère. Prima di mezzogiorno la Pearl Harbour egiziana si è compiuta. La guerra è già decisa. Almeno 309 dei 340 aerei da combattimento di Nasser sono torce fumanti. Ma dal Cairo si parla di «strabilianti vittorie». Israele tace e colpisce. «Da Gerusalemme mi comunicavano discreti che, se non mi fossi mosso, loro non avrebbero attaccato la Giordania. Per contro Nasser mi fece avere le immagini dei suoi radar: mostravano decine di aerei in volo sul Sinai. Mi disse che erano i suoi che tornavano dai raid contro i sionisti e che dovevo mandare all’attacco il mio esercito, se volevo poi unirmi e beneficiare della vittoria. Fui imbrogliato, in realtà erano le ondate degli israeliani che avevano ridotto in cenere i suoi», confidò re Hussein di Giordania al «Corriere» nel 1991. Un’amarezza che ben riflette le ragioni della disfatta araba: mancanza di coordinamento, tradimenti, gelosie. La tanto celebrata «unità panaraba» si rivelò vuota retorica.
Quando arrivano al canale di Suez gli israeliani hanno perso circa 300 uomini, gli egiziani oltre 15 mila. Inoltre 800 tank di Nasser sono cenere o catturati, 10 mila suoi automezzi sono nelle mani degli israeliani. Il 7 giugno è presa anche Gerusalemme Est, l’8 il Giordano diventa confine. Solo adesso Dayan ordina l’attacco sul Golan, che viene preso in 27 ore. Il 10 giugno a Damasco sventola bandiera bianca.
Eppure, per Israele quel successo fu anche una maledizione. Riassume lo storico Benny Morris: «Per gli arabi fu evidente che non potevano più sperare di annullarci militarmente. La guerra del Kippur nel 1973 vide Egitto e Siria decise a riprendersi almeno parte delle terre perdute, ma non mirava a ributtare tutti gli ebrei a mare come invece predicava Nasser. Però per Israele si spalancò allora un grave pericolo interno, destabilizzante, esistenziale. Il nuovo controllo sulle regioni dell’Israele biblica vide il connubio tra nazionalismo e religione, incarnata nei movimenti estremisti messianici di coloni che andavano a insediarsi nelle aree conquistate».
L’occupazione destabilizza e lacera le esistenze degli occupati, ma corrompe e vizia anche gli occupanti, sostiene da anni Amos Oz. Così gli israeliani persero la loro «verginità morale». Il Paese nato dai profughi in fuga dall’antisemitismo europeo, dai miti della resistenza al nazismo, dalla convinzione di aver guadagnato il diritto di esistere anche col sangue della Shoah, si ritrovò a mettere in atto un ampio meccanismo di controllo e repressione tra Cisgiordania e Gaza. A Hebron pochi mesi dopo la guerra arrivò un gruppo di estremisti religiosi che volle celebrare la Pasqua nell’antico edificio della «Tomba dei Patriarchi» per esaltare la cerimonia «del ritorno». Gli stessi dirigenti laburisti ne furono in gran parte contenti, videro in quei ragazzi infervorati dallo zelo religioso e nei loro rabbini esaltati una reincarnazione dei pionieri dei kibbutz. E nacquero ambiguità profonde: Israele offriva la pace in cambio del ritiro sui confini del 1948 (proposta allora rifiutata dai leader arabi), nel contempo si ponevano le basi della colonizzazione a tappeto che oggi ha de facto vanificato la formula «pace in cambio della terra» e aperto per lo Stato ebraico il dilemma del braccio di ferro demografico con i palestinesi.
Una data tragica e catartica segna questa parabola: 4 novembre 1995. Allora, nella piazza centrale di Tel Aviv, mentre la sinistra celebrava gli accordi di Oslo con i palestinesi, uno dei figli più fanatici dei gruppi ultranazionalisti fioriti dalla guerra dei Sei Giorni uccise uno dei padri di quell’evento: il primo ministro Yitzhak Rabin, che era stato il capo di stato maggiore dell’esercito nel 1967, l’uomo chiave della vittoria. Per tutta la vita aveva temuto di essere eliminato da un arabo. Mai da Ygal Amir, un ebreo nato vicino a Tel Aviv nel 1970, che lo accusava di «tradimento».

Corriere La Lettura 14.5.17
L’arma letale di Aristofane
Ad Atene il teatro aveva una forte impronta politica. Con effetti molto pericolosiPer i conservatori il popolo è solo una porzione del corpo sociale: quella che vive nelle campagne e si riconosce nei sani valori della tradizione
di Mauro Bonazzi


Che cosa succede quando un comico comincia a fare politica? Che vuol dire «popolo» in democrazia? Sono le domande intorno a cui ruota il nuovo libro di Luciano Canfora Cleofonte deve morire (Laterza). Protagonista indiscusso è Aristofane, il più noto commediografo di Atene, uno dei più grandi di tutti i tempi. L’ideatore di storie strampalate (città costruite in cielo, viaggi nell’oltretomba) con personaggi esilaranti (ossessionati dal sesso o dai tribunali, inseguiti dai creditori, che si depilano petto e gambe: una bella descrizione degli italiani, tra l’altro). Le battute si susseguono con ritmo vorticoso, su piani linguistici diversi, ora volgari ora raffinati, più spesso entrambi insieme. Senza riguardo per niente e nessuno, perché l’unico obiettivo è la risata, e la vittoria nella competizione teatrale.
Tutte cose note, per chi si è divertito con le sue commedie. Meno note sono invece le implicazioni politiche che si nascondono nei suoi versi, soprattutto dove meno ce lo si aspetta. Di questo si occupa Canfora, e improvvisamente si squaderna davanti agli occhi del lettore la vita di una città in permanente fibrillazione, lacerata da scontri sempre più violenti, incapace di resistere alle passioni che la travolgono. Ad Atene tutto è politico.
In alcuni casi la polemica è tanto virulenta quanto esplicita — nei Cavalieri il Paflagone che i cavalieri devono sconfiggere allude smaccatamente all’odiato Cleone, il leader democratico erede di Pericle. Ma è nelle commedie cosiddette d’evasione che il discorso si fa più interessante. Nella Lisistrata ad esempio, in cui la trama boccaccesca — uno sciopero del sesso fino a che i maschi non firmeranno la pace con Sparta — serve anche a descrivere il colpo di Stato oligarchico del 411. La parola d’ordine, che deve legittimare la congiura di fronte all’assemblea popolare, è la stessa che Lisistrata ha difeso in scena: è solo per poter concludere il più in fretta possibile una guerra vantaggiosa per pochi che bisogna destituire gli attuali governanti democratici. La commedia, insomma, non è solo una descrizione, ma anche una difesa della necessità del putsch . Ancora, nelle Rane del 406 lo strampalato viaggio di Dioniso agli Inferi è ripetutamente interrotto da proclami che invitano all’unità e alla concordia, per restituire i diritti civici a quei cittadini che li avevano persi. Un invito lodevole, se preso in termini generici. Un invito più problematico, quando si pensa chi sono i cittadini che vanno reintegrati nel corpo della città: i responsabili delle sedizioni degli anni precedenti, che in quei mesi stavano orchestrando l’assassinio del democratico Cleofonte e che di lì a poco avrebbero nuovamente abbattuto il governo, grazie all’intervento spartano. Aveva le idee chiare, Aristofane, e sapeva come esprimerle.
In palio c’è il controllo del «popolo», che è poi l’obiettivo di tutti i conflitti politici. Inventori della democrazia, gli Ateniesi lo hanno capito per primi: «popolo» è un termine vuoto, che attende di essere riempito di un contenuto. È una entità la cui natura sarà determinata da chi prevale nello scontro politico. Per i democratici il popolo è la collettività, che insieme stabilisce le leggi e i princìpi che permetteranno a tutti di prosperare. Niente di più fuorviante per gli oligarchici, di cui Aristofane sembra condividere le idee, che nel popolo vedono invece una parte soltanto del corpo sociale: quella maggioranza silenziosa che abita nelle campagne e che si riconosce nei sani valori della tradizione. Una maggioranza destinata ad essere sopraffatta dal blocco sociale urbano (dedito agli affari e ai commerci, e per questo bisognoso di un impero globale), se non saprà affidarsi alle persone giuste: «Dementi, cambiate sistema e tornate a servirvi delle persone per bene!», tuona il coro delle Rane . Sono dibattiti che non mancano di attualità, viene da osservare. E Aristofane — raffinato e moderno maestro di comunicazione politica, che indossa una maschera popolana per accreditarsi come la guida capace di salvare la città — ha tanto da insegnarci oggi, in un mondo in cui il dibattito politico è sempre più influenzato dall’adozione di registri comici e satirici.
Perché se in politica tutto passa per le parole, la commedia, grazie alla libertà che le è concessa, acquista un peso notevole: con le sue battute può parlare di quello di cui gli altri devono tacere; e può colpire dove le difese sono più sguarnite.
Il gioco, però, è rischioso. Fino a che si tiene sopra le parti, questa libertà ha un che di meraviglioso: smaschera le ipocrisie del potere, svelando le realtà poco nobili che si nascondono dietro ai proclami altisonanti. Ma quando passa a difendere gli interessi di una fazione, il potere di cui dispone e gli eccessi in cui inevitabilmente cade (deve pur far ridere, altrimenti è solo noioso moralismo) rischiano di scatenare passioni che poi è difficile controllare. Contribuendo nell’immediato al successo della sua parte, sulla lunga distanza alza il livello della conflittualità, rendendo normale quello che normale non dovrebbe essere: l’attacco diretto, la battuta greve, la deformazione non più divertente — tutte cose di cui poi ci si pente, sorpresi di aver potuto osare tanto. Sempre troppo tardi, però. Sono dinamiche che non hanno aiutato gli Ateniesi. Speriamo di essere più saggi.
Il filosofo Giorgio Agamben sarà sabato 20 in Sala Rossa (ore 14) con il suo Autoritratto nello studio (nottetempo), dopo Che cos’è la filosofia? (Quodlibet, 2016) e Che cos’è reale? La scomparsa di Majorana (Neri Pozza, 2016). In Salone anche un omaggio al docente e poeta Giorgio Bàrberi Squarotti, scomparso un mese fa: giovedì 18 si presenta Dialogo infinito (Genesi ) con Valter Boggione e Sandro Gros-Pietro (Spazio Autori, ore 18.30).

Corriere La Lettura 14.5.17
Dopo il lavoro sulla reinterpretazione della legge di Moè in  chiave moderna proviamo a proporre alcuni precetti etici in sintonia con la sensibilità dei nostri tempi
Accoglinza
Non basta più essere tolleranti Accettiamo i rischi dell’incontro
di Donatella Di Cesare


Nell’età del libero odio e della regressione violenta il fango non ha risparmiato né l’accoglienza né l’altro. Come se si trattasse di un buonismo caricaturale, di un precetto per anime belle, di quell’etica che ha fatto il suo tempo. Quante storie, insomma, per la cosiddetta «differenza», quella delle donne, degli ebrei, degli omosessuali, dei diversi da «noi», quante storie per gli altri, gli stranieri, gli estranei, quelli che vengono da fuori, non invitati, i malvenuti.
Prima veniamo «noi», poi gli altri! E prima del noi — s’intende — vengo «io». Ecco la nuova «morale» del XXI secolo, ben centrata sull’ego, uguale a se stesso, coincidente con sé. Un ego che si chiude, anzi si blinda, erige muri, innalza frontiere, installa videocamere, nell’angoscia quotidiana che l’altro, l’ospite indesiderato, o meglio, il nemico, possa sopraggiungere d’un tratto.
Questo io snervato dalla paura, barricato in se stesso, ogni tanto si rende conto che, da solo, proprio non ce la fa; piuttosto che spiare fuori, apre un po’ la porta. Lascia entrare l’altro — solo per breve tempo e solo a certe condizioni. Chissà, potrebbe magari tornargli utile. Si mostra addirittura tollerante, parla di «assimilazione», «integrazione». È l’altro che deve rendersi simile, è l’altro che deve adeguarsi. Se questo non accade, se l’altro, nella sua alterità, fa ostacolo, se per caso si ribella, rivendicando la sua differenza, prima ancora della sua libertà, allora l’io potrebbe spazientirsi e fargliela pagare. Il femminicidio — estremo gesto di una violenza diffusa e sistematica sulle donne — va considerato in questo complessivo naufragio dell’etica.
«Tolleranza» è una brutta parola. È la parola pronunciata dall’io sovrano che, dall’alto del suo potere, sopporta la differenza dell’altro. Il cristiano tollera l’ebreo (fino a un certo punto), il bianco tollera il nero. Il presunto autoctono tollera lo straniero. L’io lascia all’altro un piccolo posto nella propria casa — ma potrebbe scacciarlo quando vuole. Si esaurisce qui il modello illuminato della coabitazione tollerante.
Questa morale non va più. Certo, è meglio che essere intolleranti. Ma il punto è che non si può pretendere di immunizzarsi dall’altro. L’io rintanato in sé finisce per girare su se stesso in una fallimentare girandola. Accogliere l’altro significa aprirsi alla sua irriducibile alterità. Perché l’altro non è il limite contro cui urtiamo, ma al contrario, solo l’altro, non senza scuotere e inquietare, può davvero portarci oltre i nostri limiti.

Corriere La Lettura 14.5.17
Religione
di Marco Ventura


Tra le fedi può scoppiare la pace se imparano a vivere insieme
Viviamo in un mondo popolato da tanti dèi. D’istinto rinserriamo le file, sventoliamo le bandiere; mobilitiamo e irrigidiamo le identità religiose. «Genti venute dall’Est credevano in un altro diverso da te e non mi hanno fatto del male», cantava Fabrizio De André nel 1970. A noi, invece, hanno fatto male eccome. Perciò non siamo disposti a tollerare gli intolleranti, e tuttavia crediamo ancora nella convivenza pacifica tra le fedi. Possibile per noi, com’è stata possibile in altri tempi e spazi.
«Rispetta il Dio altrui», allora, diviene il comandamento chiave del nostro tempo. Non pretendere che chi crede in un Dio diverso dal tuo celi la propria fede, la alteri o la abbandoni; non esigere che si astenga dal praticare il proprio culto o dal seguirne i precetti, a meno che ciò non comporti un pregiudizio per qualcuno. Accetta che il Dio altrui strattoni il tuo, lo sfidi, gli chieda conto della sua divinità, della sua verità e del bene che l’uomo trae dal venerarlo e dall’obbedirgli; accetta di parlare con chi crede in un altro Dio, di sedere alla stessa mensa, nuotare nella stessa acqua, decomporti nella stessa terra, istruirti nella stessa scuola, votare nello stesso Parlamento. Non usare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso contro il Dio altrui. Non usare il tuo Dio per dominare lo Stato, la politica, i soldi e il sesso.
In un mondo sempre più cristiano e più musulmano, devi preoccuparti anche dei piccoli dèi e dei pochi credenti, delle religioni che vengono scacciate da una foresta distrutta, delle comunità sfrattate da un dittatore; in questa società piena di dèi rigonfi, sgargianti e urlanti, abbi cura delle divinità smilze, modeste e silenziose.
Davanti ai tanti che non credono, rispetta il non Dio altrui; se non credi in alcun Dio, rispetta chi ti accusa di non averci capito niente. Se non vuoi dare un nome al tuo Dio, rispetta chi si riempie la bocca dei titoli del suo; se credi che un vero Dio gridi forte il suo nome, rispetta chi sulla carta d’identità lascia in bianco la casella religione. Quando incontri adepti del Dio del mercato, dello star system e della moda, della scienza e della tecnica, rispetta la loro fede. Se credi in quel Dio, rispetta a tua volta chi crede nel Dio dei poveri, dei refrattari al palcoscenico, degli allergici all’innovazione, degli obiettori al progresso.
Nel tempo dei monoteismi, rammentati delle virtù dell’Olimpo greco e del Kailash indù; nel tempo degli idoli a prezzo scontato, ricordati che non avrai altro Dio all’infuori di me.

Il Sole 14.5.17
Il viaggio di Francesco
Fatima e quel filo che lega Bergoglio alla Storia
di Bruno Forte
Arcivescovo di Chieti-Vasto


In quel 1917, che con l’avvicinarsi della fine della prima guerra mondiale segnava l’effettivo inizio storico del Novecento al di là del mero inizio cronologico, rimasto in perfetta continuità con l’Ottocento liberale e borghese, dal 13 maggio al 13 ottobre a Fatima in Portogallo tre ragazzi vissero una straordinaria esperienza di ascolto e di visione della Vergine Maria. Da lei affermarono di aver ricevuto un messaggio da trasmettere al mondo, il cui contenuto era effettivamente di singolare portata profetica: vi si annunciavano i grandi eventi del secolo da poco iniziato, le immani violenze che lo avrebbero caratterizzato, i totalitarismi ciechi che vi si sarebbero affermati, la loro fine, le persecuzioni dei credenti e la testimonianza fedele di molti di essi, culminante nel sigillo di sangue versato dal «Vescovo vestito di bianco, che prega per tutti».
Molti hanno riconosciuto in Giovanni Paolo II, gravemente ferito dall’attentato subito nel 1981, il realizzarsi anche di questa profezia. Certo è che un legame speciale ha unito il Papa polacco a Fatima, dove egli volle recarsi pellegrino più volte.
Ecco perché vorrei accostarmi al messaggio di quelle apparizioni, che la visita di Papa Francesco ha riproposto a tutti, partendo da alcuni versi di Karol Wojtyla, che evocano intensamente il mondo interiore della Madre di Gesù a partire dall’ora dell’annunciazione: «Questo momento, di tutta la vita, da che lo conobbi nella parola, / da quando divenne mio corpo, nutrito in me col mio sangue, / custodito nell’estasi / cresceva nel mio cuore in silenzio, / tra i miei stupiti pensieri e il lavoro quotidiano delle mie mani. / Questo momento è di nuovo così intatto, al suo culmine, / perché di nuovo T’incontra: / manca solo quella goccia alle ciglia / dove i raggi degli occhi si dileguano nella frescura dell’aria. / Ma l’immensa stanchezza ha ormai trovato la sua luce, il suo senso».
Sono versi che riassumono la vicenda di Maria di Nazaret, esprimendo al tempo stesso il significato per tutti di quanto avvenuto in lei, con un’intimità che abita le parole rendendole gravide di un colloquio con lei antico e costante, fatto di ascolti, d’invocazioni, di confidenza tenera e profonda. Da tutto questo viene una luce singolare anche sul pellegrinaggio che ha portato Papa Francesco, secondo successore di Giovanni Paolo II, sul luogo dove i tre pastorelli ricevettero il messaggio esattamente un secolo fa: se tutti i viaggi di questo Papa hanno un significato proprio e originale, se quello recente in Egitto è stato il denso compendio di quanto va detto al mondo sulla necessità del dialogo ecumenico e interreligioso nell’ineliminabile fedeltà alla verità, questo pellegrinaggio a Fatima nel centenario degli eventi che profetizzarono il secolo XX si presenta come un tributo d’amore personalissimo che il Papa “venuto dalla fine del mondo” ha voluto rendere alla Madre del Signore. In Maria Begoglio testimonia di aver trovato conforto e aiuto in tutte le ore della Sua vita, rinnovandole affidamento e amore tanto nelle visite al Santuario della Virgen de Luján a Buenos Aires, quanto in quelle nella Basilica di Santa Maria Maggiore a Roma.
A Lei Francesco ha inteso consegnare il secolo, la cui chiave di comprensione era stata offerta ai tre “piccoli della terra” nelle ore drammatiche in cui con l’avvicinarsi della fine della prima guerra mondiale e l’imminente rivoluzione bolscevica tramontava l’ottimismo liberale del progresso, tipico dell’800, e si apriva il tempo delle grandi crisi, dei totalitarismi e delle velocissime trasformazioni della tecnica, il “secolo breve” (Eric Hobsbawm) delle grandi conquiste scientifice e mediatiche, del trionfo violento e del non meno traumatico declino delle ideologie prodotte dalla ragione moderna. La biografia di Jorge Mario Bergoglio si intreccia talmente a questi eventi, che il suo tributo alla Vergine venerata a Fatima è un riconoscimento solenne di quella chiave di comprensione del secolo, che nelle apparizioni fu consegnata ai tre pastorelli.
Questa chiave è il centro e il cuore del messaggio, instancabilmente proclamato da Papa Francesco: Dio solo è il Signore della vita e della storia; un’umanità senza Dio è un’umanità più povera, non più libera e felice; solo un affidamento umile e innamorato al Signore assicura speranza per il mondo. È quanto aveva espresso con parole semplici la più grande dei tre pastorelli, Suor Lucia, descrivendo l’esperienza vissuta: «La forza della presenza di Dio era così intensa, che ci assorbiva e annichiliva quasi completamente. Sembrava privarci anche dell’uso dei sensi corporali. La pace e la felicità che sentivamo erano grandi, ma tutte interiori, con l’animo completamente raccolto in Dio». In Dio questo Papa ha vissuto gli eventi della sua vita, dagli anni della formazione e delle non facili responsabilità affidategli sin da giovane nella Compagnia di Gesù, a quelli della resistenza ferma alla violenza della dittatura e del coraggioso impegno per salvare tante vite innocenti, fino al ministero universale di vescovo di Roma: questo essere raccolto in Dio, sull’esempio del suo Ignazio di Loyola, è la sua forza, la sorgente della sua libertà, ciò che dà conferma delle sue ragioni.
Il suo pellegrinaggio a Fatima, da Colei che la fede saluta madre dei poveri e vincitrice dei potenti, è stato un confessare nella maniera più alta che il secolo iniziato potrà evitare le tragedie di quello che si è concluso a una sola condizione: il ritorno a Dio. «Il XXI secolo o sarà mistico o non sarà»: questa frase di André Malraux sembra risuonare in tutta la sua forza nel gesto del Papa pellegrino dell’anima al luogo dove - nella corona posta sul capo della piccola statua di Maria - è incastonato il proiettile che il 13 maggio 1981 non riuscì a fermare San Giovanni Paolo II, segno che i disegni del Signore erano altri e che l’annuncio ai piccoli pastori riguardo alla signoria e alla vittoria di Dio non era stato smentito. L’Eterno si rivela anche così come il Signore della storia, ben al di sopra dei potenti di questo mondo: e il messaggio di Fatima - apparentemente incredibile al momento in cui fu dato - suona oggi ricco di una straordinaria potenza, fonte di speranza al di là del naufragio delle presunzioni ideologiche e di impegno al di là di ogni rinuncia ad amare e a giocare la vita per gli altri. Come ha detto Papa Francesco, Maria «ci insegna la virtù dell’attesa, anche quando tutto appare privo di senso: lei sempre fiduciosa nel mistero di Dio, anche quando Lui sembra eclissarsi per colpa del male del mondo».
Ai credenti un tale messaggio chiede di essere non meno, ma più testimoni di Dio e del Suo primato; ai non credenti pensosi esso pone con forza i grandi interrogativi sulla vita e sulla morte, sul male e sul bene, invitandoli all’ascolto del Mistero e alla passione per la Verità, oltre tutte le derive deboliste di una certa post-modernità. Sapranno gli uni e gli altri essere all’altezza della promessa e della sfida? Il Papa pellegrino a Fatima lancia a tutti queste domande, al tempo stesso scomode e necessarie, e indica la via per trovare la luce di risposte affidabili ad esse...

Il Sole 14.5.17
La sfida del Dragone. Oggi e domani a Pechino 28 leader mondiali con il premier Gentiloni discutono del piano infrastrutturale
La Cina avanza sulla Via della seta
Una rete per collegare il gigante asiatico a Europa e Africa, ma gli investimenti scendono
Pechino
di Rita Fatiiguso


Xi Jinping ha già stravinto, incassando due risultati politicamente eccezionali, frutto di un’intensa attività diplomatica condotta in queste ultime settimane. Oggi il presidente si presenta rafforzato all’apertura della due giorni di Forum che servirà a presentare al mondo la One Belt One Road (Obor) initiative, perché può contare sulla partecipazione di una delegazione americana, per nulla scontata. Anzi.
La novità delle ultime ore è frutto della prima tappa del negoziato dei cento giorni avviato in Florida, a Mar-a-Lago, nell’incontro dei due presidenti e culminata, oltre a una serie di accordi commerciali, nel solenne riconoscimento americano dell’importanza della One Belt One Road initiative. Non solo. Non è un caso che ieri, atterrando a Pechino, un funzionario della delegazione nordcoreana attesa al Forum abbia dichiarato che Pyongyang è disposta a dialogare, a certe condizioni, con gli Usa. In pratica, un’altra novità destinata a rimettere in discussione le dinamiche tra Cina e Usa sul versante della Penisola coreana.
Quindi la cerimonia di apertura del Forum, con i 28 capi di Stato e di Governo e le rappresentanze in arrivo da mezzo mondo, acquista tutto un altro peso e sapore. Come pure la giornata dedicata al dialogo politico che si concluderà con uno statement destinato anch’esso ad avere un peso specifico nei rapporti tra Asia e resto del mondo. All’Italia, presente con il premier Paolo Gentiloni, è stato riservato un posto d’onore; l’Obor offre l’occasione per chiudere una serie di dossier ai quali l’Italia lavora alacremente, da tempo, nei rapporti con i cinesi.
La capitale, Pechino, oggi è praticamente blindata per ragioni di sicurezza e, come sempre, lo show che culminerà domani con il dialogo politico a Yanqi Lake non dovrà fare una grinza. Del resto sulla New silk road Pechino ha già puntato sessanta miliardi di dollari concentrati sulla connettività e la cooperazione tra Cina e i Paesi eurasiatici. Una strategia che si snoda tra terra e mare e che è stata svelata nell’autunno del 2013 e poi promossa dal premier Li Keqiang durante svariate visite di Stato in Asia e in Europa.
La cintura (belt) ricomprende i Paesi situati sulla direttrice che taglia l’Asia centrale, l’Asia occidentale, il Medio Oriente e l’Europa. La Cina punta a integrare le varie componenti, dal commercio, alle infrastrutture, alla cultura, all’interconnettività. Ma l’area, nella visione di Xi Jinping, si estende anche all’Asia Sud-orientale e a Nord, attraverso l’Asia centrale, alla Russia e poi all’Europa.
Quella marittima, infine, si estende fino al Sud-Est asiatico, all’Oceania e al Nord Africa.
Ben sei corridoi si snodano in questa area, il più avviato è quello che collega Cina e Pakistan attraverso il porto di Gwadar.
In questo quadro un ruolo determinante è affidato alla Banca d’investimento per le infrastrutture asiatiche, l’Aiib, lanciata dalla Cina nell'ottobre 2013 (e di cui l’Italia è membro fondatore), una banca di sviluppo dedicata al finanziamento di progetti infrastrutturali. Molti dei Paesi che fanno parte del progetto One Belt One Road sono anche membri della banca d’investimento, ma le cose stanno cambiando velocemente.
Sempre ieri, a dimostrazione del fatto che la strategia tentacolare cinese non ha più limiti, il presidente Jin Liqun, ricevendo nella sede della Banca, per la prima volta, un capo di Stato, ovvero la presidente del Cile Michelle Bachelet, ha annunciato l’adesione del Paese latinoamericano e di altri sei Paesi.
Gli Stati aderenti all’Aiib sono arrivati a quota 77. Un grande successo per un’iniziativa che solo due anni fa muoveva i primi passi nello scetticismo generale, ma la vera novità sta nell’adesione dei Paesi dell’America Latina, prima Perù, Venezuela, Brasile, ora il Cile e la Bolivia, mentre l’Argentina è in predicato.
Michelle Bachelet ha detto ai cronisti che il Cile dà il benvenuto alla Banca e che questo sarà un bene per un Paese che ha bisogno di infrastrutture anche nelle telecomunicazioni. Un grande atout per l’Aiib, una banca sempre meno asiatica e sempre più mondiale. Come si giustifica questo allargamento ben oltre la Via della seta? «Certo la Via della seta non passava dall’America Latina – dice al Sole 24 Ore Fernando Reyes Matta, ambasciatore cileno a Pechino fino al 2010 - in questo mondo ormai globalizzato, però, il Cile fa arrivare quintali di ciliegie di ottima qualità in Cina con i cargo che fanno tappa a Auckland, quindi, se non è questa la Nuova via della seta, di cosa stiamo parlando?».

il manifesto 14.5.17
Oggi a Pechino il filo che unisce Usa e Corea del Nord
Via della Seta. Pyongyang «pronta a incontrare Trump». Attesa per il vertice Xi-Putin-Erdogan. Previsti progetti per 900 miliardi di dollari, con 68 paesi coinvolti, per una popolazione di 4,4 miliardi di persone, pari al 40% del Pil mondiale
di Simone Pieranni


Il maestoso e globale progetto cinese della «nuova via della seta» (Yi Dai Yi Lu) che verrà presentato oggi e domani a Pechino, ha già ottenuto alcuni risultati importanti, ponendo più che mai la Cina al centro del mondo, quanto meno diplomatico.
Appena giunta a Pechino, ieri, la funzionaria nord coreana responsabile dei rapporti con gli Stati uniti, Choe Son-hui, ha fatto sapere che Pyongyang potrebbe essere pronta, a certe condizioni, a incontrare gli Stati uniti.
Secondo l’agenzia sudcoreana Yonhap, Choe prima di arrivare in Cina avrebbe incontrato a Oslo l’ex inviato americano alle Nazioni unite, Thomas Pickering e l’ex consigliere speciale del Dipartimento di stato per la non proliferazione e il controllo delle armi nucleari, Robert Einhorn.
La diplomatica avrebbe anche risposto con un «Vedremo» alla domanda sulla possibilità di incontrare gli inviati della Corea del Sud, presenti a Pechino dopo un invito last minute di Xi Jinping dopo l’elezione alla Casa blu di Moon Jae-in.
La risposta Usa a Pyongyang – ricordando che nelle scorse settimane lo stesso Donald Trump si era detto disponibile a incontrare Kim Jong-un – non si è fatta attendere.
Gli Stati uniti hanno fatto sapere di restare aperti alla possibilità di colloqui con la Corea del Nord, purché Pyongyang «cessi tutte le sue attività illegali e il comportamento aggressivo nella regione. Negli ultimi 20 anni siamo stati chiari sul fatto che non cerchiamo altro se non una penisola di Corea stabile e prospera», ha specificato un portavoce del Dipartimento di stato.
La due giorni di Pechino sarà intensa, perché contrariamente a quanto si pensava fino a poco tempo fa, Washington ha mandato un proprio inviato nonostante la grande diffidenza con la quale Obama, fin dal suo annuncio, aveva guardato al progetto «globale» della Cina.
Sarà il consigliere della Casa bianca Matt Pottinger a partecipare al forum, proprio dopo le ultime dichiarazioni di Trump all’Economist con le quali ha nuovamente elogiato il presidente Xi Jinping («a good guy», ha detto il presidente) e dopo l’avvio di quegli accordi tesi a diminuire la bilancia commerciale degli Usa con la Cina, decisi dai due leader durante l’incontro di inizio aprile in Florida.
Pechino offrirà anche l’occasione per l’opportunità di un incontro proprio tra i delegati delle due Coree: «Dato che siamo tutti alla stessa sala conferenze per tutto il giorno, ci potrebbe essere un contatto naturalmente», ha detto Park Byung-seok, veterano politico del Partito democratico e co-presidente della campagna elettorale di Moon.
La rappresentanza nordcoreana è capeggiata da Kim Yong-jae, diplomatico esperto e ministro dell’economia estera, che dovrebbe incontrare funzionari cinesi al fine di richiedere un allentamento delle sanzioni Onu decise per le violazioni sul bando relativo a nucleare e missili.
Pechino sarà anche al centro del mondo, il posto che i cinesi ritengono gli competa da sempre, perché la nuova via della seta prevede progetti per 900 miliardi di dollari, con 68 paesi coinvolti, per una popolazione totale di 4,4 miliardi di persone, pari al 40% del Pil mondiale.
La presentazione della «Belt and Road initiative» porterà oggi e domani a Pechino 28 capi di Stato e di governo, oltre a centinaia tra ministri e rappresentanti di organizzazioni internazionali (per l’Italia c’è il presidente del consiglio Paolo Gentiloni).
È previsto anche un incontro a tre tra Erdogan, Putin e Xi Jinping che potrebbe avere la Siria come argomento principale. Con Putin, inoltre, Xi cercherà anche di rinforzare l’amicizia, tenendo conto che la nuova via della seta concepita da Pechino rischia di togliere a Mosca un’influenza su alcune zone del mondo, prime fra tutte quelle centro asiatiche e medio orientali.
Non solo, perché anche l’India, assente, teme molto per la partecipazione al meeting del Nepal. E proprio Delhi – che da anni denuncia l’accerchiamento da parte di Pechino, mettendo in evidenza il cosiddetto «filo di perle» – teme che sopratutto la questione del porto di Gadwar, snodo pakistano (sarà a Pechino il primo ministro Nawaz Sharif) prescelto dalla Cina, possa peggiorare la situazione commerciale e geopolitica del paese nell’area.

il manifesto 14.5.17
La prigione Gaza allo stremo. Tagliati stipendi e medicine
Gaza. Abu mazen avvia il "disimpegno" dalla Striscia, già schiacciata dall'assedio israeliano. L'Anp spera in una rivolta anti-Hamas in conseguenza del peggioramento delle condizioni di vita ma pagano solo i civili
di Michele Giorgio


GAZA «Chi ha un negozio passa il tempo ad aspettare clienti che non arrivano e noi taxisti spesso giriamo a vuoto. Non ci sono soldi, la gente è piena di debiti, non sa più come fare. E loro, Abu Mazen e Hamas, si combattono sulla nostra pelle». Nidal, taxista 47enne di Gaza city scuote la testa. Pensava di averle viste tutte negli ultimi dieci anni – tre offensive israeliane con migliaia di morti e feriti e distruzioni, combattimenti tra palestinesi, chiusure dei valichi di frontiera, disoccupazione record, scarsità d’acqua e mancanza di elettricità – e invece deve fare i conti anche con la politica del “disimpegno” da Gaza avviata dal presidente Abu Mazen e dal governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) a Ramallah. È un disimpegno economico, non territoriale, poiché Gaza dal 2007, anno della lacerazione tra il partito Fatah di Abu Mazen e Hamas, è sotto il pieno controllo del movimento islamico. L’Anp ha deciso di non pagare più quella che chiama «l’occupazione di Gaza da parte di Hamas» e di lasciare ai suoi avversari l’onere di provvedere ai bisogni della popolazione, in risposta, sostiene, all’intransigenza degli islamisti decisi a non rinunciare allo loro autorità sulla Striscia.
Tra aprile e maggio Abu Mazen ha deciso di tagliare del 30% lo stipendio, ma è più giusto definirlo un sussidio mensile, a circa 70mila ex dipendenti dell’Anp a Gaza ai quali dieci anni fa, dopo il “golpe” Hamas, era stato intimato di non lavorare per gli islamisti. Quindi ha annunciato che non avrebbe più pagato per l’acquisto del gasolio necessario al funzionamento dell’unica centrale elettrica della Striscia e garantito il pagamento della quota di elettricità che arriva da Israele. Il fine politico del “disimpegno” è evidente. Abu Mazen e i vertici dell’Anp sono convinti che questa prova di forza spingerà Hamas a cedere, forse sull’onda di proteste e moti di piazza causati dall’ulteriore peggioramento delle condizioni di vita. Obiettivo al quale a Gaza nessuno crede nonostante la crescente sfiducia della popolazione verso il movimento islamico e la sua amministrazione.
«Immaginare una rivolta contro Hamas è davvero difficile» ci dice Khalil Shahin, vice direttore del Centro palestinese per i diritti umani di Gaza (Pchr) «senza dubbio molti abitanti sono insoddisfatti, tanti parlano di fallimento delle politiche del movimento islamico che non ha mantenuto le sue promesse, a cominciare dalla fine del blocco israeliano di Gaza, al quale si è aggiunto quello egiziano». Tuttavia, aggiunge Shahin «da qui a pensare a una sollevazione ce ne passa. Anche perchè se la popolazione, o una parte di essa, da un lato non crede più ad Hamas dall’altro non ha fiducia nell’Anp a Ramallah. Nessuno vuole cadere dalla padella nella brace. Per questo non ci sarà la rivolta in cui forse spera Abu Mazen». Nel frattempo i civili, che da oltre dieci anni fanno i conti con il blocco israeliano e le politiche egiziane al confine di Rafah, pagano il conto della lotta di potere tra le autorità di Ramallah e quelle di Gaza. Shahin spiega che «il taglio del 30% dello stipendio agli ex dipendenti dell’Anp ha colpito proprio la quota di reddito mensile che migliaia di famiglie destinavano ai consumi, molto spesso quelli primari». Il resto dello stipendio, prosegue, «è destinato a coprire i debiti, spesso con le banche, fatti per sopravvivere». Occorre tenere conto, conclude il vice direttore del Pchr, «che i dipendenti dell’amministrazione pubblica di Hamas, circa 50mila, da tempo ricevono solo metà dello stipendio. Quindi quel 30% di reddito tagliato da Abu Mazen ha colpito i consumi e messo in ginocchio commercio e trasporti. Quei soldi che non arrivano più ogni mese da Ramallah, di fatto tenevano in linea di galleggiamento la fragile economia della Striscia».
A Gaza fanno notare che il “disimpegno” colpisce i civili e scalfisce appena Hamas che, ben organizzato e disciplinato, può contare su riserve finanziarie ed energetiche, predisposte da tempo, che gli consentono di affrontare lunghe crisi, dai conflitti armati con Israele ai contrasti con l’Anp di Abu Mazen. A Ramallah però sono convinti di poter innescare a Gaza una sollevazione. L’ultimo settore colpito in ordine di tempo è la sanità. Ne sanno qualcosa all’ospedale “Rantisi” di Gaza city, dove sono in cura decine di ammalati di cancro e l’ong Palestine Children’s Relief Fund (Pcrf) sta costruendo, con donazioni giunte da tutto il mondo, il primo dipartimento di oncologia pediatrica della Striscia. «Non c’è alcuna decisione ufficiale però da Ramallah non sono arrivati i medicinali salvavita e oncologici e nel giro di qualche giorno non sarà possibile curare bambini e adulti, perciò al Rantisi sono in piena emergenza. Noi come ong facciamo il possibile per dare una mano all’ospedale ma non basta», ci dice l’oncologa Zeena Salman del Pcrf. «Da quanto ci riferiscono qui a Gaza – aggiunge l’oncologa – i funzionari del ministero della sanità a Ramallah dicono a quelli di Gaza che i farmaci sono disponibili, eppure restano nei magazzini». La dottoressa Salman lancia un appello: «siamo medici e non entriamo in questioni politiche che non ci riguardano, qui però abbiamo ammalati gravi, molti sono bambini che per vivere hanno bisogno di quei farmaci e non meritano di essere abbandonati al loro destino».
Oltre agli aspetti umanitari si guarda allo sbocco politico di questa nuova crisi tra Ramallah e Gaza. «Tutto rientra nel quadro regionale che si va delineando» afferma il giornalista Aziz Kahlout «Gaza e la questione palestinese diventano sempre meno importanti, per gli occidentali e per gli arabi. Gaza sarà lasciata al suo destino, governata da un Hamas di fatto prigioniero e isolato. Si lavora a uno Stato di Palestina solo in Cisgiordania».

il manifesto 14.5.17
Il rompicapo delle nostre origini
Scienza. Il pianeta terra e le ultime teorie scientifiche sulla creazione, l'inizio della vita, la comparsa umana
Lucy, Homo erectus, Homo naledi
di Andrea Capocci


Secondo la Bibbia, la Creazione richiese solo una settimana. In quei pochi giorni, Dio creò il Sole, la Terra, le piante, gli animali e l’uomo. Da qualche anno, però, a questa stravagante teoria non crede più nessuno. In effetti, nessuno può credere davvero che la «Creazione» sia avvenuta in pochi giorni. In realtà ci sono voluti quasi quattordici miliardi di anni, per realizzare il percorso che dal Big Bang iniziale ci ha portato fin qui e durante il quale sono nati il Sole e la Terra (quattro miliardi e mezzo di anni fa), la vita terrestre (tre miliardi di anni fa) e il genere Homo (due milioni di anni fa).
Ciascuno di questi eventi meriterebbe il ruolo di Grande Inizio, e infatti viene studiato da scienziati specializzati in una certa idea di «origine». Grazie a nuove scoperte e tecniche di analisi, il quadro che ne emerge è in continuo movimento. Mai come ora le persone di buon senso hanno avuto difficoltà a contrapporre all’immutabile racconto biblico una verità scientifica altrettanto consolidata.
Prendiamo la nascita della Terra: nonostante i progressi di geologi e astronomi, non è affatto chiaro come si sia formato il grosso sasso su cui vaghiamo nella Via Lattea trascinati dal Sole. Secondo la teoria più accreditata, il sistema solare si è formato a partire da una nube di polvere in rotazione, dove frammenti via via più grandi, aggregati dalla forza di gravità, hanno dato vita ai vari pianeti.
QUESTO MODELLO, però, presenta alcuni problemi, soprattutto nello spiegare simultaneamente l’evoluzione iniziale di pianeti diversi come la Terra e Giove, trecento volte più massivo, in gran parte gassoso con un nucleo più denso al suo interno. Uno di questi riguarda proprio la chimica del processo. La Terra e gli altri pianeti solidi più vicini al sole sono composti soprattutto da rocce e ferro. Ma queste sostanze si aggregano difficilmente tra loro, come invece dovrebbe avvenire se la teoria avesse ragione.
L’astrofisico Alexander Hubbard del Museo di storia naturale di New York ha appena pubblicato una teoria alternativa sulla rivista The Astrophysical Journal letter. Secondo Hubbard, è stato il Sole a fare in modo che da quel grumo di frammenti di polvere nascesse un corpo compatto come la Terra. La sua teoria si basa sull’osservazione di alcune stelle, come quella battezzata FU Orionis, che improvvisamente aumentano l’energia emessa sotto forma di luce e altre radiazioni elettromagnetiche. Se questo fosse successo anche al Sole, i frammenti di roccia e ferro sarebbero stati scaldati dalla «fiammata» e si sarebbero fusi insieme, dando vita al pianeta Terra attuale. Così si spiegherebbe anche il mistero delle piccole dimensioni di Marte, il pianeta immediatamente successivo alla Terra rispetto al Sole. Alla distanza di Marte, l’onda di calore potrebbe non essere stata sufficientemente calda da fondere del tutto le rocce che compongono il pianeta, e avrebbe permesso la formazione di una massa coesa più piccola.
SE HUBBARD AVESSE ragione, la Terra si sarebbe formata circa 4,54 milioni di anni fa grazie a un’onda di calore. Poco dopo, tuttavia, un altro evento deve averla fusa: una collisione con un pianeta analogo a Marte per dimensioni e massa sviluppò così tanto calore da trasformare la Terra in un magma incandescente, e da far scappare un frammento roccioso che da allora ci gira intorno e a cui abbiamo dato il nome di Luna. Nell’urto, il calore sprigionato liquefece le rocce ricche di quarzo e feldspati, le disperse in atmosfera. Ricadendo, avrebbero arricchito la crosta terrestre, in cui queste rocce sono abbondantissime ma alla cui origine non c’è spiegazione. Ad averla trovata, basandosi sull’urto con un mega-asteroide, sono stati i due geologi Don Baker and Kassandra Sofonio della McGill University di Montréal, Canada. Forse.
Da allora sul pianeta si sono alternate fasi di bonaccia a momenti turbolenti, in cui asteroidi, cambiamenti di temperatura e del livello del mare mutavano lo scenario abbastanza rapidamente. Fu uno di questi choc a favorire la nascita della vita sulla Terra, cioè la seconda possibile definizione della «Creazione»? Forse, perché i segni della presenza di micro-organismi risalgono a circa tre miliardi e mezzo di anni fa: cioè poco dopo il periodo del «grande bombardamento» dovuto a meteore, asteroidi e pianetini in frequente collisione con la Terra.
FINORA, SI È RITENUTO che la vita fosse nata tra i 3,5 e i 4 miliardi di anni fa in fondo agli oceani, dove le sostanze chimiche presenti e il relativo isolamento dalla caotica superficie terrestre avrebbero creato delle buone condizioni di partenza per la vita sulla Terra. Ora, però, anche questa idea potrebbe essere messa in discussione. Infatti, sull’ultimo numero di Nature Communications, la geofisica Tara Djokic dell’università australiana del Nuovo Galles del Sud e i suoi collaboratori riferiscono la scoperta di tracce di micro-organismi sulla terraferma, in particolare nell’Australia occidentale, risalenti a circa tre milioni e mezzo di anni fa. La vita potrebbe dunque essere iniziata sulla terraferma, probabilmente nei pressi di una sorgente d’acqua calda. Se la scoperta fosse confermata da altri ritrovamenti simili, potrebbe chiarire qualche elemento in più anche sulla vita extra-terrestre. Nel 2020, infatti, la missione MarsExpress andrà a cercare tracce di vita passate o presenti su Marte, dove la presenza di sorgenti calde, almeno in passato, pare accertata. E forse è quello il luogo giusto da cui cominciare l’esplorazione.
Ma l’accezione di «creazione» a cui, come specie, siamo più affezionati è certamente la terza, cioè la comparsa dell’uomo. Rispetto ai tempi di evoluzione tipici di un pianeta, parliamo di una tempo molto più breve, perché i progenitori di Homo risalgono appena a 2-3 milioni di anni fa. Eppure, il racconto di quanto è successo da allora è sempre più movimentato.
L’ULTIMA NOVITÀ riguarda Homo naledi, una delle scoperte più rilevanti del 2015. Si tratta di una specie di Homo i cui resti sono stati rinvenuti in una grotta in Sudafrica, con una quantità di frammenti ossei rinvenuti (oltre millecinquecento) assolutamente inedita – di solito i paleo-antropologi ragionano sulla base di frammenti minimi, come un dente o una falange. L’autore della sensazionale scoperta fu Lee Berger della Witwatersrand University di Johannesburg, che da allora è alle prese con un vero rompicapo.
Dall’esame dello scheletro, Berger ha ottenuto infatti informazioni contraddittorie. Il cervello di Homo naledi è piccolo come quello di un ominide di uno-due milioni di anni fa, ma la forma degli arti e il possibile significato funerario del luogo del ritrovamento farebbero pensare a una specie ben più evoluta dal punto di vista culturale, risalente a due-trecentomila anni fa.
Per ottenere una datazione dei reperti, a Berger e colleghi sono serviti altri due anni e tecnologie sofisticate. I risultati dell’analisi sono stati appena pubblicati sulla rivista a accesso libero www.eLife.org: Homo naledi è vissuto circa trecentomila anni fa, quando anche altre specie di Homo erano in circolazione (non i sapiens, che sarebbero comparsi centomila anni dopo). Si tratta dunque di un Homo relativamente recente, con un cervello piccolo ma capace di elaborare riti funerari e, probabilmente, l’uso di utensili di pietra. Un parente lontano ma che ci somiglia parecchio. E che poteva benissimo chiamarsi Adamo, o Eva.

Il Sole Domenica 14.5.17
Il futuro di Wells
Proiettati nell’anno 802.701
di Renzo Crivelli


«Fin dove potevo vedere, tutto il mondo dispiegava la stessa esuberante ricchezza della valle del Tamigi. Da qualsiasi altura scorgevo la stessa abbondanza di fastosi edifici, incredibilmente vari per materiali e per stile, gli stessi fitti boschi di piante sempreverdi, gli stessi alberi fioriti, le stesse felci»: ecco lo scenario, che fa pensare a una sorta di “falso” paradiso terrestre, che il Viaggiatore del Tempo si trova dinanzi dopo lo straordinario salto nel futuro, che lo ha portato nell’Inghilterra dell’anno 802.701 grazie ad una macchina incredibile, fatta di «parti di nichel, altre di avorio, altre ancora, limate o segate, di cristallo di rocca». È lui, appena tornato dal suo salto nel tempo, a raccontarcelo, dopo un’entusiasmante e paurosa avventura che quasi gli costava la vita.
Questo è il presupposto de La macchina del tempo, uno dei più famosi, e imitati, romanzi di fantascienza di Herbert George Wells, un autore inglese molto prolifico, padre dell’Uomo invisibile, dell’Isola del dottor Moreau e della Guerra dei mondi, incentrata sull’invasione di alieni. Un testo, quest’ultimo, che, nella versione radiofonica trasmessa ambiguamente da Orson Welles come reportage dal vivo, generò persino un’allucinazione collettiva nell’America degli anni trenta.
Wells, laureato in zoologia e membro della Fabian Society proto-socialista, ha affrontato nella sua produzione letteraria e saggistica alcune fra le principali tematiche del suo (e del nostro) tempo, dal rapporto fra le classi in un capitalismo aggressivo all’etica della scienza nella modernità, dal ruolo pericoloso della tecnologia ai possibili guasti d’una globalizzazione che accentua i divari sociali del mondo.
La macchina del tempo è uno dei suoi primi romanzi. Uscito nel 1895, dopo una serializzazione un po’ controversa su alcune gazettes, ebbe subito un colossale successo di pubblico, rafforzando un dibattito, già in ebollizione, sul ruolo futuro del darwinismo, laddove ipotizza una possibile «regressione zoologica» dell’uomo, destinato a compiere il percorso evolutivo dalla scimmia all’incontrario, sino alla propria estinzione. È questo il messaggio principale del romanzo, in cui Wells riprende il tema del “trasferimento” nel tempo già enunciato nel racconto di Edward Page Mitchell L’orologio che andò all’incontrario (in La tachipompa e altre storie), del 1881. Il viaggio dello scienziato descritto nel romanzo, infatti, proietta lo scenario della valle del Tamigi in un futuro lontanissimo in cui vivono due “razze” contrapposte. Da una parte gli Eloj, edulcorato popolo di creature eteree e gentili con l’intelletto di bambini, innocui all’apparenza quanto pacifici e del tutto incapaci di svolgere un’attività lavorativa, raffinati mangiatori di frutta in un contesto bucolico in cui riaffiorano qua e là le vestigia del passato (un’immagine cara al romanticismo affascinato dalle rovine ricoperte dalla natura). Dall’altra parte i Morlock, esseri biancastri e viscosi, orrendi nelle forme e fatalmente carnivori, assassini per necessità.
Proprio in quella valle ubertosa dove si posa la “macchina del tempo” del nostro scienziato affiorano strani orifizi da cui fuoriescono rumori cupi e profondi che scendono nelle viscere della terra. Veri e propri pozzi che, nella finzione sconcertante di Wells, fungono da collegamento - fonte di grande orrore - fra una società di ricchi e satolli dominatori e una di depravati esseri ciechi. Là sotto, i Morlock lavorano nell’oscurità per fornire agli Eloj ogni forma di sostentamento, manovrando complessi macchinari industriali. Apparentemente sottomessi, i Morlock escono nelle lunghe notti senza luna per approvvigionarsi di cibo: i poveri corpi degli stessi Eloj catturati. Una società agghiacciante, in cui la rigida separazione tra le classi prefigura un delitto di sfruttamento e uno, per contro, di compensazione “alimentare”.
Wells, evidentemente, prefigura i guasti d’un capitalismo vorace destinato a diventare a sua volta cibo. Come nota Michele Mari nell’acuta prefazione all’edizione Einaudi, egli ci mostra qui, come confermerà quattro anni dopo in un “prequel” del romanzo intitolato Quando chi dorme si sveglia, l’immagine degli operai londinesi di fine secolo XIX «in fabbriche sotterranee mentre si avviano a un inesorabile processo involutivo, a partire dalla destrutturazione linguistica».
Con La macchina del tempo, in cui il protagonista torna tra i contemporanei - solo momentaneamente perché poi riparte e scompare nel nulla - per depositare il suo accorato monito contro la degenerazione della rivoluzione industriale vittoriana, Wells rubò molto alla fama di Verne, quasi suo coetaneo, il quale, ispirato alla lode del progresso, ebbe a contestare la sua «mancanza di credibilità». I due non potevano certo piacersi, specie laddove Wells sconfina nell’analisi sociale (dedicherà gli ultimi romanzi esclusivamente alla realtà, con una particolare attenzione all’emancipazione femminile). Del resto, la possibile estinzione dell’umanità a causa dell’evoluzione tecnologica non era facile da ipotizzare a quel tempo.
Herbert George Wells, La macchina del tempo , trad. di Michele Mari, Einaudi, Torino, pagg. 126, € 17


Il Sole Domenica 14.5.17
Mente e cervello
Visioni dall’inconscio
Potrebbe non esservi un confine oggettivo tra rappresentazioni percettive personali e subpersonali. Il punto sul dibattito
di Ned Block

C’è un ampio dibattito a proposito dell’esistenza della percezione inconscia. Uno dei casi più famosi è quello della percezione subliminale, nella quale uno stimolo molto debole e veloce sembra venire registrato dal sistema visivo pur senza essere visto in modo cosciente. Ma abbiano oggi prove, grazie a Peters e Lau (2015), che almeno alcuni casi di percezione subliminale sono in realtà casi di percezione conscia debole piuttosto che genuini casi di percezione inconscia. Esiste la percezione inconscia? Credo che la riflessione in merito – compresi alcuni miei contributi – sia stata male orientata. La discussione si è infatti concentrata sull’efficacia dei metodi mirati a eliminare la parte conscia di una percezione per isolare la percezione inconscia. È possibile fare qualcosa di simile? La questione non è semplice. Si possa riuscirci o meno, la percezione inconscia è dappertutto, poiché molte percezioni consce (se non tutte) contengono percezioni inconsce.
Come si possono distinguere le rappresentazioni visive consce da quelle inconsce? Un approccio utile è concentrarsi sulle basi neuronali. Negli animali, ogni percezione visiva conscia ha una base neuronale e all’interno di essa c’è una base neuronale delle rappresentazioni visive inconsce. Prendiamo studi classici. Sappiamo che alcune figure con fondo bianco e una fitta grata di linee verticali scure, se osservata da un angolo molto stretto, appare come una superficie uniformemente grigia. He e MacLeod (2001) hanno mostrato che alcune figure di quel tipo non possono essere colte consciamente, ma ugualmente vengono rappresentate visivamente dai soggetti. La lente del nostro occhio confonde linee molti fitte, ma i ricercatori sono riusciti a proiettare tali griglie direttamente sulla retina grazie all’interferometria laser. Le griglie che non sono viste consciamente producono post-effetti della stessa grandezza di griglie che sono viste consciamente ed entrambi i tipi di griglia vengono fisicamente rappresentati nel sistema visivo. Un risultato analogo si ottiene con la rapidissima alternanza di luci colorate. Se rosso e verde si scambiano dieci volte al secondo, avviene una fusione eterocromatica a livello della coscienza: gli osservatori vedono solo una luce continua gialla. Ma la retina e il nucleo genicolato laterale (una stazione della via visiva) registrano fino ad almeno 15 cicli al secondo l’intermittenza di luci colorate che il soggetto non riesce a cogliere in modo cosciente.
Come sappiamo che tali rappresentazioni nei primi stadi della visione sono inconsce? Le persone non ne sono consapevoli e tirano a indovinare. I neuroscienziati Haynes e Rees sono però riusciti a leggere correttamente l’orientamento di uno stimolo (barra verticale o orizzontale) nell’area cerebrale V1, con una percentuale maggiore del puro caso, in soggetti sperimentali che non vedevano coscientemente e si limitavano a dare una risposta qualunque. Si tratta, in questi casi, di reali contenuti percettivi inconsci o sono semplicemente rappresentazioni subpersonali di informazione, alla pari di rappresentazioni cerebrali di proprietà del sistema nervoso autonomico, come la frequenza cardiaca, o rappresentazioni nei neuroni del tratto gastrointestinale? Si può dire che le rappresentazioni inconsce hanno molti degli stessi contenuti delle rappresentazioni consce. Per esempio, sia le rappresentazioni consce sia quelle inconsce possono avere i contenuti dell’intermittenza di colori sotto i 10 cicli per secondo. Inoltre, per molti aspetti queste rappresentazioni sono simili.
Mentre esistono chiari casi di rappresentazioni subpersonali (come quelle gastrointestinali) e di rappresentazioni personali (le percezioni consce), potrebbe non esservi un confine oggettivo tra rappresentazioni percettive personali e rappresentazioni percettive subpersonali. Ogni proposta puzza di postulato, e abbondano le posizioni estreme. D’altra parte, in alcuni ambiti esiste un confine ben definito tra rappresentazioni consce e rappresentazioni inconsce. Per esempio, le rappresentazioni dell’intermittenza di colori oltre 10 cicli per secondo sono inconsce (anche si vi sono casi di frontiera e variazioni interindividuali). Se tra conscio e inconscio c’è un confine che manca tra personale e subpersonale, non può esservi coincidenza tra le due distinzioni (conscio/inconscio-personale/sub personale).
Personalmente, ho provato a formulare condizioni sufficienti per il livello personale (oggi le considero più un postulato che elementi oggettivi). Ecco i tre indicatori: se le rappresentazioni percettive guidano le azioni dell’individuo; se ne coinvolgono le preferenze o i bisogni; se raggiungono la comprensione dell’individuo. Prendiamo gli esempi che vengono dallo studio del sistema visivo dorsale. Goodale e Milner hanno studiato a lungo la paziente nota come DF, che aveva subito un danno all’area della corteccia visiva ventrale che sottende alla percezione delle forme. DF poteva vedere consciamente colori e superfici, ma non figure tridimensionali e orientamento. Se le veniva mostrata una fessura, era consapevole di qualcosa di amorfo senza un orientamento e poteva solo provare a indovinare come infilarvi una carta. Ma, a testimonianza della percezione inconscia dell’orientamento, DF poteva inserire la carta nella fessura con un’accuratezza solo leggermente inferiore a quella di soggetti di controllo. L’orientamento veniva rappresentato nel suo sistema visivo dorsale, tuttavia il suo sistema visivo cosciente rappresentava solo colori e superfici.
Come sappiamo che queste percezioni sono autenticamente inconsce? È importante notare che tale paradigma non richiede stati percettivi completamente inconsci. Non vi è bisogno di rimuovere la parte conscia della percezione. Esistono contenuti percettivi inconsci in percezioni altrimenti consce. DF vedeva coscientemente lo stimolo, ma non l’orientamento. Nel caso di DF c’è una risposta chiara alla questione personale/subpersonale: le rappresentazioni visive inconsce erano sue rappresentazioni perché guidavano le sue azioni quando inseriva la carta. Ciò che è inconscio è un aspetto del contenuto della percezione.
In conclusione: il dibattito sull’esistenza di percezioni inconsce si è concentrato su una domanda: la parte conscia di una percezione può venire sottratta, lasciandoci soltanto con la percezione inconscia? Qualunque sia la risposta, molta parte della percezione cosciente, se non tutta, coinvolge una percezione inconscia.
(traduzione di Silvia Inglese)

Il Sole Domenica 1.5.17
Aristotele
Democratico ma aristocratico
di Carlo Carena


L’Etica nicomachea si chiude con queste parole: «I nostri predecessori lasciarono indiscusso ciò che riguarda il governo, per portare a compimento la filosofia dell’uomo. Perciò dal confronto dei diversi governi cercheremo di studiare quali cose salvaguardano e quali danneggiano le città; quali forme di governo si reggono bene e quali no, e per quali cause. Così, forse, discerneremo meglio quale forma di governo è la migliore». In tal modo il filosofo delinea il grande progetto della Politica, che si fonderà sulla ricerca e sull’analisi delle diverse forme di costituzioni che ressero le città greche nella loro evoluzione.
Come racconta Diogene Laerzio nella bibliografia aristotelica data nel V libro delle Vite dei più illustri filosofi, quella ricerca ne adunerà 158. A noi non è giunta che La costituzione degli Ateniesi, in due papiri egiziani rinvenuti nel 1879 e ora a Berlino e a Londra. Da lì la prima edizione, del gennaio 1891, e ora un’imponente edizione italiana della Fondazione Valla a cura di P.J. Rhodes, autore già del commento dell’edizione oxfordiana dell’81. L’interesse del testo, certamente il più importante fra tutti per l’importanza della città e la vicinanza ad essa dell’Autore, risiede non solo e non tanto nell’iniziale tracciato storico delle varie forme costituzionali succedutesi ad Atene dopo l’età regia: la riforma legislativa di Dracone alla fine del VII secolo, a cui successe quella di un poeta del ceto medio, Solone; quindi la tirannide di Pisistrato e dei suoi figli; poi Clistene e la ripresa della democrazia all’inizio del V secolo, così come la successiva restaurazione democratica di Trasibulo succederà, a fine secolo, al regime dispotico dei Trenta Tiranni.
Complessivamente undici mutamenti istituzionali, in cui si alternarono tutti i governi praticabili e teorizzabili, nella loro purezza e nella loro corruzione, dai più antichi a quest’ultimo, dove «si estende continuamente il potere della massa». E vi sono contenuti e si scorgono tutti i meccanismi della politica. Da questo punto, a metà dell’opera, analizzando il governo ateniese contemporaneo, i suoi organi, le magistrature, le loro competenze e attività, Aristotele dispiega più o meno scopertamente anche il ventaglio del suo pensiero, pur condizionato qui dai testi delle fonti e poi raggiunto e chiarito nella Politica: «Non conviene che il supremo potere sia presso la moltitudine, poiché i molti, essendo generalmente poco virtuosi, agirebbero spesso ingiustamente. D’altra parte è ingiusto escludere la moltitudine da tutte le cariche e gli uffici, perché gli esclusi diventano nemici della società… I molti uniti insieme e misti con i migliori generalmente giovano alla società più che i soli migliori, come giova più alla salute un cibo abbondante anche se misto con impurità, che un cibo puro ma esiguo» (libro III).
Ad Atene, nell’assetto costituzionale finale, godono dei diritti politici tutti i cittadini, ossia i nati da genitori entrambi cittadini, e inscritti a diciotto anni nelle liste elettorali. La loro partecipazione alla vita politica è, oltreché un diritto, un dovere, imposto dall’antico Solone. Egli, siccome nei conflitti civili alcuni dei cittadini lasciavano per indolenza che le cose andassero dove andavano, stabilì per legge che «chi non prende le armi per l’una o per l’altra parte sia privato dei diritti e non faccia più parte della città». Detentore di ogni prerogativa è il popolo; esso amministra tutto con decreti dell’assemblea e con i tribunali, dove domina incontrastato. Democratico ma di gusto aristocratico, lo Stagirita aborre gli estremi, addita le degenerazioni, del regime popolare in quello della 3 moltitudine, come dell’aristocrazia in oligarchia. Addita la corruzione della retta condotta provocata dai capipolo, come Cleone che per primo «urlò dalla tribuna e arringò il popolo indossando una veste allacciata alta»; o Cleofonte, «un fabbricante di lire». Non più prospettive storiche lungimiranti ma sfrontate adulazioni del popolino e attenzione alla sola situazione immediata; per cui si può pensare che i migliori governanti fossero stati quelli antichi. Quanto all’attuale costituzione ateniese, essa è presentata in questo opuscolo al vivo e fin nei minimi dettagli.
Quello ateniese è uno Stato in cui libertà e uguaglianza si spingono fino alle elezioni per votazione popolare o addirittura per sorteggio non solo delle cariche politiche ma anche delle giudiziarie. Il potere giudiziario è ben distinto da quello politico, dal giorno in cui il Consiglio dei Cinquecento condannò a morte un Lisimaco e lo consegnò al boia per l’esecuzione, ma Eumelide del demo di Alopece lo fermò affermando che nessun cittadino deve morire senza la sentenza di un tribunale, e nel processo Lisimaco uscì assolto: per cui il popolo tolse al Consiglio il potere di incarcerare e multare chicchessia. E ancora, il popolo stabilisce le autorità incaricate dei sacrifici ad Artemide e ad Ares, della direzione dei concorsi musicali e ginnici e della corsa dei cavalli: «di cui questi sono i premi: argento e oro per i vincitori dell’agone musicale, scudi per chi prevale nella gara di forza virile, olio per i vincitori nella gara ginnica e nella competizione equestre».
Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, a cura di P.J. Rhodes, traduzione di A. Zambrini, T. Gargiulo e P.J. Rhodes, Fondazione Lorenzo Valla / Mondadori, Milano, pagg.166, € 35

Il Sole Domenica 14.5.17
Cellule staminali embrionali
Ricerca oltre il 14° giorno
di Gilberto Corbellini e Mario Molinaro


La ricerca sperimentale sullo sviluppo embrionale in vitro è stata finora condotta sulle fasi dello sviluppo animale che vanno dallo stadio di zigote fino alla blastocisti avanzata, dove maturano le cellule staminali embrionali. Per la prima volta sono state ottenute in coltura fasi dello sviluppo successive all’impianto della blastocisti di topo nella parete uterina. E si è cominciato a discutere se non sia ingiustificata la restrizione a 14 giorni per quanto riguarda la sperimentazione con le cellule dell’embrione umano in coltura. Lo zigote, cioè l’oocita fecondato, è l’unica cellula staminale totipotente, in grado di dare origine a tutto l’organismo. Le cellule derivanti dalle primissime divisioni si organizzano nella blastocisti, dove fra altre strutture si forma una massa cellulare che dà origine all’epiblasto. Qui si trovano le staminali pluripotenti, così dette perché non possono formare la placenta e non sono un grado di organizzare le cellule in un piano corporeo dell’animale.
Da queste staminali deriveranno però tutti i tipi cellulari dell’organismo e si ottengono le ESC, linee cellulari staminali embrionali stabilizzate che crescono e si mantengono in coltura, dove anche possono essere indotte a differenziare verso tutti i tipi cellulari. Il modello sperimentale utilizzato tradizionalmente per studiare l’embriologia del mammifero è quello murino per la facilità di seguirne la successione degli stadi di sviluppo in vivo e in coltura e per la similitudine con lo sviluppo embrionale umano.
Nei paesi dove si può fare ricerca con embrioni umani soprannumerari, come la Gran Bretagna, si è potuto stabilire che ci sono differenze sostanziali tra lo sviluppo del topo e quello dell’uomo, sia nella morfologia, nella durata e successione temporale delle fasi, sia nei fattori e profili trascrizionali che li regolano. Negli ultimi anni nuove tecnologie di analisi hanno aumentato le conoscenze sui meccanismi molecolari che regolano le fasi iniziali dello sviluppo e dell’espressione della totipotenza e pluripotenza delle cellule embrionali. Si è visto che nella fase di attivazione del genoma a livello dello zigote, che è più tardiva nell’embrione umano, solo il 40% dei geni umani espressi coincide con quelli murini e significative differenze ci sono nei fattori trascrizionali di staminalità e differenziativi, e nelle vie di segnale attivate. Differenze rilevanti si riscontrano nella cronologia della segregazione tra la linea cellulare epiblastica da cui derivano le ESC e quella trofoblastica da cui derivano le cellule staminali TSC, che nell’embrione umano avviene dopo l’inizio della formazione della blastocisti ed è simultanea per le due linee cellulari, mentre è più precoce e progressiva nell’embrione murino.
Queste differenze influenzano le caratteristiche di staminalità delle ESC, che sono condizionabili dai parametri della loro stabilizzazione in coltura, ed evidenziano che l’estrapolazione dei dati tra specie diverse va presa con cautela e non esime dall’acquisizione diretta di nuove conoscenze sui meccanismi molecolari che regolano lo sviluppo dell’embrione umano. Se la ricerca su embrioni umani soprannumerari è essenziale per capire le basi genetiche e molecolari delle proprietà biologiche delle staminali embrionali, eventualmente anche per creare nuovi e migliori cellule adulte indotte a diventare pluripotenti con opportuni condizionamenti, sembra anche giunto il momento di ripensare il limite dei 14 giorni per la sperimentazione sugli embrioni umani.
Il limite fu introdotto tra il 1979 e il 1984, ritenendo che il momento in cui da un lato si forma la stria primitiva e inizia la organizzazione del corpo e dall’altro l’embrione si impianta dell’utero giustificassero l’introduzione di una soglia morale per i ricercatori. In realtà importanti problemi biologici, e quindi anche medici, celano le loro soluzioni in quello che avviene quando e dopo che la blastocisti si impianta nell’utero, e ha luogo la gastrulazione.
Un evento, questo, talmente fondamentale che l’embriologo Lewis Wolpert è solito dire che è la tappa biologicamente più importante in tutta l’esistenza di un individuo. Un lavoro apparso su «Science» ad aprile cerca di chiarire il motivo per cui le fasi avanzate dell’embriogenesi non si verifichino nelle coltura di ESC. Pur originando organoidi o corpi embrioidi in cui avvengono vari fenomeni differenziativi con comparsa di strutture formate dai tre foglietti embrionali, le colture di ESC non si organizzano per costituire un organismo complesso quale l’embrione post impianto.
Gli esperimenti confermano l’ipotesi che nelle colture di sole ESC manchino i segnali extraembrionali originati dalle cellule staminali trofoblastiche (TSC), necessarie a consentire lo svolgimento corretto delle fasi dell’embriogenesi. Mettendo a contatto le ESC e le cellule staminali extraembrionali, in rapporti quantitativi definiti, e disseminate all’interno di un’impalcatura tridimensionale costituita da componenti macromolecolari della sostanza extracellulare e senza l’intervento di segnali esterni, è stata attivata la successione degli eventi spazio temporali che portano alla auto-organizzazione architettonica propria dell’embrione cilindrico naturale.
Come nell’embriogenesi naturale si ha l’espressione dei fattori trascrizionali che regolano i processi morfogenetici regionalizzati e asimmetrici della gastrulazione, con lo sviluppo della linea primitiva, la formazione del mesoderma, endoderma e ectoderma e delle cellule germinali primordiali, precursori delle cellule sessuali.
L’esperimento richiede solo la coltura delle due linee cellulari ESC e TSC già disponibili e prescinde completamente dall’animale con una notevole semplificazione organizzativa e dei problemi etici e normativi legati alla sperimentazione animale. Inoltre, consente la manipolazione del processo di sviluppo, cioè di separare le fasi per analizzare i meccanismi regolativi molecolari, con enorme flessibilità sperimentale, simile a quella che nel differenziamento in coltura delle cellule somatiche ha portato all’acquisizione di una grande mole di conoscenze.
Questa metodologia sperimentale è estensibile alle ESC umane e gli stessi ricercatori hanno pubblicato su «Nature cell biology» una ricerca con un modello sperimentale meno sofisticato ottenendo un buon livello di organizzazione dell’embrione. Altri esperimenti utilizzano embrioni derivanti dalla fecondazione in vitro.
A fronte delle domande etiche che sollevano questi esperimenti, l’ambiente scientifico si chiede se la coltura di ESC possa essere ritenuta embrione o non si tratti invece di un prodotto sintetico, un costrutto tecnologico o un organoide. In effetti, non si tratta di embrioni. Nondimeno, lo sviluppo post impianto dell’embrione umano è una scatola nera contenente i meccanismi regolativi e molecolari, cioè epigenetici, chiave per capire la morfogenesi e il differenziamento. Conoscerli potrebbe avere un significato non solo scientifico, ma anche preventivo e terapeutico nei confronti di alterazioni dello sviluppo, disgenesie, malformazioni, patologie post natali, etc.
La scelta di non conoscere e di non agire per migliorare la salute ci è innaturale. L’antica raccomandazione «conosci te stesso» trova oggi un nuovo senso alla luce anche dei valori scientifici fino a includere il nostro genoma, il nostro cervello, il nostro sviluppo, etc.

Il Sole Domenica 14.5.17
Miti della Resistenza
Eroe partigiano senza retorica
Renato Camurri pubblica i diari del comandante Antonio Giuriolo, ucciso dai tedeschi nel ’44: non era né pacifista né votato romanticamente alla morte
di Emilio Gentile


«Un libro nel libro»: così Renato Camurri definisce la sua lunga introduzione (187 pagine) a una antologia di quindici dei quarantasette quaderni autografi, scritti negli anni giovani da un intellettuale antifascista vicentino, Antonio Giuriolo, comandante partigiano con le Brigate di Giustizia e Libertà, ucciso dai tedeschi il 12 dicembre 1944.
Giustifica la lunga introduzione il proposito che ha indotto Camurri a intrecciare l’analisi filologica e culturale dei quaderni con un’indagine sul “mito di Giuriolo” insignito della medaglia d’oro al valor militare e subito collocato nel sacrario della Resistenza, laicamente santificato dalle appassionate testimonianze sulla sua adamantina personalità di antifascista devoto alla “religione della libertà”, che diedero molti suo amici, come lo scrittore vicentino Luigi Meneghello e Norberto Bobbio.
Camurri si è assunto il compito, tutt’altro che agevole, di demolire una «costruzione mitologica consolidatasi nel tempo» attorno alla figura di Giuriolo. Ma va aggiunto che Camurri analizza il mito di Giuriolo come un caso tipico di trasfigurazione retorica della Resistenza, divenuta con gli anni simile «a un vecchio e malandato monumento, bisognoso di essere restaurato e riportato alla sua originale bellezza», perché la sua struttura era «minata nelle sue fondamenta da continue, potenti, iniezioni di retorica»: una «dissennata pratica», la definisce Camurri, continuata fino ai nostri giorni. L’antidoto «più efficace all’infezione prodotta dalla retorica», avverte lo storico, «è da sempre uno solo: dare spazio alla ricerca storica e con essa scavare nelle zone ancora oscure degli avvenimenti che sono all’origine del “secondo antifascismo” e pongono le basi per la nascita della Resistenza». Così, Camurri si avvale della “smitizzazione” di Giuriolo per contribuire a «elaborare un racconto al centro del quale vi sia una Resistenza senza aggettivi: non più “tradita”, “mancata”, “passiva”, “incompiuta”, “delegittimata”, ma una Resistenza analizzata e raccontata per quello che è stata (o non è stata)», recuperando storicamente «il significato più profondo dell’esperienza partigiana, che è quello di essere stata una lotta per la libertà e la democrazia».
Tale certamente fu lo scopo della militanza partigiana del giovane vicentino. La partecipazione alla resistenza armata fu l’esito moralmente e politicamente inevitabile della scelta antifascista maturata negli anni trenta. Fra le fronde mitologiche innestate sulla sua figura, ma prodotte da «errori interpretativi molto gravi», vi è secondo Camurri l’arruolamento di Giuriolo fra i seguaci di Aldo Capitini. L’intellettuale vicentino conobbe effettivamente il filosofo della non violenza, ma non fu un pacifista: aveva avuto una educazione militare, era stato ufficiale degli alpini e come comandante partigiano combatté per vincere, e talvolta prese decisioni spietate. Uno dei suoi partigiani raccontò che il comandante Giuriolo, dopo aver assistito alla macabra scoperta del cadavere di un uomo ucciso dai tedeschi e inchiodato in un armadio, disse: «Oggi non si fanno prigionieri». Confutando il mito di un Giuriolo pacifista, Camurri contesta anche l’immagine romantica di un giovane volontariamente votato alla morte, per suggellare col sacrificio della vita la sua militanza antifascista.
Sfrondato il mito, dai quaderni scritti da Giuriolo prima della guerra partigiana, emerge comunque una personalità umanamente straordinaria, che nell’angusto e soffocante conformismo totalitario, si strugge moralmente perché paventa di adagiarsi «nella inerte e grigia sonnolenza della massa», diventando «un uomo comune e mediocre»; e s’impone di reagire deciso «ad elevarsi sopra la comune massa incolore, a costruirsi un carattere serio e forte, capace di dominare le tempeste della vita». Così scriveva nel suo diario all’inizio del settembre 1936. E ancora tre anni dopo annotava disperanti considerazioni sul proprio «essere un vero letterato e un ipocrita», pronto a esaltarsi «alle belle idee, alle sonanti parole; ma in effetti quel che sopravvive in me sempre immutabile è l’indolenza, l’incapacità delle realizzazioni, la mediocrità continua». E il 16 maggio 1939, scrivendo di sé stesso rifletteva il dramma esistenziale di altri giovani oppressi o delusi dall’esperienza fascista: «Siamo sfiduciati, non abbiamo più fede in nulla». E ancora tre mesi dopo, quando era ormai iniziata la nuova guerra europea, attendendo d’esser richiamato alle armi, cercava di aggrapparsi «disperatamente a un programma di vita severa e feconda, di rinnovamento totale; ma è un fervore che sbolle ben presto; succede poi la vita normale, ritorna l’incoscienza o meglio l’indifferenza», fino «al punto di non credere più a niente, nemmeno a se stessi».
Eppure, lo stesso giovane, che in pagine commoventi del diario si tormentava con spietata sincerità sulla propria condizione esistenziale, con lucida razionalità annotava le sue considerazioni critiche sui fenomeni cruciali della vita politica e culturale del suo tempo: Giuriolo rifletteva sulla patria, la nazionalità, la democrazia, il liberalismo,il socialismo, il capitalismo, il comunismo, il fascismo, la dittatura, il pensiero di Machiavelli, il Risorgimento. Influenzato dal socialismo liberale di Carlo Rosselli, opponeva ai totalitarismi trionfanti del fascismo e del comunismo, l’ideale di una democrazia liberale e socialista, capace di garantire il libero sviluppo dell’individuo promuovendo nello stesso tempo l’eguaglianza e la giustizia collettiva, senza però corteggiare «la massa agevolmente manovrabile degli avventurieri e dei politicanti».
Per il giovane intellettuale vicentino, il problema più grave della modernità consisteva «nell’educare le masse alla libertà, progressivamente»; un problema, che nell’epoca dei totalitarismi trionfanti aveva assunto «un’urgenza più imperiosa e tanto tormentosa, in quando si vanno diseducando le masse nello stesso tempo in cui si afferma di governare in loro nome, di tutelare i loro diritti, di elevarle materialmente e spiritualmente»; così che le masse stesse «si trovano ora immerse nella corruttela più insidiosa e penetrante», ora che la massa ora «non sente parlare che dei suoi diritti e nella realtà ha in mano un pugno di mosche, si abitua a considerarsi come sovrana mentre subisce quotidianamente la più degradante servitù».
Sottratto alla mitologia eroica, Giuriolo conserva nei tratti umani e intellettuali il valore di una figura esemplare per la sua moralità, la sua idealità e la sua coerenza di principi e di azioni. Ma mitiche, e persino eroiche, possono apparire oggi, in epoca di democrazia recitativa, le sue riflessioni sulla libertà, sull’uguaglianza, sull’individuo e sulle masse.
Pensare la libertà. I quaderni di Antonio Giuriolo , a cura di Renato Camurri, Marsilio, Venezia, pagg. 508, € 32