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La via (della seta) all ’egemonia cinese
Eurasia | Il programma per le infrastrutture di Pechino coinvolge il
70% della popolazione e il 55% del prodotto lordo globale. Ma la più
grande iniziativa di diplomazia economica dai tempi
del piano Marshall rischia di fallire per i costi troppo alti
di Cecilia Attanasio Ghezzi
Ventotto tra capi di Stato e di governo, tra cui–unico tra i paesi G7 –il nostro presidente del consiglio Paolo Gentiloni. Ci saranno il presidente russo Vladimir Putin, il primo ministro pachistano Nawaz Sharif e quello cambogiano Hun Sen. Ma anche la birmana Aung San SuuKyi, il presidente kazako Nursultan Nazarbayev, il premier malese Najib Razak, quello greco Alexis Tsipras e il presidente indonesiano Joko Widodo. E non solo. Il 14 e il 15 maggio a Pechino saranno presenti circa 1.200 delegati provenienti da 110 Paesi, tra cui imprenditori, finanziatori e rappresentanti di 61 organizzazioni internazionali. Al momento non sono confermate autorità di alto livello da Stati Uniti, Coree, India e Australia. Basterebbe la lista dei presenti e la descrizione dell’evento per intuire che c’è una nuova geografia politica che cercherà di imporsi nel nostro futuro prossimo.
• La nuova Via della Seta
L’occasione è il summit sulla “nuova Via della Seta”, il più grande evento internazionale organizzato dalla Repubblica popolare nel 2017. Sarà la manifestazione concreta della “magnifica visione” che ha caratterizzato la politica estera di Xi Jinping da quando si è insediato quasi cinque anni fa: sfruttare gli itinerari commerciali dell’antichità per spostare merci da un capo all’altro del continente euroasiatico via mare e via terra e ricostruire i legami economici, politici, culturali tra le sue varie nazioni. In sostanza vuole coltivare e potenziare i legami economici tra Cina, Russia, India, Iran e Unione europea attraverso una nuova rete di infrastrutture che potenzialmente crea un blocco geopolitico importante in grado di spostare gli equilibri globali e sfidare l’egemonia del continente americano.
• Numeri impressionanti
Si tratta di porti, ferrovie, autostrade, gasdotti e oleodotti su un territorio che coinvolge 64 Paesi. Come al solito i numeri snocciolati dai cinesi sono impressionanti. La “nuova Via della seta” coinvolge il 70 per cento della popolazione mondiale, il 75 per cento delle riserve energetiche e il 55 per cento del prodotto lordo globale. Secondo il Financial Times solo per i progetti che sono già sulla carta saranno necessari 890 miliardi di dollari. E infatti sono già state costituite due banche che metteranno a dura prova anche l’egemonia della Banca mondiale: la Banca per gli investimenti nelle infrastrutture asiatiche (Aiib) e la Banca per lo sviluppo asiatico (Adb). L’iniziativa viene presentata come il più grande piano di diplomazia economica dai tempi del piano Marshall e rivela il ruolo nel mondo che la Cina ha intenzione di assumere. Enel 2016 ha già messo la bandierina su diversi obiettivi. Cosco, la più grande compagnia marittima cinese, è diventato azionista di maggioranza del porto del Pireo, i primi prestiti della Banca per gli investimenti nelle infrastrutture asiatiche sono stati approvati, così come la piattaforma per la connettività sinoeuropea. Sono ripresi i lavori sul porto dell’ex capitale dello Sri Lanka Colombo e compiuti i primi passi per il corridoio sinopachistano, un progetto da oltre 40 miliardi di euro che vuole collegare la regione più occidentale della Cina al porto pachistano di Gwadar. Un accesso al mare che potrebbe accorciare notevolmente le distanze tra Repubblica popolare, Medio Oriente e Europa.
• Una ragnatela di ferrovie
Nel frattempo una complessa ragnatela di strade ferrate sta avvolgendo il continente euroasiatico. La prima tratta è stata inaugurata nel 2008 quando ad Amburgo è arrivato il primo treno che partiva da Xiangtan nella regione dello Hunan, Cina centrale. Aveva impiegato 17 giorni, ma da allora tecnologia e velocità sono migliorate. Ormai ci sono almeno dodici città cinesi e nove europee collegate da strade ferrate transcontinentali. Varsavia con Suzhou, Lodz con Chengdu, Duisburg con Chongqing, Madrid e Londra con Yiwu e chi più ne ha più ne metta. Se si continuano velocità non ci vorrà molto prima che ognuna delle 27 regioni della Cina abbia un collegamento ferroviario diretto con una città europea. Gli interscambi commerciali lo giustificano. Hanno superato i 600 miliardi all’anno e sono previsti arrivare ai mille miliardi nel 2020. Attualmente quasi la metà delle importazioni dell’Ue viene dalla Cina che rappresenta anche il suo secondo mercato di esportazione.
• La via del surplus
Tornano in mente i tempi antichi quando all’inizio del I secolo a.C. lo storico Sima Qian scriveva: «I granai della capitale straboccano, ma se il grano va a male non potrà essere mangiato ». Il padre di tutti gli storici cinesi descriveva così l’abbondanza sotto la dinastia degli Han, la prima a conquistare e pacificare un vastissimo territorio verso occidente per sfruttare quelle vie di comunicazione che nei secoli hanno permesso il passaggio di beni, idee e religioni da est a ovest del continente euroasiatico. È uno dei rari momenti della storia del mondo in cui si parla di un fiorire di arti e commercio senza che venga immediatamente in mente un clima di egemonia militare e culturale. Succederà ancora durante la dinastia Tang (VII-IX secolo) e la pax mongolica degli Yuan (XIII-XIV secolo). Oggi trent’anni di stabilità e crescita economica hanno portato nuovamente Pechino a guardare oltre i suoi confini per opportunità di investimenti e commercio. Ma sulla carta, si sa, è tutto più semplice e entusiasmante di quanto non lo sia poi nella realtà. L’ex Impero di mezzo non riesce più a smaltire il cemento e l’acciaio prodotto in eccesso e costruire infrastrutture nel mondo può essere uno strumento per sbarazzarsi della sovrapproduzione e contestualmente mantenere livelli di crescita relativamente alti. Ma così facendo il debito pubblico locale e nazionale continua a crescere, come non si stanca di ripetere la Banca mondiale. E le criticità della «nuova Via della seta» non si fermano qui. • La via degli sprechi? Al momento, la maggior parte dei nuovi treni merci tornano in Cina pressoché vuoti. E non solo. Secondo i calcoli del quotidiano di Hong Kong South China Morning Post, spedire container via terra è più caro (circa 2.500 euro contro 1.500) e in assoluto meno economico in termini di risorse. Una grande nave, infatti, può trasportare fino a diecimila container da 40 piedi.Certo impiega circa cinque settimane per andare dalla Cina all’Europa, ma per far arrivare la stessa quantità di container su treni merci, servirebbero 294 viaggi. Ovvero una partenza ogni 80 minuti per 17 giorni di seguito. Una frequenza che smonta anche l’assunto che il commercio su strada ferrata consumi meno energia e sia per questo più ecologico. A conti fatti, una grande nave consumerebbe meno di un quarto dei kilowatt necessari ai quasi trecento viaggi su strada ferrata. Ma soprattutto più in generale non sono chiare le priorità e chi si sta occupando di cosa. Ogni regione cinese ha un proprio piano di investimenti e sviluppo che va sotto il nome del progetto «yi - dai, yilu», «una cintura, una via», come la chiamano i cinesi. Non sono da meno centinaia di aziende di Stato che sotto questo grande ombrello ricevono prestiti e finanziamenti facilitati. Alcuni progetti sono addirittura già falliti. L’esempio più emblematico è forse quello di un’aziena da petrolifera di stato, la Zhongda China Petrol, che dopo essersi fatta finanziare la costruzione di una gigantesca raffineria in Kirghizistan ha realizzato di poter comprare con le sue risorse una quantità di greggio appena necessaria a farla funzionare al 6% della sua capacità. Per questi motivi e a causa dell’instabilità di molte delle aree attraversate dalla «nuova Via della Seta» molti dei progetti sono difficili da portare a termine. Secondo l’istituto di ricerca sugli investimenti globali Gavekal, i cinesi sarebbero già pronti a perdere l’80 per cento del capitale investito in Pakistan, il 50 per cento in Myanmar e il 30 per cento in Asia centrale. Può darsi che la Cina se lo possa ancora permettere, ma il prezzo da pagare per realizzare questo sogno di “Rinascimento cinese” è già più alto di quello previsto.