lunedì 15 maggio 2017

Pagina 99 13.5.17   
La via (della seta) all ’egemonia cinese
Eurasia | Il programma per le infrastrutture di Pechino coinvolge il
70% della popolazione e il 55% del prodotto lordo globale. Ma la più
grande iniziativa di diplomazia economica dai tempi
del piano Marshall rischia di fallire per i costi troppo alti
di Cecilia Attanasio Ghezzi


Ventotto tra capi di Stato e di  governo, tra cui–unico tra i paesi  G7 –il nostro presidente del consiglio  Paolo Gentiloni. Ci saranno  il presidente russo Vladimir Putin,  il primo ministro pachistano  Nawaz Sharif e quello cambogiano  Hun Sen. Ma anche la birmana  Aung San SuuKyi, il presidente  kazako Nursultan Nazarbayev,  il premier malese Najib Razak,  quello greco Alexis Tsipras e il  presidente indonesiano Joko Widodo.  E non solo. Il 14 e il 15 maggio  a Pechino saranno presenti  circa 1.200 delegati provenienti  da 110 Paesi, tra cui imprenditori, finanziatori e rappresentanti di  61 organizzazioni internazionali.  Al momento non sono confermate  autorità di alto livello da Stati  Uniti, Coree, India e Australia.  Basterebbe la lista dei presenti e  la descrizione dell’evento per intuire  che c’è una nuova geografia  politica che cercherà di imporsi  nel nostro futuro prossimo. 
• La nuova Via della Seta 
L’occasione è il summit sulla  “nuova Via della Seta”, il più  grande evento internazionale organizzato  dalla Repubblica popolare  nel 2017. Sarà la manifestazione  concreta della “magnifica visione” che ha caratterizzato  la politica estera di Xi Jinping da  quando si è insediato quasi cinque  anni fa: sfruttare gli itinerari  commerciali dell’antichità per  spostare merci da un capo all’altro del continente euroasiatico  via mare e via terra e ricostruire i  legami economici, politici, culturali  tra le sue varie nazioni. In sostanza  vuole coltivare e potenziare  i legami economici tra Cina,  Russia, India, Iran e Unione europea  attraverso una nuova rete  di infrastrutture che potenzialmente  crea un blocco geopolitico  importante in grado di spostare  gli equilibri globali e sfidare l’egemonia del continente americano. 
• Numeri impressionanti 
Si tratta di porti, ferrovie, autostrade,  gasdotti e oleodotti su  un territorio che coinvolge 64  Paesi. Come al solito i numeri  snocciolati dai cinesi sono impressionanti.  La “nuova Via della  seta” coinvolge il 70 per cento  della popolazione mondiale, il 75  per cento delle riserve energetiche  e il 55 per cento del prodotto  lordo globale. Secondo il Financial Times solo per i progetti che  sono già sulla carta saranno necessari  890 miliardi di dollari. E  infatti sono già state costituite  due banche che metteranno a dura  prova anche l’egemonia della  Banca mondiale: la Banca per gli  investimenti nelle infrastrutture  asiatiche (Aiib) e la Banca per  lo sviluppo asiatico (Adb).  L’iniziativa viene presentata  come il più grande piano di diplomazia  economica dai tempi  del piano Marshall e rivela il ruolo  nel mondo che la Cina ha intenzione  di assumere. Enel 2016  ha già messo la bandierina su diversi  obiettivi. Cosco, la più grande  compagnia marittima cinese,  è diventato azionista di maggioranza  del porto del Pireo, i primi  prestiti della Banca per gli investimenti  nelle infrastrutture  asiatiche sono stati approvati,  così come la piattaforma per la  connettività sinoeuropea. Sono  ripresi i lavori sul porto dell’ex  capitale dello Sri Lanka Colombo  e compiuti i primi passi per il  corridoio sinopachistano, un  progetto da oltre 40 miliardi di  euro che vuole collegare la regione  più occidentale della Cina al  porto pachistano di Gwadar. Un  accesso al mare che potrebbe accorciare  notevolmente le distanze  tra Repubblica popolare, Medio  Oriente e Europa. 
• Una ragnatela di ferrovie 
Nel frattempo una complessa  ragnatela di strade ferrate sta avvolgendo  il continente euroasiatico.  La prima tratta è stata inaugurata  nel 2008 quando ad Amburgo  è arrivato il primo treno  che partiva da Xiangtan nella regione  dello Hunan, Cina centrale.  Aveva impiegato 17 giorni, ma  da allora tecnologia e velocità sono  migliorate. Ormai ci sono almeno  dodici città cinesi e nove  europee collegate da strade ferrate  transcontinentali. Varsavia  con Suzhou, Lodz con Chengdu,  Duisburg con Chongqing, Madrid  e Londra con Yiwu e chi più  ne ha più ne metta. Se si continuano velocità  non ci vorrà molto prima che  ognuna delle 27 regioni della Cina  abbia un collegamento ferroviario  diretto con una città europea.  Gli interscambi commerciali  lo giustificano. Hanno superato  i 600 miliardi all’anno e  sono previsti arrivare ai mille miliardi  nel 2020. Attualmente  quasi la metà delle importazioni  dell’Ue viene dalla Cina che rappresenta  anche il suo secondo  mercato di esportazione. 
• La via del surplus 
Tornano in mente i tempi antichi  quando all’inizio del I secolo  a.C. lo storico Sima Qian scriveva:  «I granai della capitale  straboccano, ma se il grano va a  male non potrà essere mangiato  ». Il padre di tutti gli storici cinesi  descriveva così l’abbondanza sotto la dinastia degli Han, la  prima a conquistare e pacificare  un vastissimo territorio verso occidente  per sfruttare quelle vie di  comunicazione che nei secoli  hanno permesso il passaggio di  beni, idee e religioni da est a ovest  del continente euroasiatico. È  uno dei rari momenti della storia  del mondo in cui si parla di un  fiorire di arti e commercio senza  che venga immediatamente in  mente un clima di egemonia militare  e culturale. Succederà ancora  durante la dinastia Tang  (VII-IX secolo) e la pax mongolica  degli Yuan (XIII-XIV secolo).  Oggi trent’anni di stabilità e  crescita economica hanno portato  nuovamente Pechino a guardare  oltre i suoi confini per opportunità  di investimenti e commercio.  Ma sulla carta, si sa, è tutto più  semplice e entusiasmante di quanto  non lo sia poi nella realtà. L’ex  Impero di mezzo non riesce più a  smaltire il cemento e l’acciaio prodotto  in eccesso e costruire infrastrutture  nel mondo può essere  uno strumento per sbarazzarsi della  sovrapproduzione e contestualmente  mantenere livelli di crescita  relativamente alti. Ma così facendo  il debito pubblico locale e nazionale  continua a crescere, come non si  stanca di ripetere la Banca mondiale.  E le criticità della «nuova Via  della seta» non si fermano qui.  • La via degli sprechi?  Al momento, la maggior parte  dei nuovi treni merci tornano in  Cina pressoché vuoti. E non solo.  Secondo i calcoli del quotidiano di  Hong Kong South China Morning  Post, spedire container via  terra è più caro (circa 2.500 euro  contro 1.500) e in assoluto meno  economico in termini di risorse.  Una grande nave, infatti, può trasportare  fino a diecimila container  da 40 piedi.Certo impiega circa  cinque settimane per andare  dalla Cina all’Europa, ma per far  arrivare la stessa quantità di container  su treni merci, servirebbero  294 viaggi. Ovvero una partenza  ogni 80 minuti per 17 giorni di seguito.  Una frequenza che smonta  anche l’assunto che il commercio  su strada ferrata consumi meno  energia e sia per questo più ecologico.  A conti fatti, una grande nave  consumerebbe meno di un quarto  dei kilowatt necessari ai quasi trecento  viaggi su strada ferrata.  Ma soprattutto più in generale  non sono chiare le priorità e chi  si sta occupando di cosa. Ogni regione  cinese ha un proprio piano  di investimenti e sviluppo che va  sotto il nome del progetto «yi -  dai, yilu», «una cintura, una  via», come la chiamano i cinesi.  Non sono da meno centinaia di  aziende di Stato che sotto questo  grande ombrello ricevono prestiti  e finanziamenti facilitati.  Alcuni progetti sono addirittura  già falliti. L’esempio più emblematico  è forse quello di un’aziena da petrolifera di stato, la Zhongda  China Petrol, che dopo essersi  fatta finanziare la costruzione  di una gigantesca raffineria  in Kirghizistan ha realizzato  di poter comprare con le sue risorse  una quantità di greggio appena necessaria  a farla funzionare  al 6% della sua capacità.  Per questi motivi e a causa  dell’instabilità di molte delle  aree attraversate dalla «nuova  Via della Seta» molti dei progetti  sono difficili da portare a  termine. Secondo l’istituto di  ricerca sugli investimenti globali  Gavekal, i cinesi sarebbero  già pronti a perdere l’80 per  cento del capitale investito in  Pakistan, il 50 per cento in  Myanmar e il 30 per cento in  Asia centrale. Può darsi che la  Cina se lo possa ancora permettere,  ma il prezzo da pagare per  realizzare questo sogno di “Rinascimento  cinese” è già più alto  di quello previsto.