lunedì 15 maggio 2017

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Ma l’Italia dei porti va in ordine sparso
di cag. scn

I cinesi sono gente pratica. Fanno prima  i calcoli a tavolino e poi cercano la  maniera di trasformare la soluzione più  economica in realtà . Ora che hanno preso  il controllo del porto del Pireo (dopo  che per lungo tempo avevano mostrato  interesse per Taranto, che ha una posizione  più centrale per il Mediterraneo),  sfruttare il Mediterraneo e l’Italia in  particolare per raggiungere da sud l’Europa  centrale e settentrionale risparmiando  così dai quattro ai sette giorni di  navigazione rispetto al passaggio attraverso  Gibilterra e quindi Rotterdam, è  una prospettiva concreta. Ma per realizzarsi  ha bisogno di poggiarsi su porti italiani  pronti ed efficienti.  Ogni cartina sulla quale sia tracciato il  percorso della nuova via della seta marittima,  riporta Venezia, una città che ha  anche una potenza notevole per lo story  telling di tutto il progetto. È la Venezia  dei dogi, delle Repubbliche marinare e,  ultimo ma non ultimo, di Marco Polo.  Come sempre l’interesse italiano ad attirare  investimenti cinesi è alto, ma la capacità  di pianificare sul lungo periodo e  di creare sinergie tra gli interessati lascia  molto a desiderare.  Venezia, per il momento, è un collegamento  che rimane sulla carta. O poco  più. C’è un memorandum d’intesa per la  collaborazione dei porti industriali di  Marghera e Tianjin e un progetto che va  sotto il nome di “alleanza a cinque porti”  che dovrebbe unire le forze di Venezia,  Trieste e Ravenna con quelle di Capodistria  in Slovenia e Fiume in Croazia. L’idea  è quella di accogliere a Malamocco  (Ve) le grandi navi cargo provenienti direttamente  dallo stretto di Suez e da qui  far partire le merci sulle ferrovie che attraversano  la Svizzera e la Germania. Si  tratterebbe anche di scavalcare altri e  più importanti porti: Istanbul o il Pireo  sul Mediterraneo e Rotterdam, Anversa  o Amburgo sul mare del Nord.  Si potrebbe fare, ma non siamo pronti.  Come ci spiega la professoressa Alessia  Amighini – membro della delegazione  che accompagnerà il premier Gentiloni  a Pechino, a capo del programma di  ricerca sulla Cina dell’Ispi e curatrice  della recente pubblicazione China’s Belt  and Road: a Game Changer? (Edizioni  Epoké-Ispi, 2017) – «l’Italia soffre di  una grande frammentazione del territorio,  ma nessun porto nazionale è in grado  di far fronte da solo a un traffico così  consistente di merci». L’Italia oggi gestisce  un traffico container pari a oltre  dieci milioni di teu (container da venti  piedi). Di qui al 2030 in tutto il Mediterraneo  i traffici previsti sono 40 milioni:  bisogna vedere quale fetta ulteriore è capace  di accaparrarsi il Paese.  Rispetto all’Adriatico, la situazione  nel Tirreno ha fatto qualche passo in  avanti più concreto. Genova e Savona  sono state unite sotto un’unica Authority  (ma non La Spezia), e alle ampie banchine  genovesi presto si unirà il nuovo  terminal di Vado Ligure. Qui Cosco  shipping ports e Qingdao Port International  Development hanno acquisito il  40 e il 9,9 per cento della società che gestirà  il terminal e che è prevista entrare  nella fase operativa alla fine del 2018. A  regime gestirà un traffico di 800mila  teu. La nuova piattaforma sarà in grado  di accogliere le portacontainer da oltre  19mila teu, diventando un polo attrattivo  di prim’ordine. «Quella di Vado è l’unica  cooperazione tra aziende cinesi e  italiane che ha una sua concretezza», ci  assicura Augusto Cosulich, importante  armatore di Genova e tra i primi in Italia  a fare affari con i cinesi di Cosco. Ci confessa  che lui non è stato coinvolto nella  preparazione della missione italiana a  Pechino che, insinua un po’ piccato,  «forse serve soltanto gli interessi politici  di turno» perché «memorandum se ne  firmano in continuazione, ma non significano  nulla. Quello che sarebbe veramente  opportuno è fare gioco di squadra  ». Che è esattamente quello che la Cina  riesce a fare meglio grazie al controllo  dello Stato sulle sue aziende.  Approdi | Terminal e soldi  asiatici in Liguria. Altrove  siamo fermi ai memorandum