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Ma l’Italia dei porti va in ordine sparso
di cag. scn
I cinesi sono gente pratica. Fanno prima i calcoli a tavolino e poi cercano la maniera di trasformare la soluzione più economica in realtà . Ora che hanno preso il controllo del porto del Pireo (dopo che per lungo tempo avevano mostrato interesse per Taranto, che ha una posizione più centrale per il Mediterraneo), sfruttare il Mediterraneo e l’Italia in particolare per raggiungere da sud l’Europa centrale e settentrionale risparmiando così dai quattro ai sette giorni di navigazione rispetto al passaggio attraverso Gibilterra e quindi Rotterdam, è una prospettiva concreta. Ma per realizzarsi ha bisogno di poggiarsi su porti italiani pronti ed efficienti. Ogni cartina sulla quale sia tracciato il percorso della nuova via della seta marittima, riporta Venezia, una città che ha anche una potenza notevole per lo story telling di tutto il progetto. È la Venezia dei dogi, delle Repubbliche marinare e, ultimo ma non ultimo, di Marco Polo. Come sempre l’interesse italiano ad attirare investimenti cinesi è alto, ma la capacità di pianificare sul lungo periodo e di creare sinergie tra gli interessati lascia molto a desiderare. Venezia, per il momento, è un collegamento che rimane sulla carta. O poco più. C’è un memorandum d’intesa per la collaborazione dei porti industriali di Marghera e Tianjin e un progetto che va sotto il nome di “alleanza a cinque porti” che dovrebbe unire le forze di Venezia, Trieste e Ravenna con quelle di Capodistria in Slovenia e Fiume in Croazia. L’idea è quella di accogliere a Malamocco (Ve) le grandi navi cargo provenienti direttamente dallo stretto di Suez e da qui far partire le merci sulle ferrovie che attraversano la Svizzera e la Germania. Si tratterebbe anche di scavalcare altri e più importanti porti: Istanbul o il Pireo sul Mediterraneo e Rotterdam, Anversa o Amburgo sul mare del Nord. Si potrebbe fare, ma non siamo pronti. Come ci spiega la professoressa Alessia Amighini – membro della delegazione che accompagnerà il premier Gentiloni a Pechino, a capo del programma di ricerca sulla Cina dell’Ispi e curatrice della recente pubblicazione China’s Belt and Road: a Game Changer? (Edizioni Epoké-Ispi, 2017) – «l’Italia soffre di una grande frammentazione del territorio, ma nessun porto nazionale è in grado di far fronte da solo a un traffico così consistente di merci». L’Italia oggi gestisce un traffico container pari a oltre dieci milioni di teu (container da venti piedi). Di qui al 2030 in tutto il Mediterraneo i traffici previsti sono 40 milioni: bisogna vedere quale fetta ulteriore è capace di accaparrarsi il Paese. Rispetto all’Adriatico, la situazione nel Tirreno ha fatto qualche passo in avanti più concreto. Genova e Savona sono state unite sotto un’unica Authority (ma non La Spezia), e alle ampie banchine genovesi presto si unirà il nuovo terminal di Vado Ligure. Qui Cosco shipping ports e Qingdao Port International Development hanno acquisito il 40 e il 9,9 per cento della società che gestirà il terminal e che è prevista entrare nella fase operativa alla fine del 2018. A regime gestirà un traffico di 800mila teu. La nuova piattaforma sarà in grado di accogliere le portacontainer da oltre 19mila teu, diventando un polo attrattivo di prim’ordine. «Quella di Vado è l’unica cooperazione tra aziende cinesi e italiane che ha una sua concretezza», ci assicura Augusto Cosulich, importante armatore di Genova e tra i primi in Italia a fare affari con i cinesi di Cosco. Ci confessa che lui non è stato coinvolto nella preparazione della missione italiana a Pechino che, insinua un po’ piccato, «forse serve soltanto gli interessi politici di turno» perché «memorandum se ne firmano in continuazione, ma non significano nulla. Quello che sarebbe veramente opportuno è fare gioco di squadra ». Che è esattamente quello che la Cina riesce a fare meglio grazie al controllo dello Stato sulle sue aziende. Approdi | Terminal e soldi asiatici in Liguria. Altrove siamo fermi ai memorandum