venerdì 5 maggio 2017

Le Monde Diplomatique (Il Manifesto) Aprile 2017
Una minoranza di fronte ad aggressioni e stereotipi
I francesi di origine cinese si organizzano
Rimasti a lungo in disparte, i cinesi di Francia hanno fatto irruzione sulla scena pubblica organizzando una grossa manifestazione nel settembre 2016: chiedevano più protezione dopo l’aggressione mortale contro un membro della comunità. Hanno dato una prova di unità che non era scontata. A differenza dei genitori, la seconda generazione vuole combattere i pregiudizi dei quali è vittima
di Zhang Zulin*


Nel suo ufficio all'ottavo piano di un grattacielo de La Défense, vicino a Parigi, You Feiran, ingegnere trentenne, partecipa attivamente alle discussioni su WeChat, una rete sociale molto popolare presso i cinesi. Il suo gruppo, circa cinquecento membri, mette insieme studenti, ingegneri, commercianti, imprenditori e altre persone che in gran parte vivono o hanno vissuto in Francia. Si scambiano messaggi quotidianamente. Mattina del 2 agosto 2016: una giovane musicista inveisce contro «un gruppo di tibetani incrociati a Conflans Sainte-Honorine [Yvelines], bivaccano in angoli di strada prima occupati da senzatetto. Perché questi idioti [i francesi] li mantengono?» You Feiran, arrivato in Francia all'età di 10 anni, cerca di calmare gli spiriti: «I tibetani sono come gli altri richiedenti asilo. Ci sono associazioni che se ne occupano». Fatica sprecata: di certo, scrive un altro membro del gruppo, «la Francia non è una pattumiera ma ha accolto molti rifiuti». Quando lo incontriamo, un mese dopo, Feiran relativizza questo scambio tempestoso, assicurando che riflessioni di questo tipo provengono spesso da persone che hanno «subito ingiustizie o ascoltato propositi razzisti, piuttosto diffusi nella nostra società». «Incasellamento facciale» I governanti francesi amano parlare di integrazione, eppure affogano regolarmente i loro concittadini di origine asiatica in un mare di luoghi comuni. Mentre le prime generazioni di immigrati cinesi, pur soffrendo, hanno sempre taciuto e continuano a farlo, i loro discendenti, che non subiscono la barriera linguistica, hanno deciso di reagire. «C'è una specie di incasellamento facciale nella società. I francesi vedono la mia faccia e mi assegnano un ruolo, anche prima che io apra bocca. Percepiscono un messaggio e lo interpretano: quest'asiatico è un lavoratore, non gli piace parlare e non va in cerca di guai», osserva Wang Rui, laureato in gestione e finanza all'università di Paris-Dauphine e presidente dell'Associazione dei giovani cinesi di Francia. Per Wang Simeng, sociologo e specialista della comunità cinese al Centre national de la recherche scientifique (Centro nazionale per la ricerca scientifica - Cnrs), questo apprezzamento potrebbe essere percepito come una «discriminazione positiva» rispetto ad altri immigrati, sospettati di primo acchito delle peggiori intenzioni. Ma Wang Rui non sembra sensibile a questo «vantaggio»: «Quand'ero più giovane ho pensato di comprare la candeggina per sbiancarmi la pelle». Egli elenca i pregiudizi razzisti che ha dovuto subire nella sua infanzia. I problemi identitari non sono rari nelle nuove generazioni, racconta Frédéric Chau, uno degli attori di origine asiatica più noti in Francia, soprattutto dopo la sua partecipazione al film Qu'est-ce qu'on a fait au bon Dieu? (1). Arrivato in Francia all'età di sei mesi, nel periodo dell'adolescenza aveva rabbiosamente ripudiato le proprie origini. «Ma, diventando adulto, mi sono reso conto che tutto quello che mi è successo di buono nella vita, è stato proprio grazie a quelle origini», afferma. Nato in Vietnam da una famiglia originaria della minoranza cinese della Cambogia, racconta che ha avuto bisogno di lunghi scambi con i genitori e i nonni, e di periodi in Tailandia, Vietnam, Cambogia e Birmania, per trovare la pace interiore. E di certo non è il solo. Le persone di origine cinese che vivono attualmente in Francia, in particolare nell'Île-de-France, sarebbero circa seicentomila; ma siccome le statistiche su base etnica non sono autorizzate, si tratta solo di una stima (2). Alcuni hanno un passaporto francese, altri cinese – Pechino non riconosce la doppia nazionalità. Come mai questo approdo in un paese così lontano geograficamente e culturalmente? La questione è tanto più legittima per il fatto che quest'immigrazione non è stata «voluta dal paese d'accoglienza, salvo durante la prima guerra mondiale», fa notare la rivista Échanges (3). Prendendo come riferimento i 1.800 cinesi rimasti in Francia dopo il 1918, fra il 1925 e il 1935 arrivò una prima ondata, proveniente dalle città di Qingtian e soprattutto di Wenzhou (provincia dello Zhejiang) (4); da qui il loro soprannome, «Wenzhous». Negli anni 1970 arrivano i cosiddetti «boat people»: Teochew, cinesi del sud del paese (Guangdong) fuggiti dal comunismo emigrando in Cambogia, Laos e Sud Vietnam; lasciano la regione – come molti sud-vietnamiti – alla fine della guerra con gli Stati uniti. Queste famiglie si concentrano nel 13mo arrondissement di Parigi, anche se una parte di loro abita nei sobborghi. A partire dal 1979, con l'apertura delle frontiere cinesi, altri abitanti di Wenzhou raggiungono i compatrioti. Un altro flusso parte dal Dongbei, che raggruppa le province del Nord-Est (Liaoning, Heilongjang, Jilin), negli anni 1990-2000, dopo le ristrutturazioni e i massicci licenziamenti nelle industrie pesanti. Si ritrovano nel quartiere Belleville a Parigi. Quanto ai grossisti e alle società di import-export, dirette principalmente da cinesi di Wenzhou, i prezzi degli immobili e le difficoltà di parcheggio li spingono verso i sobborghi, in particolare ad Aubervilliers, in ex magazzini. Là lavorano fra i 4.000 e i 5.000 cinesi, il 30% dei quali arrivati dal Dongbei (5). La presenza cinese nel commercio e nel settore delle confezioni è spesso interpretata come il segno della riuscita economica di questa comunità: in Francia, i cinesi gestirebbero 35mila attività commerciali di prossimità come ristoranti, drogherie, negozi di fiori e bartabaccherie. È meno nota la loro presenza nelle professioni liberali (avvocati, architetti…) (6) e nei ruoli dirigenziali: appartiene alla categoria dei quadri il 27% dei discendenti da famiglie asiatiche, contro il 16,7% per l'insieme della popolazione attiva francese (7). Infine, gli studenti cinesi hanno preso la strada delle università e delle grandi scuole francesi. Nell'autunno 2015, gli iscritti erano 28.043, il secondo gruppo fra gli studenti stranieri in Francia, secondo l'Osservatorio della mobilità di Campus France. Alcuni pensano di rimanere, come Li Donglu, 34 anni, che vive in una camera a Montreuil, nella periferia parigina. Dopo gli studi alla scuola delle Belle arti di Versailles, è fra i pochissimi della nuova generazione artistica cinese a riuscire a vivere, anche se modestamente, con la propria arte. «Qui la mia vita è molto semplice. Non ci sono obblighi sociali, come in Cina», dice soddisfatto. Lo aiuta molto la galleria parigina A2Z. Diretta da Li Ziwei e Anthony Phoung, coppia di trentenni di origine sino-vietnamita, vuole essere un ponte fra la cultura asiatica e quella francese: «Abbiamo un altro modo di comunicare. Facciamo attenzione a elementi che potrebbero passare inosservati». Ma dietro questa bella facciata di riuscita sociale e culturale, diverse decine di migliaia di cinesi continuano a lavorare senza documenti, come manodopera nella ristorazione, nelle confezioni, nei prodotti della concia e nell'edilizia, con salari da fame. È difficile conoscerne il numero preciso. Nel 2005, la ricerca di Gao Yun e Véronique Poisson parlava di 60.000 clandestini, due terzi a Parigi (8). Senza parlare di quelli che sono obbligati alla prostituzione (si veda il riquadro). Malgrado tutto, comunque, a dominare nell'immaginario collettivo è la riuscita economica della maggior parte di loro, il che spiega le ripetute aggressioni a scopo di rapina ai loro danni. Guo Zhimin, presidente dell'associazione dei commercianti e industriali franco-cinesi, conosce bene questa violenza. All'epoca in cui aveva un supermercato asiatico a Belleville, era colpito dalla frequenza delle aggressioni. «Ogni settimana c'erano furti. All'uscita del mio supermercato i clienti asiatici venivano regolarmente borseggiati, ricorda. Ho affrontato varie volte i ladri.» Yang, il cui marito ha un'agenzia viaggi nel 3° arrondissement della capitale, confessa: «Da molti anni evito di andare a Belleville, perché ho paura di farmi derubare. Forse pensa che io esageri, ma è la verità.» Questa insicurezza ha spinto la comunità cinese a manifestare, per la prima volta nella sua storia, il 20 giugno 2010. Migliaia di persone (8.500 secondo la polizia, 30.000 secondo gli organizzatori) attraversarono allora il quartiere di Belleville in segno di protesta, dopo un'aggressione avvenuta durante un pranzo nuziale. Un anno dopo, il 19 giugno 2011, nuova manifestazione con lo slogan «la sicurezza è un diritto»: il figlio di un ristoratore cinese, aggredito violentemente, era finito in coma. Da allora è stata creata una brigata specializzata sul campo (Bts), che ha intensificato i pattugliamenti intorno alla metro Belleville, a cavallo fra gli arrondissements 10, 19, 20. E Guo trova il quartiere più tranquillo – anche se ormai ha trasferito l'attività ad Aubervilliers. Tuttavia, fa osservare, «la violenza di oggi è molto più pericolosa. Prima, i ladri strappavano le borse e rubavano il denaro; adesso colpiscono subito la vittima». Lo testimonia la morte, ad Aubervilliers, di Zhang Chaolin, un operaio cinese di 49 anni percosso da tre giovani. Il fatto ha determinato un'altra manifestazione, il 4 settembre 2016: cinquantamila persone (15.500 secondo la polizia), in gran parte cinesi ma anche vietnamiti, cambogiani, coreani ecc, di ogni età e professione, a piazza della République, a Parigi, al grido di «Liberté, égalité, fraternité et sécurité» («libertà, uguaglianza, fraternità e sicurezza»). La protesta, lanciata da 64 organizzazioni cinesi e asiatiche, come l'Associazione dei cinesi residenti in Francia, quella dei giovani cinesi di Francia e quella dei commercianti, è stata impressionante per il numero e la determinazione dei partecipanti, e per il rigore dell'organizzazione. Il 13 agosto 2016, il giorno dopo la morte di Zhang, un gruppo di persone si era riunito presso l'avvocato Wang Lijie, a Parigi. «Abbiamo deciso di manifestare il giorno successivo», ricorda Wang Rui. Una prima manifestazione spontanea ad Aubervilliers ha visto la partecipazione di mille persone. Alla seconda, il 21 agosto, il numero di manifestanti si era quadruplicato. Le due mobilitazioni sono state una base solida per il futuro movimento. Giovani e anziani, pur uniti nel reagire, non hanno sempre gli stessi punti di vista, soprattutto rispetto ai rapporti con le autorità del paese d'origine. «Noi giovani non siamo d'accordo con la decisione di fare appello all'ambasciata cinese», dichiara Wang Rui. Per i più adulti si tratta invece di un passo indispensabile. Ai loro occhi, certi giovani hanno dimenticato le proprie radici. Secondo uno dei partecipanti, i funzionari cinesi hanno assistito a tutte le riunioni, salvo la prima. Niente di più normale per Wu Changong, redattore di Huarenjie, giornale in mandarino pubblicato a Parigi: «Zhang Chaolin era un cittadino cinese». Per superare l'ostacolo della divisione, Chi Wansheng, presidente dell'Associazione dei cinesi in Francia - l'organizzazione comunitaria più importante e antica -, ha proposto di ripartire i compiti fra le associazioni. «Questo modo di procedere si è rivelato efficace. Altrimenti, la manifestazione non sarebbe riuscita», riconosce Wang Rui, che il movimento ha incaricato della comunicazione in francese, mentre quella in cinese era assicurata da Whu Changong. In questo modo, sono riusciti a raggiungere tutta la comunità cinese che vive in Francia. L'ampiezza della mobilitazione ha fatto nascere il sospetto di un sostegno da parte di Pechino. Ma, per la ricercatrice Wang Simeng, è stato tutto merito «della comunità cinese di Francia, che è arrivata a una certa maturità». I rappresentanti della seconda generazione, spiega, hanno 30 anni e oltre; hanno conosciuto le due manifestazioni del 2010 e del 2011, e vogliono «essere considerati francesi a pieno titolo». Hanno approfittato delle reti sociali per comunicare, con l'approvazione da parte degli anziani. Ed è stato il segreto della riuscita. Ovviamente il discorso solo in cinese di Lu Qinjiang, consigliera dell'ambasciata della Repubblica popolare cinese, ha suscitato perplessità. Ancor oggi, Wang Rui ripete che «i giovani erano contro questo invito», che egli considera una macchia sul movimento. I giovani erano ugualmente contrari a qualunque discorso da parte di politici francesi. Wang Simeng assicura che se il movimento si fosse prodotto venti anni fa, «l'ambasciata cinese non avrebbe assistito, perché le diaspore erano abbandonate a se stesse». E pensa che si tratti di un recupero politico: «Per la Cina, ormai la diaspora conta e ha un ruolo da giocare - un ruolo economico e comunicativo». Ma non è certo che la nuova generazione, che si vede completamente francese, sia sulla stessa lunghezza d'onda. Non a caso, davanti all'impressionante folla radunata a piazza della République, Wang Rui ripeteva nel microfono: «Questa manifestazione è nostra, di noi manifestanti!».

(1) Il film di Philippe de Chauveron (2014) racconta la storia di una coppia di francesi della borghesia cattolica le cui figlie sposano uomini di origini e religioni diverse.
(2) La cifra varia fra 300.000 (secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro) e 600.000 (secondo alcuni esperti).
(3) Henri Simon, «France: l’immigration chinoise», Échanges, n. 121, Parigi, estate 2007.
(4) Yu-Sion Live, «Les Chinois de Paris: groupes, quartiers et réseaux», in Antoine Marès e Pierre Milza (a cura di), Le Paris des étrangers depuis 1945, Pubblicazioni della Sorbonne, Parigi, 1995. (5) Luc Richard, «...Aubervilliers, après le “miracle chinois”», Marianne, Parigi, 17 agosto 2013. (6) Sandrine Trouvelot, «Immigration: pourquoi les Chinois réussissent mieux que les autres», Capital, Parigi, 6 dicembre 2012.
(7) Cris Beauchemin, Christelle Hamel e Patrick Simon (a cura di), Trajectoire et origines. Enquête sur la diversité des populations de France, Institut national d’études démographiques, coll. «Grandes enquêtes», Parigi, 2008.
(8) Gao Yun e Véronique Poisson, «Le trafic et l’exploitation des immigrants chinois en France», Ufficio internazionale del lavoro, Ginevra, marzo 2005.
(Traduzione di Marianna De Dominicis).
*giornalista