La Repubblica, 17.5.17
di Simonetta Fiori
Baricco racconta il suo rapporto con la rassegna di Torino
che apre al Lingotto la trentesima edizione:
“È difficile riprodurre la formula altrove…
Il Salone vincerà perchè è un brand come la Nutella”
Roma
Una ragione sentimentale. Potrà sembrare bizzarro ma quando si parla del Salone di Torino non c'è scrittore o editore che non invochi quell'affetto che nasce dall'abitudine e dai ricordi. «È un brand vincente come la Nutella», dice Alessandro Baricco che della fiera torinese è stato uno dei primi cronisti e uno dei primi direttori culturali. «Il Salone è entrato nel cuore delle persone. E riprodurre un legame simile da un'altra parte potrebbe richiedere anni». Domani al Lingotto si inaugura la trentesima edizione della Libropoli fondata nel maggio del 1988 sotto gli archi di Torino Esposizioni, al parco del Valentino. E, come succede per i compleanni a cifra tonda, si sfoglia l'album delle foto più importanti. Tra baruffe, metamorfosi e paradossi che ne costituiscono una chimica costante. Il suo primo Salone? «Avevo trent'anni: mi occupavo di musica e avevo appena pubblicato un libro su Rossini. Ma ricordo nitidamente l'impressione che mi fece vedere gli scrittori in carne ed ossa. Lalla Romano seduta sul sofà. Giulio Einaudi che passeggia tra gli stand. Sebastiano Vassalli in piedi davanti a una pila di libri. Allora il rapporto fisico con l'autore era una novità assoluta». L'idea era stata di un libraio torinese, Angelo Pezzana, cui seppe dare concretezza l'imprenditore Guido Accornero. «Un'idea geniale che riprendeva il Salon du Livre parigino ma con un tratto di originalità nel quale si vedevano la mano fantasiosa di Pezzana e il gusto di Accornero. Si trattava dell'iniziativa di due privati. Quando si dice che la cultura non si può fare senza soldi pubblici spesso non è vero». Al primo Salone si affacciò Gianni Agnelli, mentre non venne il ministro della Pubblica Istruzione Giovanni Galloni. «Ecco, un aneddoto che la dice lunga». Però la politica non restò a guardare. L'allora sindaco di Milano Pillitteri cercò di appropriarsene rivendicando il primato lombardo dei libri. E la sindaca Maria Magnani Noya, prima donna alla guida di Torino, ne contenne con eleganza il tentativo di scippo. «Perché poi alla fine il soggetto economico più forte sono i cittadini. E i cittadini si organizzano attraverso i loro rappresentanti. I privati ne devono tenere conto». Il Salone ebbe subito grande successo. Beniamino Placido ci scrisse sopra un divertente corsivo: il libro viene celebrato proprio quando cominciano a morire la "libridine" e "la lettura come vizio". «Io però la interpreterei in modo differente. Non si trattava dell'inizio della fine ma del principio di una metamorfosi che ha allargato gli steccati della lettura includendo un pubblico che prima non c'era. Il Salone riuscì a intercettare questa trasformazione». In che modo? «Fino agli anni Settanta la lettura è stata una pratica diffusa in un mondo molto piccolo. E lo specchio di questo piccolo mondo era la libreria. La nascita delle grandi catene – guardata con sospetto – ha favorito l'ingresso tra gli scaffali anche di chi non vi aveva mai messo piede. E questi neofiti che magari leggevano testi diversi rispetto a quelli dell'élite colta hanno cambiato anche la fruizione del libro: sono lettori che consumano molto lo scrittore e forse un po' meno il libro. Il Salone ebbe il merito di anticipare tutto questo» Il consumo dello scrittore? «Sì, il piacere di consumare lo scrittore. Poi ciascuno può giudicare come vuole questo fenomeno, ma è innegabile che sia diventato parte importante dell'industria culturale. Diventa prevalente il rapporto con l'autore come corpo e come personaggio. Italo Calvino incontrava solo una selezionata cerchia di intellettuali di sinistra. Oggi anche i più raffinati tra i nostri autori sono diventati dei performer». Neppure gli aristocratici dell'Einaudi ignoravano il problema. Quando uscirono le Fiabe italiane curate da Calvino, Giulio Einaudi propose che alla presentazione partecipassero Sophia Loren e Gina Lollobrigida, fisicamente non proprio insignificanti. «Certo mi riesce difficile immaginare Calvino…». Ma il bagno di folla da rockstar non può essere pericoloso per l'ego di uno scrittore? «Ho visto più narcisismo in autori che parlavano a quindici lettori». E a proposito di performance, quest'anno non mancherà la sua: una lettura di "Furore" insieme a Bianconi dei Baustelle. Colpisce la modalità da rave party: rivelerete la location solo all'ultimo. «Non volevo fare uno spettacolo imbalsamato, ma una cosa più mossa da condividere anche nell'improvvisazione. Era da tempo che volevo occuparmi dei migranti. E Furore è un romanzo che dice tutto quel che c'è da dire sulla migrazione degli umani». Quale fu il suo primo incontro folgorante al Salone? «Un incontro mancato. Ero stato incaricato di una sorta di direzione culturale – parliamo dei primi anni – e riuscii a ottenere il sì di Umberto Eco. Tutto fiero ed emozionato lo aspettai sotto gli archi del Valentino. Fin quando mi dissero che Eco era già in sala a tenere la sua lezione sull'umorismo. Aveva una gran fretta e giustamente si dimenticò di salutarmi». Leggerezza colta fu la cifra della direzione di Beniamino Placido, poi ripresa da Ernesto Ferrero. «Beniamino era un maestro d'ironia. La cosa formidabile di quella prima stagione era che il direttore culturale cambiava ogni anno, al massimo durava due o tre anni. Una buona abitudine. Le direzioni troppo lunghe producono rigidità e automatismi». Quando ha visto il Salone cambiare? «Quando hanno prevalso gigantismi immotivati, sprechi, lentezze burocratiche: questo può succedere quando interviene il denaro pubblico, anche se i primi anni della nuova gestione mantennero una discreta vitalità. Poi sono arrivate anche le inchieste giudiziarie. E più di recente il divorzio da Torino sancito dai grandi gruppi editoriali, che si sono fatti la loro fiera a Milano. Alla fine dobbiamo ringraziarli. Urtato con forza, l'albero ha fatto cadere foglie secche e mele marce. Una nuova generazione s'è messa al lavoro. E tutta la città ha reagito nel modo migliore». È come se il tentativo di trasferire il Salone altrove avesse risvegliato una sorta di orgoglio sabaudo. «Nell'incontro tra vocazione industriale e tradizione culturale, Torino sa di essere la città ideale per un Salone del Libro. E poi all'Italia non conviene avere Milano e Roma che fanno tutto». Questo Salone segna anche un cambio generazionale, con l'ingresso di una nuova squadra di quarantenni guidata da Nicola Lagioia. Cosa porta di più questo nuovo sguardo? «Non bisogna mai chiedersi se la generazione successiva sia più o meno brava della precedente. Il ricambio è comunque necessario. Il più giovane ha più voglia di lavorare. Ha meno amici che lo rallentano. Ha più fame. Si diverte di più. E ha anche più resistenza fisica. Porta un altro modo di muoversi nel mondo, sicuramente più appropriato al mondo così com'è». ©RIPRODUZIONE RISERVATA