lunedì 15 maggio 2017

Internazionale 13.5.17 
La passione dell’Iran  per le scienze   
Per far fronte alle difficoltà causate dalle sanzioni, Teheran ha puntato sulla  ricerca scientifica e le nuove tecnologie. Con risultati sorprendenti 
di Patrick Illinger, Süddeutsche Zeitung, Germania.   


 “E l’Mit iraniano”, sussurra  con deferenza  la studente che mi  accompagna in un  laboratorio al primo  piano dell’università  di Sharif, a Teheran. Entrando nella stanza,  il paragone con il celebre Massachusetts  institute of technology di Boston, negli Stati  Uniti, suona piuttosto forzato. Il laboratorio  sembra la stanza di un appassionato di  bricolage. Su un tavolo c’è un lungo contenitore  rettangolare che un ricercatore sta  riempiendo d’acqua con un tubo di gomma.  Un laser verde illumina il liquido.  Ma, come succede spesso in Iran, l’apparenza  inganna. Con innegabile competenza,  i fisici impegnati nell’esperimento  spiegano che la dispersione della luce del  laser nell’acqua dipende dalle quantità di  ossigeno e di sale presenti nel liquido. Da  uno schema sulla parete s’intuisce che il laser  nella vaschetta non è un gioco, ma il primo  passo verso un nuovo sistema di comunicazione  per sottomarini: un’internet subacquea.  Negli altri laboratori dell’università lavorano  nanoscienziati, fisici quantistici,  esperti di biotecnologie e ingegneri robotici.  L’università di Sharif è il più importante  polo scientifico e ingegneristico dell’Iran.  Dei circa 700mila studenti che ogni anno  provano il test d’ingresso solo i migliori  cento sono ammessi. Tra gli ex studenti di  questo istituto d’élite c’è anche Maryam  Mirzakhani, una matematica che oggi insegna  all’università statunitense di Stanford e  che nel 2014 è stata la prima donna a ottenere  la medaglia Fields, il massimo riconoscimento  nel suo campo di studio. La passione  per le materie scientifiche si respira  anche negli altri due atenei della capitale,  l’università di scienze e tecnologia dell’Iran  e l’università di Teheran. Sembra che nulla  possa ostacolare la sete di sapere degli studenti  iraniani: né le scarse dotazioni dei laboratori  né lo smog che incombe sulla città  né gli interminabili ingorghi di traffico.  L’obiettivo dichiarato del governo iraniano  è trasformare il paese da esportatore di petrolio  a “società della conoscenza”.  Fatto in casa  Negli ultimi anni, sotto il peso delle sanzioni  internazionali, l’Iran ha sviluppato un  microcosmo d’innovazione. Nove prodotti  su dieci sono fatti nel paese e spesso sono di  ottima qualità. Lo stesso vale per le tecnologie  avanzate: gli iraniani usano social network  e app progettati da loro, e c’è un’industria  farmaceutica autonoma. Alcuni pagamenti  si fanno con Ezpay, uno speciale sistema  di carte dotate di chip. Inoltre, “con  le sanzioni non ci siamo più dovuti preoccupare  dei brevetti”, confessa facendo l’occhiolino  la manager di un’azienda di biotecnologie.  Ora, dopo l’accordo sul nucleare del  2015 tra Teheran e i paesi del gruppo 5+1  (Stati Uniti, Regno Unito, Russia, Francia,  Cina e Germania) e il conseguente allentamento  delle sanzioni, il governo iraniano  prevede una crescita economica intorno al  6 per cento per i prossimi vent’anni.  Gli iraniani sono quasi 80 milioni, in  gran parte giovani. Molti tra i più istruiti sono  emigrati. Gli iraniani che vivono all’estero  sono cinque milioni, ma le loro relazioni  con il paese restano strette. Nelle università  moltissimi ricercatori hanno trascorso un  periodo all’estero e poi sono tornati. Uno  dei fisici che incontro, il cui obiettivo è misurare  le onde cerebrali con sensori magnetici,  ha lavorato nel centro di ricerca di  Jülich, in Germania, insieme a Peter Grünberg,  premio Nobel per la fisica nel 2007.  La passione per le scienze, unita al potenziale  di una generazione di giovani molto  istruiti, attrae l’occidente. Dopo il referendum  sulla Brexit nel Regno Unito e l’elezione  di Donald Trump negli Stati Uniti, per  gli studenti iraniani è diventato più difficile  trasferirsi nei paesi anglosassoni ma si sono  aperte nuove opportunità di collaborazione  con le università europee. Negli ultimi tempi  l’Iran ha accolto molte delegazioni straniere,  tra cui quella di Carlo Moedas, commissario  europeo per la ricerca, la scienza e  l’innovazione, e di Joachim Rogall, il capo  della fondazione tedesca Robert-Bosch.  Quello che è successo nei paesi anglosassoni  è negativo, ha detto Rogall alla camera di  commercio a Teheran, ma per l’Europa si  aprono nuove opportunità. I rappresentanti  delle startup iraniane presenti all’incontro  l’hanno subissato di domande e di richieste.  “Molti iraniani non vedono l’ora di uscire  dall’isolamento e di riguadagnarsi il rispetto  della comunità internazionale”, scrive  Charlotte Wiedemann nel libro Der neue  Iran (Il nuovo Iran), appena pubblicato. Di  certo questo spiega perché gli scienziati iraniani  sono così competitivi, che si parli di  auto alimentate a energia solare o elettrica  (come la “gazzella persiana”) o di calcio  giocato dai robot, con quelli iraniani che  hanno già sconfitto i tedeschi. Il governo di  Teheran ha investito milioni di euro in un  laboratorio per la mappatura del cervello  con la risonanza magnetica.  Il paese è “più pragmatico, unito, laico e  ha una componente femminile più forte rispetto ai primi anni della rivoluzione”, scrive  Wiedemann. Ma tra religione e tecnologia  c’è ancora una grande distanza. In ogni  laboratorio è appesa una foto dell’ayatollah  Khomeini. L’incontro alla camera di commercio  con il capo della Robert-Bosch è  cominciato con l’audio di un sermone. I  giornalisti continuano a essere visti con sospetto  e quando viaggiano per il paese sono  accompagnati da un “traduttore” che non li  lascia mai soli.  Anche la struttura di governo può sembrare  confusa. C’è un vicepresidente per la  scienza e la tecnologia, ma anche un ministro  della ricerca scientifica. E non manca la  fondazione nazionale delle scienze, un istituto  che promuove l’innovazione e la crescita  economica finanziando le startup tecnologiche.  “L’apparato di potere di Teheran è polifonico,  spesso cacofonico, un miscuglio di  clero, militari e burocrati”, racconta Wiedemann.  È un sistema ibrido, con elementi  teocratici e democratici. Al suo interno c’è  una proliferazione di figure in qualche modo  legate allo stato e al mondo non profit, il  cui ruolo, dall’esterno, resta poco chiaro.  Tra i parlamentari ci sono meno religiosi e  più donne rispetto a qualsiasi altro momento  della storia iraniana. Ma il parlamento ha  bocciato molti candidati alla carica di ministro  della ricerca scientifica che erano stati  proposti dal governo, tra cui Mahmoud Nili  Ahmadabadi, lo stimato rettore dell’università  di Teheran. È stato un modo per dare  una lezione al presidente moderato Hassan  Rohani.  Salvare la faccia  La vita di tutti i giorni a Teheran, d’altro  canto, ha poco a che vedere con un apparato  di governo apparentemente dittatoriale e  arcaico. Molte cose ufficialmente vietate –  come le antenne paraboliche, i social network  o l’alcol – sono diffuse nel privato. Nelle  strade dei quartieri ricchi della capitale  non è raro sentire il rombo di una Lamborghini.  Per i conservatori iraniani è più importante  che ci siano i divieti rispetto al fatto  che siano rispettati.  Questa necessità di salvare le apparenze  ha reso particolarmente complessi i negoziati  sul programma nucleare. Gli impianti  nucleari, che sono rigorosamente separati  dalle università e inaccessibili, sono un motivo  di vanto per i conservatori. Invece, ufficiosamente,  gli scienziati iraniani sono  scettici sulla loro utilità. L’Iran produce più  petrolio e gas di quanto gli serva, e i deserti  offrono spazio per produrre energia solare  e termica. Tuttavia, non è l’occidente che  può decidere cos’è permesso e cos’è proibito.  L’esistenza dei reattori risponde innanzitutto  a un imperativo politico, anche se  nelle università le ricerche sul nucleare non  sono tenute in gran considerazione.  La contraddizione più sorprendente è  forse quella che riguarda le donne. Le iraniane  devono coprirsi il capo e molte indossano  il tradizionale chador. “Eppure le donne,  consapevoli e attive in ambito professionale,  sono centrali nella vita pubblica  come in nessun altro paese della regione”,  scrive Wiedemann. Più del 60 per cento  degli studenti sono ragazze. Nella facoltà di  ingegneria dell’università di Sharif le studenti  sono un terzo.  Il grado di emancipazione femminile è  evidente durante una riunione dell’associazione  iraniana delle società d’investimento:  con o senza velo, le donne sono più della  metà dei presenti. In un inglese impeccabile,  la presidente Mehrnaz Heidari parla di  finanziamenti alle startup e di quotazioni in  borsa. Haleh Hamedifar, amministratrice  delegata dell’azienda di biotecnologie CinnaGen,  racconta ai partecipanti com’è riuscita  a finanziare una ricerca su una terapia  per il cancro al seno. Oggi Hamedifar dà  lavoro a 1.900 persone.  Il governo ha ovviamente tutto l’interesse  a trasformare ricerche e tecniche in innovazioni  utilizzabili. Sorena Sattari è il vicepresidente  per la scienza e la tecnologia.  Figlio di un comandante dell’aeronautica,  Sattari, intervistato nel 2015 dalla rivista  statunitense Science, ha parlato di uno “spirito  da Silicon valley”. “Durante le sanzioni  abbiamo cambiato atteggiamento”, spiega.  “Oggi crediamo molto negli investimenti in  ambito scientifico. Le innovazioni sono essenziali  per alimentare un’economia basata  sulla conoscenza”. Sattari aveva ricevuto  un’allettante proposta per una collaborazione  scientifica dagli Stati Uniti. Ma poi è  stato eletto presidente Donald Trump, che  ha bloccato l’ingresso ai cittadini iraniani.  Per questo gli scienziati iraniani hanno cominciato  a guardare altrove, verso paesi  come la Germania e il Canada.  Per professori e studenti è ancora difficile  stabilire contatti all’estero. Per esempio,  la politica tedesca sui visti di studio è considerata  restrittiva e orientarsi nel panorama  accademico di un altro paese è complesso.  Uno studente racconta che in Germania  scrivere email ai professori non è visto di  buon occhio, mentre negli Stati Uniti rispondono  sempre molto in fretta.  “Sulla carta collaborare con l’estero è  più facile di quanto lo sia in realtà”, afferma  Ahmadabadi, il rettore dell’università di  Teheran, un’istituzione fondata prima della  seconda guerra mondiale in collaborazione  con gli accademici tedeschi. La sua proposta  è “promuovere una collaborazione concreta”.  Anche l’ingegnere elettronico Mahdi  Pourfath ne ha abbastanza di dichiarazioni  vaghe e di delegazioni straniere: “Finora  abbiamo solo parlato. Quando passeremo  ai fatti?".