lunedì 29 maggio 2017

Il Sole Domenica 28.5.17
Provocazioni
Caporetto non fu una Caporetto
di Alfredo Sessa

A cento anni di distanza non ci basta più conoscere le cause dello sfondamento delle linee italiane a Caporetto. Gli studiosi di storia militare ci spiegano, certo, che l’offensiva austro-tedesca, iniziata il 24 ottobre 1917, ottenne un successo travolgente perché il Regio Esercito sottostimò i preparativi che fervevano dietro le linee nemiche e le confidenze dei disertori. O ci ricordano che l’avversario utilizzò abilmente la tattica dell’infiltrazione e concentrò lo sforzo, con la complicità della nebbia, contro i punti deboli dello schieramento italiano, individuati soprattutto nei fondo valle. Ma ora, un secolo dopo, di Caporetto ci interessa soprattutto conoscere brandelli di vera vita quotidiana. Voci, pensieri, desideri, dubbi, errori, sofferenze degli uomini e delle donne dell’Italia di allora. Per capire come eravamo veramente, senza il filtro della censura e della propaganda. E per capire, nel raffronto centenario, cosa siamo diventati, oggi, noi italiani.
Stefano Lucchini, direttore International and Regulatory Affairs di Intesa Sanpaolo, appassionato di storia contemporanea, ci accompagna in questa opera di scavo nel passato. Lucchini ha ricostruito la disfatta di Caporetto attraverso un serrato montaggio di confidenze di soldati e ufficiali, uomini politici, giornalisti, scrittori e gente comune. Un’antologia di testimonianze vive, provocatorie, direttamente in arrivo dall’inferno dell’autunno-inverno 1917. Il risultato è un libro, A Caporetto abbiamo vinto, che alle voci umane affianca una raccolta di fotografie, cartoline patriottiche, vignette satiriche, poesie, canzoni. Nel centenario degli eventi, riaffiora così la drammatica successione dei fatti.
Il titolo del libro è paradossale, ma non troppo. «Potremmo infatti dire - osserva Lucchini nella prefazione - che occorreva una disfatta come quella di Caporetto per liberare l’Italia dalla dittatura di Cadorna, arrivare a una riorganizzazione sotto la guida del generale Diaz, risparmiare ai soldati inutili assalti, assicurare riposi e avvicendamenti».
Le testimonianze sono dure. Protagonista è la guerra vera, fatta di eroismo ma anche di diserzioni, fucilazioni, decimazioni. Le divise non sono pulite, le azioni non sono sempre vittoriose come nelle copertine di Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere. «Oh, non si muore per la patria, così. Si muore per l’imbecillità di certi ordini e la vigliaccheria di certi comandanti» scrive il fante Carlo Salsa. «[....] Ah, se i comandi comprendessero che contro un reticolato intatto e una mitragliatrice che funzioni non c’è massa che conti! Se comprendessero che questa è una guerra di materiali, e che il coraggio inerme non può nulla! Ma i generali sono incrostati alle norme tattiche distillate dai libri: sono inzuppati di ricordi garibaldini, in cui la guerra si fa cantando, con le fanfare e le bandiere in testa!»
Lucide testimonianze di ufficiali a stretto contatto con il comandante in capo dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, danno conto del basso morale delle truppe, logorato da sanguinosissimi e quasi sempre inutili assalti durante le battaglie sull’Isonzo: «L’esercito è buono, ma è un esercito, rispetto all’antico, rassegnato: va dove si manda, ma piangendo» scrive nel suo diario di guerra, che ci restituisce anche lo stato d’animo degli alti comandi, il colonnello Angelo Gatti, capo dell’Ufficio storico del Comando supremo.
Alla vigilia di Caporetto si arriva con un esercito divenuto nei suoi ranghi pensieroso e cupo, facile alla diserzione e allo sbandamento, come successe, in effetti, nei tragici giorni dell’offensiva austro-tedesca. Tanto da indurre Luigi Cadorna a parlare di «reparti vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico».
«Maledetto sia Cadorna» replica altrettanto duramente, dando voce ai tanti caduti italiani, una vecchia canzone popolare di protesta. Cento anni dopo, anche Lucchini mette Cadorna, il grande teorico degli attacchi frontali senza risparmio di vite umane, sul banco degli accusati. Tanto da proporne l’espulsione dalla toponomastica delle nostre città, una damnatio memoriae che possa, in qualche modo, punire retrospettivamente la condotta di guerra di un generale che per ventinove mesi spedisce i soldati all’assalto nella terra di nessuno, a strisciare sotto i reticolati e a farsi falciare dalle mitragliatrici austriache. L’esempio lo ha dato la città di Udine, sede del Comando supremo italiano fino ai giorni di Caporetto, che nel novembre 2011 ha ufficialmente cambiato il nome del piazzale Luigi Cadorna in piazzale Unità d’Italia. «Questo libro - conclude Lucchini - aggiunge la sua voce alle tante che chiedono di togliere il nome di Luigi Cadorna dalle vie e dalle piazze d’Italia».
A Caporetto abbiamo vinto , a cura
di Stefano Lucchini, Rizzoli, Milano, pagg. 200, € 24