Il Sole Domenica 28.5.17
Provocazioni
Caporetto non fu una Caporetto
di Alfredo Sessa
A
cento anni di distanza non ci basta più conoscere le cause dello
sfondamento delle linee italiane a Caporetto. Gli studiosi di storia
militare ci spiegano, certo, che l’offensiva austro-tedesca, iniziata il
24 ottobre 1917, ottenne un successo travolgente perché il Regio
Esercito sottostimò i preparativi che fervevano dietro le linee nemiche e
le confidenze dei disertori. O ci ricordano che l’avversario utilizzò
abilmente la tattica dell’infiltrazione e concentrò lo sforzo, con la
complicità della nebbia, contro i punti deboli dello schieramento
italiano, individuati soprattutto nei fondo valle. Ma ora, un secolo
dopo, di Caporetto ci interessa soprattutto conoscere brandelli di vera
vita quotidiana. Voci, pensieri, desideri, dubbi, errori, sofferenze
degli uomini e delle donne dell’Italia di allora. Per capire come
eravamo veramente, senza il filtro della censura e della propaganda. E
per capire, nel raffronto centenario, cosa siamo diventati, oggi, noi
italiani.
Stefano Lucchini, direttore International and Regulatory
Affairs di Intesa Sanpaolo, appassionato di storia contemporanea, ci
accompagna in questa opera di scavo nel passato. Lucchini ha ricostruito
la disfatta di Caporetto attraverso un serrato montaggio di confidenze
di soldati e ufficiali, uomini politici, giornalisti, scrittori e gente
comune. Un’antologia di testimonianze vive, provocatorie, direttamente
in arrivo dall’inferno dell’autunno-inverno 1917. Il risultato è un
libro, A Caporetto abbiamo vinto, che alle voci umane affianca una
raccolta di fotografie, cartoline patriottiche, vignette satiriche,
poesie, canzoni. Nel centenario degli eventi, riaffiora così la
drammatica successione dei fatti.
Il titolo del libro è
paradossale, ma non troppo. «Potremmo infatti dire - osserva Lucchini
nella prefazione - che occorreva una disfatta come quella di Caporetto
per liberare l’Italia dalla dittatura di Cadorna, arrivare a una
riorganizzazione sotto la guida del generale Diaz, risparmiare ai
soldati inutili assalti, assicurare riposi e avvicendamenti».
Le
testimonianze sono dure. Protagonista è la guerra vera, fatta di eroismo
ma anche di diserzioni, fucilazioni, decimazioni. Le divise non sono
pulite, le azioni non sono sempre vittoriose come nelle copertine di
Achille Beltrame sulla Domenica del Corriere. «Oh, non si muore per la
patria, così. Si muore per l’imbecillità di certi ordini e la
vigliaccheria di certi comandanti» scrive il fante Carlo Salsa. «[....]
Ah, se i comandi comprendessero che contro un reticolato intatto e una
mitragliatrice che funzioni non c’è massa che conti! Se comprendessero
che questa è una guerra di materiali, e che il coraggio inerme non può
nulla! Ma i generali sono incrostati alle norme tattiche distillate dai
libri: sono inzuppati di ricordi garibaldini, in cui la guerra si fa
cantando, con le fanfare e le bandiere in testa!»
Lucide
testimonianze di ufficiali a stretto contatto con il comandante in capo
dell’esercito italiano, Luigi Cadorna, danno conto del basso morale
delle truppe, logorato da sanguinosissimi e quasi sempre inutili assalti
durante le battaglie sull’Isonzo: «L’esercito è buono, ma è un
esercito, rispetto all’antico, rassegnato: va dove si manda, ma
piangendo» scrive nel suo diario di guerra, che ci restituisce anche lo
stato d’animo degli alti comandi, il colonnello Angelo Gatti, capo
dell’Ufficio storico del Comando supremo.
Alla vigilia di
Caporetto si arriva con un esercito divenuto nei suoi ranghi pensieroso e
cupo, facile alla diserzione e allo sbandamento, come successe, in
effetti, nei tragici giorni dell’offensiva austro-tedesca. Tanto da
indurre Luigi Cadorna a parlare di «reparti vilmente ritiratisi senza
combattere o ignominiosamente arresisi al nemico».
«Maledetto sia
Cadorna» replica altrettanto duramente, dando voce ai tanti caduti
italiani, una vecchia canzone popolare di protesta. Cento anni dopo,
anche Lucchini mette Cadorna, il grande teorico degli attacchi frontali
senza risparmio di vite umane, sul banco degli accusati. Tanto da
proporne l’espulsione dalla toponomastica delle nostre città, una
damnatio memoriae che possa, in qualche modo, punire retrospettivamente
la condotta di guerra di un generale che per ventinove mesi spedisce i
soldati all’assalto nella terra di nessuno, a strisciare sotto i
reticolati e a farsi falciare dalle mitragliatrici austriache. L’esempio
lo ha dato la città di Udine, sede del Comando supremo italiano fino ai
giorni di Caporetto, che nel novembre 2011 ha ufficialmente cambiato il
nome del piazzale Luigi Cadorna in piazzale Unità d’Italia. «Questo
libro - conclude Lucchini - aggiunge la sua voce alle tante che chiedono
di togliere il nome di Luigi Cadorna dalle vie e dalle piazze
d’Italia».
A Caporetto abbiamo vinto , a cura
di Stefano Lucchini, Rizzoli, Milano, pagg. 200, € 24