martedì 23 maggio 2017

Il Sole Domenica 21.5.17
Elzeviro
L’Europa disarcionata
Gli ideali scaturiti dalla storia e dalla cultura del continente sembrano essersi inariditi. Oggi dominano i «Trattati», i mercati e la logica della globalizzazione
di Salvatore Settis

«I parafulmini devono essere saldamente infissi nel terreno. Anche le idee più speculative devono essere ancorate nella realtà, nella materia delle cose. Che dire allora dell’idea di Europa?». Con queste parole comincia un saggio, straordinario per profondità ed eloquenza, in cui George Steiner ha messo sul tavolo Una certa idea di Europa. Questa sua idea si distende in cinque parametri, esposti con gusto narrativo e forza metaforica. L’Europa è prima di tutto il luogo dove regna il caffé, «luogo degli appuntamenti e delle cospirazioni, del dibattito intellettuale e del pettegolezzo». È una cartografia “camminata”, dove «il paesaggio è stato modellato e umanizzato da piedi e mani» (e il viandante, si legge tra le righe, di quando in quando si ferma a discutere in un caffé). È un luogo di memoria, dominato dalla sovranità del ricordo: perciò le strade vi sono intitolate a personaggi storici, e anche il restauro dei monumenti dopo una guerra o un terremoto è «la prova di una fortissima volontà di ricordare». Quarto parametro, l’ossessione del passato, «una ragnatela luminosa e insieme soffocante», che ha qualcosa di ambiguo, perché l’Europa è il frutto di una doppia eredità, quella di Atene e quella di Gerusalemme, e deve «negoziare sul piano morale, intellettuale ed esistenziale gli ideali, le pretese, le praxeis contrastanti della città di Socrate e di quella di Isaia». Infine, il quinto parametro: un’acuta consapevolezza della fine, che s’incarna anche nelle ricorrenti rappresentazioni di “rovine anticipate”, «città d’Europa in preda alle fiamme o sommerse dalle inondazioni».
Quest’idea di Europa è fondata sulla sua cultura e sulle sue diversità interne. Da un lato, un’assidua esplorazione creativa (alle tre direzioni indicate da Steiner, musica matematica e filosofia, va aggiunta l’arte), che corrisponde alla «dignità dell’homo sapiens, la realizzazione della conoscenza, la ricerca disinteressata del sapere, la creazione della bellezza». Dall’altro lato, «la mappa frammentata dello spirito europeo e della sua eredità», che ha dimostrato una fertilità inesauribile», anche perché intrisa di «quel senso di tragica vulnerabilità della condizione umana», che la potente metafora delle rovine incarna e rilancia con ritmo incessante.
Da quelle rovine, sempre venne finora una più o meno duratura rinascita. Ne verrà una anche dalle rovine che vanno accumulandosi intorno a noi? Il saggio di Steiner può essere criticato come “eurocentrico“, ma la sua idea di Europa contiene in sé un perfetto antidoto, il dubbio e l’indagine conoscitiva. L’ideale socratico della “vita esaminata” (al fine di intendere da quali motivazioni sia mosso il nostro agire) comporta «quella che Platone chiamava mania, esser posseduti dalla ricerca della verità», e per questa via raggiunge la filosofia del Novecento. È su questa strada che ogni idea d’Europa deve misurarsi con un intenso esercizio di comparazione; e che il ritmo di morti e rinascite, proprio della cultura europea, dev’essere identificato e indagato anche in altre culture. Ed è su questa strada che la memoria culturale dell’Europa deve confrontarsi con altri serbatoi di memoria culturale, elaborando una nuova fraternità fra i ”prigionieri” d’Europa e quelli che vi sono “esuli”, secondo la grande metafora della Peste di Camus: «Essi provavano la sofferenza profonda di tutti i prigionieri e di tutti gli esiliati: quella di vivere con una memoria che non serve a niente». Perché la memoria culturale degli europei, come quella dei migranti, davvero rischia di non servire a niente.
Ma l’Europa di oggi conserva l’impulso a cercare la verità delle cose, una memoria di sé che induca al confronto, l’incessante interrogarsi sul perché delle nostre azioni? C’è ragione di dubitarne. Nulla rappresenta oggi l’Europa quanto le istituzioni dell’Unione Europea. Ma nelle istituzioni europee non regna la cultura, non regna il dubbio, non regna la dignità umana né la giustizia sociale. Regna il mercato e regna la certezza che ad esso solo spetti il potere di regolare la società in tutti i suoi aspetti. Che la “mano invisibile” dei mercati, creando e ridistribuendo la ricchezza, finirà col dare a tutti lavoro, libertà, cultura, giustizia e democrazia. E che chi non si assoggetta a tali leggi irrevocabili dev’essere imbrigliato, punito, ridotto alla ragione, obbligato all’austerità.
Si è esaurito, a quel che sembra, il notevolissimo impulso ideale che fra le rovine della seconda guerra mondiale innescò il processo che avrebbe portato alla nascita dell’Unione Europea. L’Europa a cui primariamente si pensa oggi non è quella della sua storia e della sua cultura, ma quella dei Trattati, dove il ruolo della memoria storica è marginale, come lo è l’equità sociale; è un’Europa prona alla logica globalizzante che implica la metamorfosi del cittadino in consumatore.
Rispetto a questa Europa dei mercati, l’Europa della cultura è (per citare una metafora cara a Benjamin) come il mendicante che bussa alla porta. Avrà con sé un messaggio, o forse addirittura il siero che guarisce la peste? Non lo sapremo mai, se quella porta non verrà mai aperta. Ma perché si apra, dobbiamo bussare più forte, dobbiamo alzare la voce.

Il Sole Domenica 21.5.17

Lettera da Algeri
Nella Casbah dalla storia infinita
La città percorsa da fenici, romani, cartaginesi, arabi, spagnoli, turchi e francesi anticipò la primavera politica cui seguì la guerra civile. Ora servono riforme per uscire dalla crisi
di Ugo Tramballi

«Uncommon Alger», guida forse incompleta ma originale della città, esordisce con una definizione dello scrittore e poeta Kateb Yacine: «Bon Dieu. C’est la peur. C’est la ville. C’est l’^age. Misère. C’est la première fois. Que je suis à Alger. Tant pis. Je reviendrai». Che si venga per la prima volta scoprendo che è come si era immaginata, o la si frequenti con assiduità, alla fine Algeri suscita quel desiderio di cui parlava Yacine: rivederla.
Eppure non è particolarmente dinamica l’atmosfera da paese socialista fuori tempo massimo che Algeri continua a conservare: non solo per un lungomare intitolato a Che Guevara o la settimana di lutto decretata alla morte di Fidel Castro. È quell’aria retrò di un terzomondismo che i Paesi guida del glorioso movimento hanno abbandonato da tempo con tassi di crescita a due cifre, ma che l’Algeria considera marchio di fabbrica.
E c’è l’Islam: sotto traccia ma sempre più che presente e visibile anche nel Paese teoricamente più laico del Medio e Vicino Oriente. Quello che sarà il minareto più alto del mondo della terza moschea più grande del mondo, in costruzione in riva alla baia dalla parte opposta della città, sono una concessione più che visibile al ruolo della fede nella società algerina. Sebbene qualcuno pensi che quel maestoso impianto religioso non sia stato tanto pensato per onorare l’Islam quanto per competere con l’inviso Marocco: superare il minareto da 200 metri della Moschea Hassan II di Casablanca, «fino a che a Dubai non ci metteranno d’accordo costruendone uno ancora più alto dei nostri», dice un funzionario del ministero della Comunicazione.
Il fascino della città continua tuttavia a essere garantito dai suoi due elementi urbanistici fondanti: la Casbah, El-Mahroussa, “la ben custodita”, la cui storia infinita il giornalista e vignettista Chawki Amari sintetizza in poche righe: «La città berbera di 2.500 anni commercializzata dai fenici, riorganizzata dai romani, influenzata dai cartaginesi, rifondata dagli arabi, sorvegliata dagli spagnoli, ridefinita dai turchi e distrutta in parte per essere modernizzata dai francesi». In qualche modo tutti hanno avuto un po’ di successo nel loro intento di modellare la medina e in buona parte tutti hanno fallito, «incapaci di piegarne lo spirito ribelle», spiega l’avvocato Hadi Boussad, grande esperto della Casbah.
L’altro pilastro urbanistico, accanto al Maghreb, all’Andalusia, all’Africa sub sahariana rinchiusi nella Casbah, è la città francese: la Algeri haussmaniana che in realtà fu sin dall’inizio, quando nel 1830 arrivarono i francesi, il luogo dei «conquistatori conquistati», secondo la definizione di Alphonse Daudet. Ancora oggi tra algerini e francesi c’è un rapporto unico e strano di passione e diffidenza, simile a quello fra indiani e inglesi. A partire dalla lingua francese usata di gran lunga più dell’arabo classico e a volte dello stesso dialetto algerino: «è il nostro bottino di guerra», diceva Kateb Yacine che scriveva in francese.
Più di vent’anni prima del resto del mondo arabo, l’Algeria ha sperimentato la primavera politica e la sua orribile mutazione in guerra civile ed estremismo islamico. Nel 1988 il Paese si aprì alla democrazia e nel 1992 sprofondò in uno spaventoso massacro. È per questo che nel 2011 non è accaduto nulla, nonostante il caos libico sia alle frontiere. Ed è per questo che Le Pouvoir – i vertici militari più i loro alleati civili sostenuti dalla burocrazia – pensa che continuerà a non accadere nulla, nonostante la crisi economica sia sempre più pesante. Gli idrocarburi garantiscono i due terzi delle entrate statali e il 95% delle esportazioni. Ma da qualche anno i prezzi di gas e petrolio sono crollati e l’Algeria sta consumando sempre più rapidamente la ricchezza degli anni grassi, quando le riforme sarebbero forse state indolori. Le riserve valutarie erano 193 miliardi di dollari nel 2014 e 136 nel 2016.
Forse il governo non ha torto a contare sulla virtù della memoria degli algerini: il ricordo di dieci anni di guerra civile fino al 2002 ha ricompattato il Paese quanto la guerra di liberazione dalla Francia negli anni 60. Ma è rischioso contare solo su questo e non anche su riforme economiche ormai necessarie. «Continuiamo a dirlo al governo: scegliete i settori strategici che devono restare nelle mani dello Stato. Il resto lasciatelo al mercato», sostiene Slim Othmani, imprenditore e fondatore del Club d’Action et e Réfletion autour de l’Entreprise, Care. «Ma manca la cultura politica necessaria per farlo».
L’unica reazione importante alla crisi è stata la riduzione delle importazioni per stimolare la produzione nazionale. Ma un settore manifatturiero non nasce da un giorno all’altro. Era stata annunciata la presentazione del “Nuovo regime di crescita”, un’affascinante enunciazione vintage, da realismo socialista. «Sono sette mesi che attendiamo di sapere cosa sia», dice ancora Othmani. «Nessuno ha visto un solo documento, probabilmente nemmeno loro». Forse Le Pouvoir è così orgoglioso da pensare che non sia necessario riformare il socialismo – un errore che in Unione Sovietica fu pagato a caro prezzo – o forse lo capiscono ma non è facile ammetterlo. Tra l’altro, le volte in cui l’Algeria sembrava aprirsi al mercato quello che accadeva nel mondo giustificava il suo istinto alla chiusura: prima la crisi finanziaria globale e ora il “patriottismo economico” di Donald Trump.
Il simbolo della riluttanza algerina alla trasparenza è il caso di Abdelaziz Bouteflika, il presidente colpito da un ictus: in carica da 16 anni ma da molto tempo assente dalla scena. «È una questione di rispetto per il leader, parte della cultura araba», spiega Hamid Grine, ministro piuttosto ortodosso della Comunicazione ma brillante scrittore (Camus nel narghilé, Edizioni e/o). «È lui il capo è lui che decide».
Mourad Slimani, capo della redazione di Al Watan, il principale quotidiano d’opposizione, spiega che «in Algeria esiste la libertà di stampa ma con importanti eccezioni. Il limite che non dobbiamo superare è mobile, dipende dalla situazione politica: la salute del presidente è invece un limite permanente». Quale sia il suo stato di salute, Bouteflika ha comunque 80 anni: ignorarne la successione ed evitare le riforme non è l’antidoto migliore per restare lontani dal caos mediorientale.


Il Sole Domenica 21.5.17

psicologia
Una sintassi delle emozioni
Un tempo si pensava che fossero generate da dei e semidei. Ora si può individuare e studiare la struttura profonda comune
di Paolo Legrenzi

Centodieci anni fa, il professore Stout, filosofo della mente a Oxford, pubblica l’edizione definitiva del suo fortunato Manuale di Psicologia. Dieci capitoli in tutto: solo quello sulle emozioni anticipa l’impianto teorico evoluzionista. Stout si rifà a L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali, saggio del 1872 di Charles Darwin. Sei anni dopo, il titolo della traduzione di Giovanni Canestrini, professore di zoologia dell’Università di Padova, parlerà di sentimenti e non di emozioni. È il retaggio di un modo di concepire le emozioni esclusivamente come stati mentali «interni» e non come segnali. Darwin, alla fine del saggio, dichiara invece che è importante: «… imparare a conoscere l’origine delle diverse espressioni che a ogni momento è dato osservare sulla faccia degli uomini (per non parlare degli animali domestici)». Stout riprende la prospettiva darwiniana: « … ecco la manifestazione della sopravvivenza dei modi di esprimere le emozioni dei nostri antenati … per esempio, scopriamo i denti quando siamo arrabbiati perché un tempo mostravamo i canini in fase d’attacco».
Oggi gli psicologi evoluzionisti estendono questa prospettiva a tutti i processi mentali. Per esempio, gli errori sistematici del pensiero e dell’intelligenza emotiva avvengono perché nell’architettura del cervello è incorporato un adattamento funzionale a mondi “antichi” e diversi. Capita così che le emozioni ci portino fuori strada. Gli ambienti di vita sono diventati così complessi, incerti e imprevedibili che emozioni come la paura non sempre ci allontanano dai rischi, come avveniva un tempo. I timori diventano irrazionali quando si crede - o ci fanno credere - che siano pericolose circostanze che in realtà non sono oggettivamente rischiose (e viceversa).
Un tempo s’immaginava che le emozioni fossero generate da dei e semidei “specializzati”. Donatella Puliga, studiosa del mondo classico, mostra, in un saggio che sta per uscire, come gli antichi romani pensassero che le depressioni, allora chiamate malinconie, fossero governate dalla Dea Murcia che aveva il potere di infiacchire e prostrare gli animi. Nell’Ottocento Sir Edmund Burnett Tyler, primo antropologo a Oxford, coniò il termine “animismo” per indicare la tendenza delle culture primitive a vedere il mondo come animato da divinità. La contrapposizione con le culture primitive può diventare un paraocchi per chi, mosso da un presunto atteggiamento scientista, crede che solo gli esseri viventi – uomini, animali e piante – possano esibire emozioni.
Nel 1944 Fritz Heider e la sua assistente Marianne Simmel mostrarono che le cose non stanno così. Presentarono un filmetto in bianco e nero di poco più di un minuto. Si vedevano triangoli e rettangoli in movimento: s’inseguivano, scappavano, o cercavano di toccarsi. Gli osservatori descrivevano la sequenza come se le figure geometriche fossero aggressive o timorose, persino innamorate l’una dell’altra, cioè dotate di emozioni e intenzioni. Se googlate «Heider e Simmel», potete ripetere la prova originale e ottenere gli stessi risultati. Questi non sono dovuti all’aver assorbito una cultura in cui sono onnipresenti film “animistici” per bambini o cartoni animati: anche i neonati vedono oggetti sconosciuti come dotati d’intenzioni. Di questi tempi i pubblicitari cercano di presentare tutto il mondo come «emozionante», sviluppando l’intuizione pionieristica di Ernst Dichter. Dichter, un viennese esule in America come Heider, inventò la psicologia «motivazionale» dei consumi e, in particolare, l’enfasi pubblicitaria sulle emozioni, oggi più che stucchevole. Gli artefatti – cibi, bevande, vestiti, scarpe, e così via - diventano strumenti per soddisfare costellazioni di desideri, spesso larvatamente sessuali.
Entità visive astratte che, a differenza del filmetto di Heider, neppure si muovono, possono comunque esprimere emozioni? Questa fu la sfida del movimento artistico che, appunto, si chiamò espressionismo astratto e di cui Jackson Pollock fu il più grande esponente. A Venezia, in una sala del museo Guggenheim, è possibile fare un esperimento quando i bambini sono accompagnati in visita. Ci sono due quadri di Pollock del 1946 che hanno la fortuna di essere appesi vicini, di fronte a un comodo divano bianco, sosta previlegiata. Uno è Croaking movement, movimento gracidante: allude al gracidio delle rane dello stagno dietro lo studio di campagna di Pollock. L’altro è Eyes in the heat, occhi che si intravedono a fatica in un arabesco di linee e colori “caldi”. Provate a domandare a un bambino che non ha visto le etichette (piccole), quale quadro si chiama con uno dei due nomi (magari spiegando che cosa vuol dire «gracidante»). La grande maggioranza risponde senza esitare con l’attribuzione esatta. I grandi, invece, possono essere più recalcitranti o scettici: sono quadri astratti, dove non si rappresenta nulla, dove non c’è un senso! Neppure un’emozione? No, neppure un’emozione! Per molti adulti le figure astratte non possono, per definizione, avere e trasmettere emozioni.
L’uomo moderno, “razionale”, crede di non aver bisogno di emozioni che contaminerebbero la sua mente fredda, pura. Quasi fosse Il cavaliere inesistente che, nel racconto di Italo Calvino, agisce in modi anaffettivi, perfetti, perché è senza corpo. L’Uomo Moderno raramente riguadagna gli occhi del bambino, l’ingenuità perduta che così bene illustra Guido Scarabottolo riprendendo le parole di Picasso (sulla Domenica del 7 maggio).
Le emozioni sono onnipresenti in tutte le culture. Si presentano nei modi più diversi ma, dietro le apparenze è possibile isolare una sintassi comune. Proprio come ha fatto Noam Chomsky con il linguaggio dove abbiamo una grammatica universale e i linguaggi naturali più diversi. Nel caso delle emozioni, questa struttura profonda comune è stata controllata analizzando sia i comportamenti visibili sia i meccanismi neurali localizzati nel cervello. Su questo sfondo oggi è possibile isolare le variazioni superficiali presenti in culture lontane nello spazio, come quelle ancora primitive, o nel tempo, come quelle del passato.
L’Atlante delle emozioni di Tiffany Watt Smith, tradotto per i tipi di UTET (com’era già successo per il saggio di Darwin sulle emozioni), ci guida attraverso queste variazioni superficiali spesso sconosciute. L’incertezza, per esempio, è oggi considerata uno stato d’animo non gradito né in noi né negli altri. Questo dipende forse dal fatto che dobbiamo subirne molta, troppa, da quando l’Uomo, domata quella presente in Natura, si è messo a produrne per conto proprio e a immetterla nella società. All’inizio dell’Ottocento il mondo era tranquillizzante, forse noioso per le classi previlegiate. Watt Smith racconta come il poeta John Keats celebrasse la libertà intesa come «essere nell’incertezza, nel mistero, nel dubbio senza l’impazienza di correre dietro ai fatti e alla ragione». Watt Smith, spaziando con il suo Atlante nel territorio variegato delle culture, stupisce, diverte e fa ammirare l’originalità delle forme che possono prendere le emozioni.
Donatella Puliga, La depressione è una dea , il Mulino, Bologna, pagg. 160, € 14
Tiffany Watts Smith, Atlante delle emozioni umane , Utet, Milano,
pagg. 373, € 22

Il Sole Domenica 21.5.17

Insegnare a insegnare / 1
Viva il maestro neoplatonico
Mentre la scienza della formazione aumenta i suoi adepti (con risultati dubbi) proviamo a riscoprire la «paideia» tardo antica
di Alessandro Pagnini

Se ne sente dire tante: che la società liquida ha sciolto anche l’educazione; che le tradizionali agenzie educative (scuola, famiglia, chiesa, partito) hanno perduto autorità e, peggio, degnità di fiducia; che i ragazzi oggi sono «maleducati»; perché la loro vita è altrove invece che a scuola (o a casa) e perché quell’altrove ne fa una generazione nichilista di ignoranti e addirittura di «analfabeti emotivi». Si sente anche dire che gli insegnanti (oltre ai genitori) non hanno più un orientamento sicuro nel loro lavoro, nonostante passino gran parte del tempo a svolgere «incombenze burocratico- amministrative», registrazioni e computazioni, valutazioni e autovalutazioni, come in un’agenzia di rating, impegnandosi con numeri e quozienti che dovrebbero essere segno di condivisione e addirittura di computabilità delle acquisizioni formative. E invece no.
Soprattutto in Italia, quando si parla di educazione e di cultura (perché poi, in fondo, l’educazione ha anche a che fare con l’acculturazione) si deve imparare a far uso di logiche fuzzy, di concetti che sembra democraticamente auspicabile tenere «aperti», nel segno di un pluralismo virtuoso che rispetta l’«autonomia» dell’insegnante e dell’educando (un giorno qualcuno mi dovrà spiegare, anche per l’università, che cosa voglia dire «autonomia» e che differenza ci corra tra l’essere autonomi e l’essere abbandonati!).
Eppure ci dovrebbero essere gli scienziati dell’educazione a vigilare e soprattutto a coadiuvare i legislatori in materia. Ma questi, più che scienziati, sembrano alchimisti che lambiccano incerti in un qualitativo refrattario all’esattezza, tra istanze di solidarietà o di merito, di autorità o di permissività, di specialismi o di enciclopedismi, apparentemente preoccupati (speriamo non sia vero) non tanto di trovare delle soluzioni quanto di perpetuare il lavoro dei solutori.
Già, la «scienza» dell’educazione e della formazione! Quella che in Italia sta aumentando i suoi adepti e sta acquisendo un credito imparagonabilmente superiore rispetto a quello di altri paesi, convogliando finanziamenti e incentivi vari, ma che, a fronte del dispiego di tanti mezzi e intelligenze, non si sa cosa abbia elaborato di teoricamente rilevante dagli anni sessanta a oggi se non ciò che ha portato al «mero smantellamento della scuola come istituzione nazionale» (lo scrive lo storico della pedagogia Scotto di Luzio ne La scuola che vorrei, Bruno Mondadori) e il sistema educativo italiano nel suo complesso agli ultimi posti tra i 33 pesi considerati nei rilievi dell’Ocse. Forse anche il sociologo Franco Garelli la pensa così, perché in questo suo libello, stimolante e informato sui fatti, non si trova un rimando bibliografico a un’opera o a una ricerca di uno «scienziato» di quel settore che sia almeno degna di essere discussa, né si trova una definizione di educazione che sia aggiornata a quanto ci dicono oggi la psicologia sociale ed evoluzionistica, l’ecologia, la psicologia morale, l’estetica, la filosofia del linguaggio, l’antropologia, le neuroscienze, le scienze cognitive (e post-cognitive), la storia e la filosofia della scienza; e cioè tutto quello che merita di dirsi «scientifico», o che almeno tiene conto delle acquisizioni della scienza, nella ricerca rilevante in materia di cognizione e di comunicazione che dovrebbe andare a informare la relativa ricerca pedagogica e sociologica.
Io confesso che gli ultimi libri interessanti e ancora attualissimi che ho letto sulla scuola e l’educazione sono Scuola sotto inchiesta di Guido Calogero e La cultura e la scuola nella società italiana di Eugenio Garin (oltre ai commenti critici su quest’ultimo che il «chierico traditore» Giulio Preti annotava in un suo quaderno, ora pubblicati in F. Minazzi, L’onesto mestiere del filosofare, Franco Angeli); libri di filosofi, dove si trova poca scienza, se non quella di cui si poteva disporre alla fine degli anni cinquanta, ma tanta profonda riflessione almeno su come dirimere concettualmente le questioni salienti e su come essere responsabili nei confronti della nostra storia e della nostra tradizione.
Quello stesso interesse lo trovo oggi in un saggio di Philippe Hoffmann, allievo dello storico della filosofia antica Pierre Hadot, sulle radici neoplatoniche dell’educazione. La paideia antica (come la tardoantica, tra IV e VI secolo d.C., di cui parla Hoffmann), aveva la formazione del cittadino e dell’uomo politico come suo fine. Tutti, sofisti, oratori, filosofi, si interrogano su come insegnare la «virtù politica» che plasmerà il cittadino. E la scholè (il latino otium) prepara alla «scelta fondamentale «di uno stile di vita, sostenuta dall’imitazione e dalla memoria, ma autonoma perché commisurata al sentire e al vivere dell’allievo. E quell’insegnamento comporta una «psicagogia» basata sulla regola d’oro di «non dire che ciò che è strettamente adatto all’anima del destinatario», e interpreta le strutture d’autorità tra maestro e discente come un «essere-con» (quasi un concetto heideggeriano) che ha l’amore e l’amicizia come correlato affettivo.
Al centro della pratica educativa c’è sempre il «testo»; che, qualsivoglia genere filosofico si intenda adottare per commentarlo, è garanzia di oggettività. Ma quella formazione progressiva, che da una cultura generale pre-filosofica porterà a un’approssimazione al sapere divino, tutt’uno di potenze cognitive e di potenze pratiche e provvidenziali, non sarà mai distante dalla vita activa e da quella persuasione che rende vitale il sapere.
E, a proposito di persuasione, la forma di educazione di cui scrive Hoffmann risolve anche un’antica antinomia su come concepire i rapporti tra retorica e filosofia: contro Platone e la sua idea che soltanto la dialettica permetta di attingere alle Forme e ai Valori, prevale la visione di Isocrate, ostile alle speculazioni astratte e convinto su basi «antropologiche» del valore etico della persuasione, preoccupato di basare sui testi e sull’eloquenza un programma educativo che miri a formare l’uomo che delibera nella polis, «nell’universo della contingenza», attraverso l’osservazione e l’esperienza delle cose umane, ma anche attraverso la familiarità con i grandi autori, i logoi. La retorica era una delle arti del trivio, su cui in Occidente si sono formate generazioni per quasi duemilacinquecento anni prima di sparire dai curricula scolastici.
Mi piace che Juan Carlos De Martin, in un recente libro, ne veda con favore una rinascita insieme alle arti liberali nel sistema educativo che informerà l’«università futura» (si veda la Domenica del 9 aprile scorso). Sarà un modo per tornare a privilegiare l’educazione di una persona e di un cittadino, di un «uomo colto» più che di un lavoratore; prima che il mercato e la demagogia ci facciano dimenticare che siamo responsabili anche della nostra civiltà.
Franco Garelli, Educazione , il Mulino, Bologna, pagg. 158, € 12
Philippe Hoffmann, Vita quotidiana di un maestro neoplatonico. Le radici tardoantiche dell’educazione , con introduzione di Carlo Altini, Bologna, EDB, pagg. 80, € 8,08

Il Sole Domenica 21.5.17
Senza parole
La cultura del silenzio
Dall’India all’Occidente si diffonde l’idea di un modello di vita improntato al distacco dalla società del suono per cercare l’Assoluto
di Giuliano Boccali

«E sono il silenzio delle segrete cose»: è il Dio supremo, nella forma di Krishna, a dichiararlo in una strofe famosa della Bhagavadgita (X, 38 c), il testo sacro che milioni di hindu considerano e conoscono come il loro Vangelo. Nel passo Egli ha affermato di essere l’essenza e il fine di ogni aspetto della manifestazione: «il gioco dei giocatori io sono, / io lo splendore degli splendidi… io sono il potere dei potenti… io sono il sapere dei sapienti» (X, 36 e 38). Ma la dichiarazione riguardo alle «segrete cose» ha un’altra levatura: Dio è l’essenza del mistero, cioè il silenzio dell’ineffabile.
Per la religiosità hindu, infatti, il silenzio è la dimensione dell’Assoluto, inconcepibile e immanifesto. C’è dunque un’intima, indissolubile relazione fra silenzio ed «Essere», unitario, immobile. Così, con perfetta corrispondenza, la dinamica che muove dal silenzio, passa attraverso i suoni “udibili” solo interiormente, poi i suoni concreti e approda alle parole articolate è esattamente parallela al dispiegamento metafisico dell’universo dall’unico alla molteplicità e, per certi aspetti, lo prefigura e lo determina. Ne deriva che, per rientrare nell’unità divina si deve compiere a ritroso il cammino dalle parole, e perciò dal pensiero, ai suoni trascendenti e infine al silenzio, cioè all’Assoluto unitario.
Come mostra chi scrive in Il silenzio in India. Un’antologia, volumetto da poco apparso per Mimesis / Accademia del silenzio, in India questa scelta può essere (ancora oggi) radicale: è la scelta del distacco dalla società, dal mondo con le sue norme e i suoi doveri, ma anche del distacco dai diritti. La foresta, che certo non è il «deserto» di cui ci dice Enzo Bianchi nell’articolo che pubblichiamo in questo numero della Domenica nella pagina di Religione, è però lo spazio elettivo dove svolgere quest’ordine di vita, ma nei testi indiani spesso è definita un deserto ; e la vita che vi si svolge prende nell’insieme il nome di «rinuncia», di «rinuncianti» coloro che la scelgono. Se è vissuta collettivamente, l’ambiente, sempre nella foresta, è l’eremitaggio, che ritaglia nell’intrico alieno e ostile della selva un’area umanizzata della massima intensità spirituale.
Fra i molti voti di varia natura che i rinuncianti possono proferire, vi èquello del «silenzio»: chi lo prende è chiamato muni, «asceta silenzioso». E il voto non consiste solo nel non parlare fisicamente, ma anche nel ridurre gli stimoli delle percezioni e soprattutto nel non pensare.
Meno radicale della «rinuncia», ma orientato nell’identico senso, è il ritiro nella foresta assegnato alla vecchiaia dalla dottrina brahmanica ortodossa dei tre fini dell’esistenza. Questo modello di vita prevede, dopo due lunghe fasi dedicate alla vita sensuale e alla vita attiva, quando sgambetta per casa il primo nipote maschio, che il capofamiglia seguito dalla moglie (se lo desidera) lasci l’attività consegnandola al figlio maggiore, lasci la casa avita e si ritiri nella foresta, o comunque ai margini dell’abitato, in una modesta capanna.
Qui si trascorre una vita semplice, parca nei cibi, dedicata alla lettura di testi sacri, alla preghiera, al silenzio, alla meditazione. In altre parole, l’induismo tradizionale prevede che, dopo la vita nel mondo con i suoi piaceri, le responsabilità e i compiti, il periodo finale dell’esistenza sia dedicato esclusivamente alla cura dello spirito. Un modello certo non proponibile in Occidente oggi, ma ricco di suggestione soprattutto per il rilievo assegnato al «silenzio», condizione (quasi) inderogabile dell’incontro con se stessi di cui sempre più si avverte l’acuta nostalgia.
Testimone di questa esigenza si fa da anni nel nostro Paese l’Accademia del Silenzio, nata da un’idea di Duccio Demetrio e Nicoletta Polla-Mattiot e sostenuta da altri voci autorevoli. Il fine – attingo al documento originale che lo propone - «è diffondere la cultura del silenzio, del rispetto dei luoghi, della ricerca e della meditazione interiore, del piacere di re-imparare a riascoltare: suoni, voci, natura… Per promuovere una «nuova militanza» del silenzio nei consueti luoghi di vita e di soggiorno, contro l’inutile rumore. Per favorire un approfondimento delle occasioni e delle risorse intellettuali che hanno la necessità del silenzio, per creare, comporre, scrivere, camminare, leggere, pensare, dipingere, fare giardinaggio…» L’idea e l’esperienza così annunciate trovano il supporto in una collana di Taccuini del silenzio giunta al n. 29 con il volumetto da cui abbiamo preso le mosse, che sviluppa il tema del silenzio nell’India tradizionale attraverso un’antologia di passi originali dal VII secolo a.C. al XII d.C. quasi tutti poetici e inediti in italiano.
I contributi sono di autori diversi, naturalmente, e diversamente orientati; si annoverano fra loro, oltre agli ideatori e promotori dell’Accademia, Carlo Sini, Franco Loi, Stefano Raimondi, Giampiero Comolli, David Le Breton, Francesca Rigotti, Marco Ermentini, da ultimo David Le Breton e l’elenco fatalmente breve lascia il rammarico di non poterli nominare tutti. La collana è caratterizzata, oltre che dal soggetto, dal formato e dalle dimensioni dei testi libriccini deliziosi, dalla grafica molto ben curata, tutti intorno alle 60/70 pagine e a un prezzo davvero invitante. Del resto, come si potrebbe diffondere la cultura del silenzio con colori sgargianti, dimensioni imponenti e prezzi clamorosi?
L’autore di quest’articolo è il curatoredel volume Il silenzio in India. Un’antologia , Mimesis / Accademia del Silenzio, Taccuino n. 29, Milano-Udine,
pagg. 68, € 7,00