mercoledì 24 maggio 2017

Pagina 99 19.5.17
piccoli Trump crescono
in America Latina
Nuovi leader | In molti dei diciotto Paesi del continente si andrà al voto per
eleggere un nuovo presidente fra il 2017 e il 2018. C’è voglia di cambiamento,
e non per forza a destra. Come è già accaduto in Europa e negli Stati Uniti,
si fanno largo candidati anti-establishment. Sei storie da seguire con attenzione


di VALERIA FRASCHETTI

«Sono momenti difficili», aveva ammesso a dicembre il presidente dell’Ecuador Rafael Correa parlando dello stato di salute delle sinistre inAmerica Latina. Ad aprile anche i suoi cittadini gli hanno dato ragione assegnando sì la vittoria presidenziale al suo erede politico, Lenin Moreno, ma una vittoria magra, ottenuta solo al ballottaggio, con uno scarto del 2,3 per cento, 229 mila voti. Il declino delle forze di sinistra latinoamericane, insomma, avanza, ma non è chiaro chi favorirà. Quasi la metà dei diciotto Paesi del Centro e Sud America dovrà eleggere un nuovo presidente fra il 2017 e il 2018, altri ancora ospiteranno elezioni legislative. Questa concentrazione di appuntamenti elettorali ha un grande comune denominatore: l’incertezza. Vero è che negli ultimi due anni nella regione le forze conservatrici sono andate avanti. Non solo con l’elezione di Mauricio Macri alla presidenza argentina, con quella di Pedro Pablo Kuczynsky in Perù, di Jimmy Morales in Guatemala, con la destituzione di Dilma Rousseff e la nomina di Michel Temer in Brasile. Ma anche con la vittoria dell’opposizione alle legislative nel Venezuela chavista e con la sconfitta di Evo Morales nel referendum costituzionale in Bolivia. Tanto che diversi osservatori parlano di un «giro a la derecha», ovvero di un fisiologico cambio di ciclo politico dopo oltre un decennio di dominio di governi di sinistra e centro-sinistra, sciupati dai tanti anni al potere, logorati da crescenti scandali di corruzione, danneggiati da una crisi economica che ha fatto crollare i prezzi delle materie prime e, quindi, gli introiti necessari per continuare ad elargire i sussidi ai ceti bassi. Eppure, anche se il riflusso della cosiddetta «onda rosa» delle sinistre latine è sotto i nostri occhi da tempo, sarebbe azzardato dire che l’imminente maratona elettorale della regione suggellerà il trionfo dei partiti conservatori. «Potrebbe esserci una virata a destra ma il panorama è molto incerto», ci dice Matthew Taylor, del Council on Foreign Relations. «In alcuni paesi, come il Brasile, non si sa nemmeno chi si candiderà, in altri, come il Venezuela non è chiaro se si andrà a elezioni». Più in generale, «da Paese a Paese c’è differenza su cosa s’intenda per centro-destra». «Di certo assisteremo a un processo di cambiamento politico segnato da due fattori: la situazione economico-finanziaria e la crescita della corruzione », sostiene Andrés Molano, che a Bogotà dirige l’Istituto di Scienze Politiche Hernán Echavarría Olózaga. In altre parole: i latinos andranno al voto con una buona dose di frustrazione. In un rapporto del think-tank Desarollando Ideas, della società di consulenza iberica Llorente y Cuenca, si legge: «I sistemi politici latini stanno vivendo le tensioni causate da questo minore crescita economica, dall’aumento della disaffezione cittadina per i partiti, l’incremento della pressione fiscale e il deterioramento dei servizi pubblici». Per Riordan Roett, direttore del Latin American Studies ProgramdellaJohns Hopkins University, tutto ciò implica che la regione è attraversata da un crescente desiderio per volti nuovi, alfieri dell’anti-corruzione. C’è voglia di cambio ma non per forza a destra. È l’ora degli outsider, dei candidati anti-establishment. Ecco che cosa sta accadendo nei principali Paesi dell’area.

Nell’Argentina di Macri più povertà e inflazione
Delle sette economie più grandi dell’America Latina solo il Perù non andrà alle urne entro la fine del 2018. In Argentina il voto per rinnovare il Parlamento, previsto per ottobre, sarà un test cruciale per il presidente Mauricio Macri, che in parlamento oggi non ha maggioranza. «Il risultato sarà una spia della traiettoria di lungo termine del Paese», osservano al Council on Foreign Relations. La vittoria del 2015 dell’ex imprenditore neoliberista, che ha fatto sloggiare dalla Casa Rosada il kirchenismo dopo 12 anni, è percepita come «uno spartiacque dei trend politici regionali », scrive la rivista Desarrollando Ideas. Macri però già in campagna elettorale rifiutava le etichette ideologiche: «La nostra ideologia è fare». E in un anno e mezzo di cose ne ha fatte, a suon di decreti. Dal reinserimento del Paese nel circuito finanziario internazionale alla svalutazione del 30 per cento del peso sul dollaro, che ha favorito l’agro-industria. Ma le promesse elettorali di lotta alla corruzione e «povertà zero» sembrano dimenticate. Gisela Brito del Centro Estratégico Latinoamericano de Geopolitica evidenzia che «secondo tutte le indagini dall’arrivo al potere di Macri la povertà non è scesa, anzi è aumentata nettamente». Un’inchiesta di marzo dell’Universidad Católica Argentina conferma: la povertà è passata dal 29% di fine 2015 al 33% nel terzo trimestre del 2016. Intanto il potere d’acquisto continua a essere ridotto dall’aumento dell’inflazione e delle tariffe pubbliche. Il livello di conflittualità nel Paese cresce, il gradimento di Macri cala. «Il governo continua ad avere un consistente appoggio nei ceti medio-alti e negli over 55, ma non basterà per un buon esito elettorale», prevede Brito.

Cile, dopo Bachelet si torna al passato?
A novembre sarà il primo dei grandi Paesi latini ad andare alle presidenziali per scegliere il successore di Michelle Bachelet. «Il suo secondo mandato? Una terribile delusione. Il presidente non ha soddisfatto la sinistra e ha perso il sostegno della destra», chiosa secco Riordan Roett, esperto di America Latina alla Johns Hopkins University. Danneggiata da casi di corruzione, la sua coalizione Nueva Mayoria è indebolita, e così il suo slancio riformistico. Il progetto di modifica della Costituzione per superare l’impianto neoliberista di Pinochet è fermo e persiste il malcontento sulla riforma dell’istruzione, che pure avrebbe il fine nobile di rendere il sistema educativo più equo. Tutto ciò apre la strada a un possibile ritorno di Sebastian Piñera, ex presidente conservatore: in testa (ma non troppo) nei sondaggi, Piñera sfrutta il rallentamento dell’economia con una retorica che è una rivisitazione cilena del messaggio Make America Great Again, ma centrata sull’efficienza, non sul nazionalismo. A tallonare Piñera nei sondaggi c’è Alejandro Guillier: 64 anni, un passato da anchorman tv che lo aiuta a presentarsi come outsider, anche se è senatore del partito Radicale Socialdemocratico (che fa parte di Nueva Mayoria). In un Cile in cui cresce il sentimento anti-establishment, «Guillier potrebbe sorprenderci», avverte Roett.

Brasile, l’ora di Doria l’uomo anti-migranti.
Se c’è un Paese dove il sentimento anti-establishment rischia di dominare il voto, quello è il Brasile. Dove la magnitudo dello scandalo di corruzione Lava Jat e la peggiore recessione economica che il Paese ricordi creano terreno fertile per l’avanzata di figure come Jair Bolsonaro o João Doria. Il primo, ex paracadutista militare, deputato dagli anni ‘90 benché si presenti come un outsider, si dice a favore della tortura, di un alleggerimento delle norme sul porto d’armi e di una stretta sull’ingresso degli «sporchi migranti». Trump, versione latina. Doria, ex imprenditore, autore di tascabili su come diventare ricchi, oggi sindaco di San Paolo, si presenta anche lui come anti-sistema ma con una retorica più classica: votatemi perché non sono un politico ma un bravo manager. La loro popolarità è in crescita, ma per ora non tanto da preoccupare l’ecologista Marina Silva, ex candidata presidenziale nel 2010 e 2014, che a ottobre 2018 potrebbe avere più fortuna perché vista come un politico esperto ma non dell’establishment. «I protagonisti tradizionali sono stati spazzati via (da inchieste giudiziarie, ndr), l’elezione è completamente aperta», nota Matthew Taylor. «Le elezioni municipali sono solitamente un buon indicatore di quelle nazionali: a ottobre il Pt, il Partito dei Lavoratori di Roussef, ha perso il 60 per cento dei Comuni che amministrava », dice Cláudio Couto, analista politico della Fundaçao Getulio Vargas. «Ma in questo momento la politica brasiliana è davvero instabile». Di probabile c’è che i brasiliani non premieranno il partito di destra Psbd del presidente Temer. «Il suo governo è coinvolto in scandali di corruzione forse peggiori del Pt», spiega Couto. «E per raddrizzare l’economia sta approvando riforme dolorose: allungamento dell’età pensionabile, aumento della flessibilità lavorativa. E le riforme sono la zavorra di un politico». Non a caso il gradimento di Temer è a un misero 20 per cento.

In Messico sinistra in controtendenza
La culla del socialismo del XXI secolo appare sull’orlo del tracollo. Da quando il prezzo del greggio ha iniziato ad andare a picco da giugno 2014, arrivando a dimezzarsi, il Venezuela ha iniziato ad avvitarsi. Economicamente: con l’erosione dei sussidi, la scarsità di beni primari, l’inflazione astronomica (stimata al 700%). E politicamente: con il trionfo degli anti-chavisti alle legislative del 2015 e la violenta repressione delle manifestazioni di questi giorni, che confermano la crescente fragilità di Nicolas Maduro. «Il chavismo è oggi isolato internazionalmente, fratturato all’interno, ma più volte ha mostrato di essere incredibilmente resiliente», nota l’analista colombiano Molano. Infatti Maduro prende tempo: propone la creazione di una costituente, che aiuterebbe forse a posticipare le elezioni regionali di quest’anno e le presidenziali di dicembre 2018. «In ogni caso - aggiunge Molano - le elezioni non rappresenteranno l’uscita dalla crisi: solo la porta». E una porta può condurre anche verso un’uscita insperata.

in Messico sinistra in controtendenza
La seconda economia latinoamericana potrebbe andare in controtendenza, eleggendo a luglio 2018 un presidente di sinistra.
«I partiti tradizionali sono visti come inefficaci, incapaci di far fronte all’insicurezza e di implementare le riforme promesse da Peña Nieto», spiega il professor Roett. «Potrebbe quindi vincere il populismo, cioè Amlo», un politico noto con il suo acronimo, Andrés Manuel Lopez Obrador, che come Silva in Brasile, è già stato candidato presidenziale due volte.
Con la differenza che oggi il contesto gli è più favorevole. La sua vittoria, scrive l’Economist, «è una prospettiva che eccita alcuni messicani e terrorizza altri».
Ex sindaco di Città del Messico, Amlo spara a zero contro i privilegi, usa toni nazionalistici contro la propaganda anti-messicana di Trump, promette ai poveri che non saranno più poveri e avverte le élite che «privatizzare è sinonimo di rubare», come scrive in un libro.

In Colombia le Farc spostano gli elettori
Economia, corruzione, ma anche pace. Il crollo del prezzo delle commodities e lo scandalo regionale sulle tangenti di Odebrecht non hanno risparmiato la Colombia. Ma a influenzare il voto, in un Paese polarizzato dal negoziato fra il governo di Juan Manuel Santos e la guerriglia delle Farc per porre fine a 52 anni di guerra, sarà anche il tema dell’implementazione degli accordi di pace. Più questa subirà ritardi, più i suoi detrattori, come il Centro Democratico (che a dispetto del nome è di destra), accumuleranno un vantaggio nelle legislative di marzo 2018 e nelle presidenziali di due mesi dopo. Inoltre, dice Andrés Molano, docente all’Università delle Ande, «i cittadini vorranno vedere se la pace starà davvero portando loro i benefici promessi». Più crescita, sicurezza e investimenti.