lunedì 29 maggio 2017

il manifesto 28.5.17
Aristotelismo dai bolognesi a Dante
Filosofia medievale. Una ricca silloge del Mulino a cura di Carla Casagrande e Gianfranco Fioravanti («La filosofia in Italia al tempo di Dante») ricostruisce l’epoca delle «disputazioni» universitarie
di Mario Mancini

In un famoso passo del Convivio (II, 12, 6-7) Dante ricorda il suo incontro con la filosofia, attraverso la lettura del De consolatione di Boezio e del De amicitia di Cicerone. La scopre, con emozione, come «somma cosa» e comincia così «ad andare là dov’ella si dimostrava veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli filosofanti». Le parole di Dante sono di una meravigliosa precisione. Le «scuole delli religiosi» sono, a Firenze, gli «studia» degli ordini mendicanti — dei Domenicani, a Santa Maria Novella, e dei Francescani, a Santa Croce — «studia» che sono aperti, in parte, anche ai laici. «Filosofanti» individua un gruppo di intellettuali nettamente distinto dai «religiosi»: è il nome con cui si indicano, a Parigi, i professori della Facoltà delle Arti. E «disputazioni» è il termine tecnico che indica le discussioni di problemi, teologici e filosofici, in ambito universitario. Firenze, dunque, ma ancora di più Bologna. Perché qui, verso la fine del Duecento, la filosofia, in stretto rapporto con i maestri della Facoltà delle Arti di Parigi, riceve uno straordinario impulso e le «disputazioni» qui dibattute vengono riprese, appassionatamente, in tutte le principali città italiane. Un caso rilevante è la Questio de felicitate che un non meglio conosciuto Giacomo da Pistoia dedica a Guido Cavalcanti, il che ci dà piena misura di come temi filosofici fondamentali fossero giunti in un ambiente cui Dante, e non solo il suo «primo amico», poteva avere ampio accesso.
Un reduce da Parigi
Alla ricostruzione di questa vicenda culturale, che è una vera svolta, è dedicata la ricca silloge La filosofia in Italia al tempo di Dante, a cura di Carla Casagrande e Gianfranco Fioravanti (Il Mulino, pp. 292, € 23,00). La Parte prima ha come titolo «Il ritorno dei filosofi in Italia: Bologna 1295». Perché questa data? Perché è fortemente emblematica: individua il ritorno a Bologna di Gentile da Cingoli, uno studioso che si è perfezionato a Parigi, nella Facoltà delle Arti, seguendo in particolare corsi sul De generatione animalium di Aristotele, e che il 21 marzo 1295 stipula un contratto con un professore di logica dello studio bolognese per impartire lezioni di filosofia. Si tratta della prima testimonianza dell’esistenza a Bologna e in Italia di un insegnamento di filosofia in senso stretto, e sicuramente non è un caso che a impartirlo sia un reduce da Parigi. La situazione istituzionale dell’Università di Bologna – analizzata con mano sicura, oltre che da Fioravanti, da Andrea Tabarroni e da Chiara Crisciani – è molto particolare e molto complessa. I docenti di medicina sono attratti dalla dottrina di Aristotele, rilevantissimo è il ruolo di un maestro come Taddeo Alderotti, che insegna nella Scuola di medicina fin dal 1268 e che ha forti interessi filosofici: commenta Galeno e Avicenna, volgarizza, in un compendio, l’Etica Nicomachea di Aristotele. Il legame tra medici e filosofi, con maestri come Gentile da Cingoli, come Taddeo Alderotti e i suoi allievi, porta anche, nel 1316, alla costituzione, accanto al più antico e glorioso Studio giuridico, di uno Studio di Medicina e Arti, e sarà veramente un tratto originale e distintivo della filosofia che si insegna a Bologna e in Italia. Parallelo, ma autonomo, è il discorso che farà Pietro d’Abano, che insegna medicina, filosofia e astrologia a Padova.
I «modi di filosofare» di questi maestri sono ricostruiti, in modo eccellente, in un capitolo di Fioravanti, che è uno dei maggiori studiosi europei di filosofia medievale: basti ricordare il prezioso commento al Convivio da lui curato, nel 2014, per «I meridiani». In primo piano sono i testi che questi filosofi hanno lasciato – come i commemti al De anima aristotelico di Taddeo da Parma, di Matteo da Gubbio, di Giacomo da Piacenza – e questioni che privilegiano i temi della metafisica e della filosofia naturale (fisica, biologia, psicologia). Il metodo è quello della «quaestio», che vede nel confronto tra tesi contrapposte la via più sicura per la ricerca della verità da parte dei maestri e anche l’esercizio più utile per l’apprendimento da parte degli studenti. I bolognesi conoscono a fondo i testi della tradizione aristotelica, ma anche le opere dei più famosi maestri parigini: Alberto Magno, Tommaso d’Aquino, Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante, Giovanni di Jandun. Il legame con Parigi è dunque ancora una volta decisivo per l’operare di questi filosofi, così come lo era stato all’origine della loro storia. Due grandi temi, per l’importanza che rivestono in ambito metafisico ed epistemologico, sono al centro della ricerca: il primo riguarda l’esistenza o meno del caso e della libertà in un mondo in cui, filosoficamente parlando, ogni effetto sembra derivare necessariamente da una concatenazione di cause; il secondo riguarda l’intelletto, la sua natura e la sua attività. Il problema dell’intelletto è cruciale, perché coinvolge il tema dell’immortalità dell’anima. Per i maestri bolognesi, che seguono Aristotele e Averroè e sfidano l’ortodossia, solo il pensiero «collettivo» è immortale: «L’intelletto ha un rapporto di appropriazione con la specie umana nel suo insieme e così, quando un individuo è morto, esso continua ad agire in un altro individuo, ma rispetto a chi è morto esso cessa totalmente di agire» (Giacomo da Piacenza).
La riflessione politica
La Parte seconda del libro – «Contesti, temi, figure» – volge lo sguardo a quanto accade intorno e al di fuori dello Studio bolognese. I capitoli riguardano Aristotele e la riflessione politica in Italia nel primo Trecento, dove spicca la figura di Marsilio da Padova (Roberto Lambertini), i volgarizzamenti filosofici, con un sottile confronto tra la Nicomachea di Taddeo Alderotti, fedele all’equivalenza concettuale e lessicale dei traduttori latini di Aristotele, e la soluzione, più superficiale e livellante, di Brunetto Latini nel secondo libro del Trésor (Sonia Gentili) e, a chiudere bene il volume, il Convivio di Dante (Paolo Falzone) e Petrarca e la filosofia (ancora Gentili). Dante affronta, con il Convivio, la grande sfida di fare filosofia in volgare e l’abbandono dell’opera, per Falzone, non è dovuto a un’improvvisa sfiducia nei confronti della filosofia, come si è sostenuto, ma dall’emergere del problema dell’Impero universale. La cultura filosofica dantesca mantiene tenacemente, anche nella Commedia, un fondo aristotelico e la difesa della felicità umana in questa vita muove dall’idea, scolpita nell’adagio aristotelico «la natura non fa nulla invano» (natura nihil facit frustra) che il cosmo sia regolato da un principio di «pienezza». Ritroviamo qui lo spirito di alcuni maestri della Facoltà delle Arti di Parigi, che difendono l’idea di una perfezione naturale conseguibile nella vita terrena attraverso la filosofia. Petrarca contrappone invece all’uomo come animale razionale e politico del pensiero aristotelico, decostruito radicalmente con l’arma dell’ironia e del paradosso, la dimensione morale della tradizione agostiniana, la via della vita solitaria, la saggezza della spiritualità individuale. Le sue guide sono Cicerone, Seneca, Agostino: l’unica forma di governo delle passioni consiste nella loro repressione. Diversissima, anche qui, la scelta di Dante, che, per il primato aristotelico dell’intelletto sulla volontà vede come possibile un termine medio tra le pulsioni dell’anima sensitiva e la volontà, che crede nella capacità del libero giudizio di conformarsi a ciò che la ragione ha deliberato. È la scelta della «virtù che consiglia».