il manifesto 28.5.17
Aristotelismo dai bolognesi a Dante
Filosofia
medievale. Una ricca silloge del Mulino a cura di Carla Casagrande e
Gianfranco Fioravanti («La filosofia in Italia al tempo di Dante»)
ricostruisce l’epoca delle «disputazioni» universitarie
di Mario Mancini
In
un famoso passo del Convivio (II, 12, 6-7) Dante ricorda il suo
incontro con la filosofia, attraverso la lettura del De consolatione di
Boezio e del De amicitia di Cicerone. La scopre, con emozione, come
«somma cosa» e comincia così «ad andare là dov’ella si dimostrava
veracemente, cioè nelle scuole delli religiosi e alle disputazioni delli
filosofanti». Le parole di Dante sono di una meravigliosa precisione.
Le «scuole delli religiosi» sono, a Firenze, gli «studia» degli ordini
mendicanti — dei Domenicani, a Santa Maria Novella, e dei Francescani, a
Santa Croce — «studia» che sono aperti, in parte, anche ai laici.
«Filosofanti» individua un gruppo di intellettuali nettamente distinto
dai «religiosi»: è il nome con cui si indicano, a Parigi, i professori
della Facoltà delle Arti. E «disputazioni» è il termine tecnico che
indica le discussioni di problemi, teologici e filosofici, in ambito
universitario. Firenze, dunque, ma ancora di più Bologna. Perché qui,
verso la fine del Duecento, la filosofia, in stretto rapporto con i
maestri della Facoltà delle Arti di Parigi, riceve uno straordinario
impulso e le «disputazioni» qui dibattute vengono riprese,
appassionatamente, in tutte le principali città italiane. Un caso
rilevante è la Questio de felicitate che un non meglio conosciuto
Giacomo da Pistoia dedica a Guido Cavalcanti, il che ci dà piena misura
di come temi filosofici fondamentali fossero giunti in un ambiente cui
Dante, e non solo il suo «primo amico», poteva avere ampio accesso.
Un reduce da Parigi
Alla
ricostruzione di questa vicenda culturale, che è una vera svolta, è
dedicata la ricca silloge La filosofia in Italia al tempo di Dante, a
cura di Carla Casagrande e Gianfranco Fioravanti (Il Mulino, pp. 292, €
23,00). La Parte prima ha come titolo «Il ritorno dei filosofi in
Italia: Bologna 1295». Perché questa data? Perché è fortemente
emblematica: individua il ritorno a Bologna di Gentile da Cingoli, uno
studioso che si è perfezionato a Parigi, nella Facoltà delle Arti,
seguendo in particolare corsi sul De generatione animalium di
Aristotele, e che il 21 marzo 1295 stipula un contratto con un
professore di logica dello studio bolognese per impartire lezioni di
filosofia. Si tratta della prima testimonianza dell’esistenza a Bologna e
in Italia di un insegnamento di filosofia in senso stretto, e
sicuramente non è un caso che a impartirlo sia un reduce da Parigi. La
situazione istituzionale dell’Università di Bologna – analizzata con
mano sicura, oltre che da Fioravanti, da Andrea Tabarroni e da Chiara
Crisciani – è molto particolare e molto complessa. I docenti di medicina
sono attratti dalla dottrina di Aristotele, rilevantissimo è il ruolo
di un maestro come Taddeo Alderotti, che insegna nella Scuola di
medicina fin dal 1268 e che ha forti interessi filosofici: commenta
Galeno e Avicenna, volgarizza, in un compendio, l’Etica Nicomachea di
Aristotele. Il legame tra medici e filosofi, con maestri come Gentile da
Cingoli, come Taddeo Alderotti e i suoi allievi, porta anche, nel 1316,
alla costituzione, accanto al più antico e glorioso Studio giuridico,
di uno Studio di Medicina e Arti, e sarà veramente un tratto originale e
distintivo della filosofia che si insegna a Bologna e in Italia.
Parallelo, ma autonomo, è il discorso che farà Pietro d’Abano, che
insegna medicina, filosofia e astrologia a Padova.
I «modi di
filosofare» di questi maestri sono ricostruiti, in modo eccellente, in
un capitolo di Fioravanti, che è uno dei maggiori studiosi europei di
filosofia medievale: basti ricordare il prezioso commento al Convivio da
lui curato, nel 2014, per «I meridiani». In primo piano sono i testi
che questi filosofi hanno lasciato – come i commemti al De anima
aristotelico di Taddeo da Parma, di Matteo da Gubbio, di Giacomo da
Piacenza – e questioni che privilegiano i temi della metafisica e della
filosofia naturale (fisica, biologia, psicologia). Il metodo è quello
della «quaestio», che vede nel confronto tra tesi contrapposte la via
più sicura per la ricerca della verità da parte dei maestri e anche
l’esercizio più utile per l’apprendimento da parte degli studenti. I
bolognesi conoscono a fondo i testi della tradizione aristotelica, ma
anche le opere dei più famosi maestri parigini: Alberto Magno, Tommaso
d’Aquino, Boezio di Dacia, Sigieri di Brabante, Giovanni di Jandun. Il
legame con Parigi è dunque ancora una volta decisivo per l’operare di
questi filosofi, così come lo era stato all’origine della loro storia.
Due grandi temi, per l’importanza che rivestono in ambito metafisico ed
epistemologico, sono al centro della ricerca: il primo riguarda
l’esistenza o meno del caso e della libertà in un mondo in cui,
filosoficamente parlando, ogni effetto sembra derivare necessariamente
da una concatenazione di cause; il secondo riguarda l’intelletto, la sua
natura e la sua attività. Il problema dell’intelletto è cruciale,
perché coinvolge il tema dell’immortalità dell’anima. Per i maestri
bolognesi, che seguono Aristotele e Averroè e sfidano l’ortodossia, solo
il pensiero «collettivo» è immortale: «L’intelletto ha un rapporto di
appropriazione con la specie umana nel suo insieme e così, quando un
individuo è morto, esso continua ad agire in un altro individuo, ma
rispetto a chi è morto esso cessa totalmente di agire» (Giacomo da
Piacenza).
La riflessione politica
La Parte seconda del
libro – «Contesti, temi, figure» – volge lo sguardo a quanto accade
intorno e al di fuori dello Studio bolognese. I capitoli riguardano
Aristotele e la riflessione politica in Italia nel primo Trecento, dove
spicca la figura di Marsilio da Padova (Roberto Lambertini), i
volgarizzamenti filosofici, con un sottile confronto tra la Nicomachea
di Taddeo Alderotti, fedele all’equivalenza concettuale e lessicale dei
traduttori latini di Aristotele, e la soluzione, più superficiale e
livellante, di Brunetto Latini nel secondo libro del Trésor (Sonia
Gentili) e, a chiudere bene il volume, il Convivio di Dante (Paolo
Falzone) e Petrarca e la filosofia (ancora Gentili). Dante affronta, con
il Convivio, la grande sfida di fare filosofia in volgare e l’abbandono
dell’opera, per Falzone, non è dovuto a un’improvvisa sfiducia nei
confronti della filosofia, come si è sostenuto, ma dall’emergere del
problema dell’Impero universale. La cultura filosofica dantesca mantiene
tenacemente, anche nella Commedia, un fondo aristotelico e la difesa
della felicità umana in questa vita muove dall’idea, scolpita
nell’adagio aristotelico «la natura non fa nulla invano» (natura nihil
facit frustra) che il cosmo sia regolato da un principio di «pienezza».
Ritroviamo qui lo spirito di alcuni maestri della Facoltà delle Arti di
Parigi, che difendono l’idea di una perfezione naturale conseguibile
nella vita terrena attraverso la filosofia. Petrarca contrappone invece
all’uomo come animale razionale e politico del pensiero aristotelico,
decostruito radicalmente con l’arma dell’ironia e del paradosso, la
dimensione morale della tradizione agostiniana, la via della vita
solitaria, la saggezza della spiritualità individuale. Le sue guide sono
Cicerone, Seneca, Agostino: l’unica forma di governo delle passioni
consiste nella loro repressione. Diversissima, anche qui, la scelta di
Dante, che, per il primato aristotelico dell’intelletto sulla volontà
vede come possibile un termine medio tra le pulsioni dell’anima
sensitiva e la volontà, che crede nella capacità del libero giudizio di
conformarsi a ciò che la ragione ha deliberato. È la scelta della «virtù
che consiglia».