il manifesto 27.5.17
Lo stato postmoderno dove regna la paura
Tempi.
«Terrore sovrano» di Marina Calculli e Francesco Strazzari per Il
Mulino. Il libro è un’ottima bussola per evitare le trappole della
propaganda e i discorsi geopolitici reazionari, addentrandosi nel mondo
arabo
di Simone Pieranni
Tra terrore ed entità
statale esistono diversi nessi e proprio la storia degli stati arabi lo
dimostra: la violenza – nel tempo – è stata utilizzata tanto per
controllare territori, quanto per dare vita a nuove strutture di potere e
per reclamare nuove forme di autorità e sovranità. Analogamente, il
legame tra stato e terrore appare in grado di autoalimentarsi attraverso
un rapporto ravvicinato tra la violenza usata per reprimere il terrore e
la sospensione dei valori «liberali» delle nostre società, per creare
«stati di eccezione» proprio in contrasto alla violenza dei terrorismi.
Se
è vero che spesso si parla (specie in televisione) o si scrive con
approssimazione su temi come islamismo, terrorismo, sovranità e
territorio, è altrettanto realistico trovare pubblicazioni serie e
articolate che finiscono per profondersi in «specialismi», dando vita ad
analisi ricche e sicuramente originali, senza tenere conto però della
concatenazione che esiste tra un determinato luogo, e tutto quanto vi
accade, e processi in atto nel resto del mondo.
MARINA CALCULLI e
Francesco Strazzari in Terrore sovrano, stato e jihad nell’era
postliberale (Il Mulino, pp. 204, euro 16) analizzano la peculiarità
dello sviluppo filosofico e politico del mondo arabo, attribuendogli
indubbia specificità (per esempio nella carrellata sulla formazione
degli stati in epoca post coloniale, rivendicando una originalità di
quel processo al di là delle indubbie influenze occidentali) ma
collegandolo a quanto nel frattempo accadeva nel resto del mondo,
considerando dunque quei fenomeni economici e sociali internazionali
fondamentali per comprendere a pieno le ragioni di determinate
evoluzioni.
Ecco allora che la trasformazione del concetto di
«stato» nel mondo arabo (determinante per comprendere il sorgere dei
fenomeni jihadisti) e la sua importanza nel mondo contemporaneo, non può
essere isolato rispetto a quei processi neoliberisti che hanno finito
per modificare per sempre le percezioni di sovranità, legittimità e
«patto sociale». Come scrivono gli autori del volume, per comprendere la
strategia dell’Isis, i suoi metodi e il suo scombussolare il concetto
di entità territoriale (pur rifacendosi nel nome a un’entità statuale,
così come del resto aveva fatto al Qaeda, «la base») è necessario
comprendere il mutamento del concetto di sovranità nel mondo arabo; si
tratta infatti di una trasformazione motivata «dal modo in cui lo stato
si ridefinisce nell’era del neoliberismo economico: se da una parte il
dato territoriale resta il marchio visibile della resilienza dello stato
nazione, dall’altra la sfera della politica rappresenta sempre meno il
fulcro dell’esercizio della sovranità politica», ovvero tutto quanto
sancisce il patto sociale tra governanti e governati.
In epoca
neoliberista, infatti, le «comunità immaginate» delle nazioni si
disgregano perché si articolano in nuovi comunitarismi, «nuove forme di
interazione e nuove realtà politiche che seguono i flussi del capitale
privato». In questo senso si può leggere l’approdo di quella «guerra
fredda» del mondo arabo che per molto tempo è stato ben rappresentato
dal tentativo laico egiziano contrapposto all’Arabia saudita, e poi
dalle proposizioni socialisti (o tendenti al socialismo) contrastate da
spinte religiose fomentate da Stati uniti e potenze occidentali che ben
vedevano qualsiasi forza si contrapponesse all’ateismo di matrice
sovietica.
QUANDO LA SIRIA di Assad – per esempio – passa alla sua
fase di politica economica mista, «alla cinese», come viene ricordato
nel libro, e spuntano le prime banche private e arrivano le prime
conseguenze delle riforme in senso liberista, Damasco perde la fiducia
dei governati, che finiscono tra le braccia di enti religiosi, da sempre
attivi nel mondo della carità e del sostegno ai meno abbienti, e in
grado di inserirsi in imponenti flussi di denaro privato, tanto interni,
quanto internazionali, data la «guerra fredda» ancora in corso.
Questi
«nuovi comunitarismi», dunque, «sono solo apparentemente un ritorno
alla tradizione, mentre in realtà rappresentano la sua invenzione
postmoderna, inseguendo le modalità tipiche di organizzazioni sociali
neoliberiste», quanto di più simile – come viene ricordato nel volume – a
quella tendenza che per Deleuze e Guattari «crea macchine mondiali
ecumeniche e neoprimitivismo».
La concomitanza della stessa
matrice tra stato e terrore giunge al suo culmine quando una forza
egemonica si dissolve. Nel mondo arabo postcoloniale – secondo gli
autori – questo è accaduto in quattro momenti diversi, quattro «tornanti
storici»: il primo riguarda la formazione degli stati arabi, attraverso
un nazionalismo preponderante tra il 1950 e il 1970.
È IN QUESTA
FASE che si rafforzano gli apparati di sicurezza e la legislazione di
emergenza. Il secondo tornante è quello degli anni ’70 e ’80 quello
delle riforme volute dagli organismi economici internazionali: è il
periodo di forti contestazioni («i moti per il pane») e dello sviluppo
di movimenti islamisti «che contestano lo stato secolare». Il terzo
momento è la fine della guerra fredda che «in Medio oriente coincide con
la guerra del golfo» nel 1990-91. La crisi di egemonia in questo caso è
rappresentata dalla volontà di Usa e stati del golfo di «ridimensionare
il potere delle repubbliche arabe e socialiste». Il quarto tornante va
dall’invasione americana dell’Iraq alle rivolte arabe del 2011: in
questo arco temporale si costituiscono quei «regimi di sovranità» non
intesi come «organizzazioni internazionali ma come forme di autorità
politica svincolate dalla territorialità dello stato-nazione e
fortemente corroborate da identità (sunnita e sciita) politicizzate».
NEL
MARASMA degli eventi, delle diverse forme di propaganda cui siamo
sottoposti, Calculli e Strazzari ci forniscono una bussola per
un’analisi di sinistra (con riferimenti, rimandi espliciti e critica
anche a Foucault) che non rischia di cadere nel complottismo o
nell’anti-atlantismo tout court, mettendo finalmente in discussione
anche il grande ritorno della geopolitica, non proprio un termine
«chiamato a descrivere un campo del sapere fra gli altri, ma un discorso
politico ben strutturato attorno dalla designazione del pericolo, alla
costruzione di una minaccia».
Il discorso geopolitico –
reazionario, in termini politici – applicato al mondo arabo ha finito
per rappresentare i conflitti in atto «come espressioni identitarie
ancorate al dato etnopolitico», dando per scontato che dietro tutto
quanto ci sia una realtà orchestrata «più o meno sinistramente», dal
calcolo di potenze globali o regionali che competono per l’egemonia. Il
rischio – in cui cade anche molta «sinistra» – è quello di confondere le
volontà egemoniche (o di «sicurezza nazionale») dei governi con i
conflitti sociali e di classe interni ai singoli stati o ormai giocati
anche su livelli transnazionali.
LA GEOPOLITICA predica di
fondarsi sul realismo prediligendo due nozioni su tutti, interesse e
sicurezza nazionale. Ma questi due concetti sono oggi gli strumenti con
cui le élite di governo «non più ideologiche e post guerra fredda si
vincolano a una più ampia base di consenso», prodromi dei recenti
populismi e neo-sovranismi «con un occhio a che la bussola resti
orientata da un sano realismo anche laddove per paradosso, le dottrine
imperanti di estrazione liberale e neoliberale, predicano
interdipendenza e globalizzazione».
In questo senso, dunque, il
discorso geopolitico trasforma i rischi in minacce reali, candidandosi
«al ruolo di ala militarizzante del realismo: quella che solleva il
problema del controllo del territorio, dell’azione unilaterale
preventiva e risolutiva, quella che porta al negoziato solo dopo il
fatto compiuto», quella che, potremmo aggiungere, porta all’egemonia di
un concetto di sicurezza, prodromo di desideri di sistemi «sovranisti»
sempre più simili tra loro e sempre più autoritari.