sabato 27 maggio 2017

il manifesto 27.5.17
«Così sono scampata ai campi di sterminio»
Intervista. L'esperienza sconvolgente di Miriam Lewin, giornalista e scrittrice argentina. «Ogni mercoledì c'era chi partiva per 'il trasferimento': per i voli della morte. A noi, però, veniva detto che sarebbero andati in una fattoria della Patagonia per essere 'recuperati'. Ci credevamo, non potevamo ammettere tutto quell’orrore»
di Geraldina Colotti

«Sono stata detenuta in due centri di tortura clandestini in Argentina, a Virrey Cevallo, gestito dall’Aviazione e all’Esma, gestito dalla Marina. E sono sopravvissuta». La voce è ferma, lo sguardo azzurro e profondo di chi ha guardato in faccia la vita. Miriam Lewin, 59 anni, oggi giornalista e scrittrice, avrebbe potuto essere una dei 30.000 desaparecidos della dittatura argentina, che ha insanguinato il paese tra il 1976 e il 1983. Invece è ancora viva. Nei suoi tanti libri, ha rivisitato quelle pagine oscure consegnandole al presente. Putas y guerrilleras è uno dei libri più sconvolgenti, racconta il ricatto (e il dominio) sui corpi delle donne resistenti compiuto dai militari.
Fino a che punto è lecito salvarsi, e a che prezzo?
Quando mi hanno sequestrato avevo 19 anni. Come molte mie coetanee ero impegnata in un processo di lotta per il cambiamento verso una società più giusta, basata sui diritti e l’uguaglianza. Militavo in un gruppo di supporto alla guerriglia dei Montoneros, con gli studenti, nei quartieri popolari nella provincia di Buenos Aires. Come moltissimi altri, ero clandestina, perché sia io che il mio compagno avevamo subito perquisizioni. Mi hanno sequestrato all’uscita dal lavoro. Era il 17 maggio del 1977. Il golpe c’era stato il 24 marzo del 1976. Avevamo tutti una pastiglia di cianuro, per evitare di tradire sotto tortura, ma l’avevamo fabbricata in casa, l’involucro di plastica era troppo spesso, non feci in tempo a masticarla che me la tolsero. Mi incappucciarono in una Ford Falcon. Mi portarono in una casa. Dai discorsi delle guardie capii di essere vicina al dipartimento di polizia. In un centro di detenzione clandestino.
Già sapevate della loro esistenza?
Sì, era trascorso più di un anno dal golpe, non avevamo conferme ma lo sapevamo. Dopo le torture, con la picana, la roulette russa e tutto il resto, rimasi quasi un anno in totale isolamento, senza contatti con gli altri sequestrati, che venivano trasferiti al massimo dopo una settimana.
Ma perché l’hanno risparmiata?
Erano ossessionati da una mia amica, figlia di un alto ufficiale dell’aviazione, che era nei Montoneros, non se ne facevano una ragione. Era clandestina, e non sapevo dov’era. Non ho parlato. Una volta non ce la facevo più e gli ho detto che li avrei portati in una casa dove avrebbe potuto trovarsi. Una volta in zona, dissi che non potevo riconoscere la casa. Me la fecero pagare. Patricia è poi stata presa per caso, era incinta al nono mese, aveva vent’anni. L’hanno ammazzata insieme al suo compagno e hanno ridato il corpo al padre, trattandosi di un alto ufficiale. Quello del compagno è ancora desaparecido. I militari non riuscivano a capire perché la figlia di uno di loro potesse stare con il nemico. Non fu la Marina ad arrestarla, ma a quel punto, visto che il 90% del mio interrogatorio riguardava la sua cattura, forse pensarono che non aveva più senso uccidermi, o forse si erano abituati alla mia presenza. Non so. È stato come nei campi di concentramento nazista. Un terno all’otto. Alcuni sono sopravvissuti e altri no. Quelli che hanno collaborato sono stati comunque uccisi e altri che non lo hanno fatto se la sono cavata. Mi ricordo un episodio. Un’amica mi aveva raccontato che, durante una perquisizione avevano trovato delle foto in cui andava in barca con il padre, un istruttore di vela. Quando uno dei carcerieri mi parla, dico: «Questa è innamorata del mare, il padre ci portava spesso in vela». Non era vero, ma da quel momento, quel repressore ci ha preso sotto la sua protezione, se lei non mi avesse raccontato quell’episodio, forse sarebbe finita come tutti quelli che ogni mercoledì partivano per «il trasferimento»: per i voli della morte. A noi, però, veniva detto che sarebbero andati in una fattoria della Patagonia per essere «recuperati». Ci credevamo, non potevamo ammettere tutto quell’orrore. Non potevamo ammettere che i bambini fossero regalati come bottini di guerra. Solo che poi ritrovavamo le scarpe e gli oggetti dei nostri compagni, che venivano buttati giù nudi dagli aerei. Uno, portato per errore sull’aereo della morte, era tornato indietro. Aveva raccontato il viaggio, il Pentotal…
Perché vi tenevano in vita?
Il nostro era lavoro forzato, ufficialmente deputato a «redimerci». Ma c’era anche un progetto più ampio. L’ammiraglio Massera voleva costruirsi un futuro politico oltre la dittatura, convertirsi nell’erede del generale Peron, morto nel ’74: diventare un leader populista andando alla presidenza con elezioni democratiche. Aveva bisogno di cervelli. Il suo era un piano economico di estrema destra, ma basato su un nazionalismo critico verso le privatizzazioni e l’apertura delle frontiere. Voleva costruire una piattaforma attraente come quella di Peron, aveva legami con il peronismo di destra, con i sindacati e anche con la socialdemocrazia tedesca. Non era stupido. Nel ’78 si ritirò dalle Forze armate, fondò un suo partito… Intanto ci mettevano alla prova. Ci portavamo persino al ristorante, ci comunicavano i loro piani di sequestro per vedere come reagivamo, sapendo che avrebbero sterminato le nostre famiglie e i nostri compagni se avessimo parlato. Una tortura raffinata, in grado di distruggere i rapporti di solidarietà fin nell’intimo: non potevamo fidarci dei nostri stessi compagni. Poi, quando ero in libertà vigilata, ci hanno tenuto a disposizione in un appartamento predisposto. Finché non mi hanno ridato il passaporto e sono andata negli Usa. Poi sono rientrata con il ritorno alla democrazia.
E ora? L’alternativa a Macri resta all’interno del peronismo o è il momento per un’altra sinistra in Argentina?
Nel ’93, andai a Mosca con una equipe di giornalisti internazionali, durante il periodo dell’attacco alla Duma. Da una parte c’era una manifestazione degli ortodossi, dall’altra una con la foto di Stalin. Un collega svedese non capiva. Nel peronismo c’è sia la destra cattolica fanatica che l’estrema sinistra marxista. Il peronismo – che ha dato il voto alle donne, le vacanze pagate eccetera – è espressione sia della lotta operaia e popolare (non c’è un altro movimento che la esprime), che dell’estrema destra. Non è difficile capire il peronismo, difficile è militarvi, perché l’amico politico di oggi, domani può voltarti le spalle. È successo negli anni ’70, quando il peronismo di destra creò la Triple A, l’Alleanza anticomunista argentina che ammazzò centinaia di oppositori politici, anche peronisti. La repressione cominciò con Isabel Peron, la vedova di Peron. Il figlio di una delle fondatrici delle Madres è scomparso nel ’75. Il kirchnerismo è un fenomeno speciale del peronismo. Nessuno si sarebbe aspettato che Nestor Kirchner realizzasse il piano di governo progressista portato più avanti da Cristina: una politica keynesiana che ha rivitalizzato il mercato interno con innumerevoli misure popolari. Dalla morte di Nestor, nel 2010, molti adolescenti sono tornati alla militanza, e questo ha reso possibile l’interesse per la memoria, i processi ai repressori. Certo, c’è corruzione, ma i media silenziano le responsabilità dell’attuale governo e amplificano quelle del kirchnerismo. E in America latina c’è un odio atavico, di classe e di razza, delle oligarchie verso le classi popolari: in Argentina, in Brasile come in Venezuela