Il Fatto 27.5.17
La tomba dell’Arte svenduta e perduta da Franceschini
Tre anni di mala gestione dell’immenso patrimonio italiano, dalla guerra alle Soprintendenze al liberismo sfrenato
di Giampiero Calapà e Vittorio Emilian
La
gestione Franceschini del prezioso patrimonio paesaggistico e culturale
in poco più di tre anni ha provocato una concatenazione di disastri. I
modelli, se di modelli si può parlare, dell’iniziativa franceschiniana
sono rintracciabili in alcuni apparati scarsamente funzionanti
dell’ottocentesco Regno di Sardegna e del fascismo, in quest’ultimo caso
addirittura corretti e rinnegati dal ministro dell’Educazione Giuseppe
Bottai nel 1939.
Al Capo non piacciono, caccia ai vecchi dirigenti
Dario
Franceschini è ministro dei Beni e delle attività culturali e del
turismo dal 22 febbraio 2014, giorno in cui Matteo Renzi strappa la
campanella di Palazzo Chigi dalle mani di Enrico Letta dando il ben
servito anche a Massimo Bray. Qual è il vangelo che definisce l’azione
di governo di Franceschini, chiamato a sostituire una figura di
prestigio come quella di Bray (ora reduce dal successo senza precedenti
del Salone del libro di Torino, edizione 2017)? Ebbene le linee
programmatiche franceschiniane sono state anticipate proprio dal libello
di Matteo Renzi: Stil novo, la rivoluzione della bellezza da Dante a
Twitter (Rizzoli, 2012). Infatti, è dall’esperienza fiorentina di Renzi
sindaco – ai tempi in cui definiva Franceschini “vicedisastro” – che
nasce il fastidio per la figura del soprintendente. È un soprintendente
che non permette di raschiare l’affresco del Vasari a Palazzo Vecchio
(improbabile per gli esperti ritrovare là sotto “La battaglia di
Anghiari” di Leonardo) e sempre le Soprintendenze contesteranno
l’affitto di Ponte Vecchio per la festa della Ferrari di Montezemolo e
impediranno il rifacimento dell’incompiuta facciata di San Lorenzo.
Quindi i soprintendenti vanno depotenziati, meglio sarebbe cancellarli.
Un primo scorporamento franceschiniano riguarda “valorizzazione” e
“tutela” dei beni culturali. La tutela rimane alle soprintendenze ma la
valorizzazione viene posta in capo ad altri organismi dello Stato, una
sorta di ufficio turistico nazionale. I meccanismi diventano più
farraginosi ma il vero colpo di grazia è la scissione dei musei dal
proprio territorio, compresi quelli di scavo. Una mole immensa di
patrimonio da dividere: sedi, archivi cartacei, fotografici e personale,
poco e anziano (età media 55 anni, nessuno nato dopo il 1982).
Caos, paradossi e danni irreparabili
Caos
e paradossi, e danni: un esempio sono gli 8.815 Nuraghe in Sardegna,
vero museo a cielo aperto, inscindibile dal territorio; erano uno in più
ma quello di Tertenia è crollato nell’autunno 2016 dopo anni di
inascoltati allarmi e richieste di fondi da parte della Soprintendenza.
In Toscana, poi, c’è l’esempio migliore per spiegare il paradosso delle
scissioni franceschiniane: Populonia, frazione del comune di Piombino.
Qui l’importante area di scavo è gestita dalla Soprintendenza, ma al suo
interno c’è il Museo Etrusco, gestito dal Polo museale, riproducendo in
piccolo quella che era la situazione di Berlino Ovest isola nel mare
della Germania Est. Al Sud d’Italia la maggior parte del patrimonio
artistico è culturale si trova nelle chiese, nelle abbazie, nelle
cappelle e nelle regge. Al Nord nelle Pinacoteche, statali e civiche
dopo le soppressioni degli ordini religiosi prima per mano di Napoleone e
poi del nuovo Stato unitario risorgimentale. Va da sè come sia
impossibile scindere anche fisicamente i musei archeologici dagli scavi e
quindi dal territorio. È da questo aspetto che si capisce la vera ratio
della riforma franceschiniana: criteri e compensazioni
politico-clientelari così come svelato dalla sentenza del Tar del Lazio
rispetto alle nomine bocciate dei cinque supermanager.
Accorpamenti e ritorni al passato
Con
una norma sbrigativa Franceschini fa saltare le Soprintendenze
archeologiche accorpandole in un solo organismo con Belle arti e
paesaggio. Antonio Paolucci, già sovrintendente, già direttore dei Musei
Vaticani e ministro nel governo Dini (1995-96), definisce così
l’operazione: “Un mostro”. Un accorpamento del genere era già stato
approntato nel 1923 dal Partito nazionale fascista. Ma fu lo stesso
fascismo ad accorgersi dell’imperdonabile errore nel 1939, quando il
ministro Giuseppe Bottai, conscio del valore delle specializzazioni,
cancellò gli accorpamenti. Invece, i profeti della Rottamazione hanno
deciso di ritornare al pre-Bottai rottamando, in buona sostanza,
controlli e procedure tecnico-scientifiche che spesso salvano la vita
del patrimonio artistico e culturale.
Un salto indietro fino al Regno sabaudo
Laddove
Franceschini non arriva poi, ci ha pensato Marianna Madia, ministro
della Pubblica amministrazione, con una norma uccidi-Soprintendenze.
L’arma fine di mondo, l’applicazione definitiva dello Stil novo
renziano, infatti, è stato il depotenziamento dei soprintendenti, che
diventeranno gerarchicamente inferiori ai prefetti. Spetterà, infatti,
ai prefetti, e non più ai soprintendenti, decidere se inviare un
archeologo, un dirigente Asl o un elettricista, a un’importante e
delicata Conferenza dei servizi, per esempio. Succedeva la stessa cosa,
viaggiando a ritroso nel tempo, nel Regno di Sardegna, considerato
arretrato in materia da studiosi e storici. Altro che innovazione e
velocità nell’epoca di Internet, il combinato Franceschini-Madia
proietta il patrimonio artistico-culturale direttamente nell’Ottocento e
non nelle parti d’Italia considerate, invece, più avanzate nel sistema
di tutela artistico-museale: Granducato di Toscana e Stato Pontificio.
L’ultimo affronto: l’articolo 68 svendi-arte
È
l’articolo 68 della legge sulla concorrenza l’ultimo soccorso alla
concezione franceschiniana del patrimonio artistico del Paese:
liberalizzazione totale dell’esportazione di opere d’arte di proprietà
privata. L’Italia diventa, sotto questo punto di vista, col silenzio
assenso di Franceschini, un Paese iper-liberista per la gioia di ricchi
antiquari e mercanti d’arte di tutto il mondo.