Corriere 30.5.17
Intervista a Noam Chomsky
«È giusto cercare un canale con Mosca Il vero problema per Trump è il clima»
Il
linguista guru della controcultura americana: «L’autonomia dell’Europa
dagli Usa? Può essere una strada. Più urgente è il tema dell’atomica e
della fine della deterrenza»
di Viviana Mazza
«Il
G7 non è nella posizione di prendere decisioni importanti. Bisogna
parlare con la Russia e ridurre le provocazioni che rischiano di portare
a un’escalation». Noam Chomsky, il filosofo della controcultura
americana, padre della linguistica moderna e anarchico irriverente, ci
parla al telefono dal Massachusetts Institute of Technology, con il tono
basso e pacato del vecchio professore, acceso ogni tanto da lampi di
indignazione. Si può dire che l’intellettuale 88enne — punto di
riferimento per la sinistra anti-imperialista e anti-capitalista —
avesse previsto le recenti parole di sfiducia di Angela Merkel nei
confronti dell’America di Trump. «C’è sempre stata una potenziale
spaccatura tra Stati Uniti ed Europa — disse alla vigilia della guerra
in Iraq del 2003 —. L’Europa ha sempre avuto la possibilità di muoversi
in una direzione più indipendente negli affari internazionali. Ha
prevalso l’idea di seguire la linea Usa, ma non è necessariamente una
scelta permanente. L’America ha tentato di evitare che gli interessi
franco-tedeschi portino l’Ue su una strada autono-ma». Pur notando oggi
una distanza crescente tra Stati Uniti ed Europa, Chomsky riflette sulle
cose che a suo parere accomunano le due sponde dell’Atlantico: il
populismo e il declino della democrazia.
Nel libro «Chi sono i
padroni del mondo» (Ponte alle Grazie) lei spiega che il declino del
potere statunitense fa sì che oggi Washington condivida il governo del
mondo con i Paesi del G7. Il summit di Taormina si è appena concluso con
scarsi risultati: si aspettava di più dai Sette Grandi?
«Non mi
aspetto molto da loro: il G7 non è nella posizione di prendere decisioni
importanti. Gli Stati Uniti si sono allontanati dagli altri su troppe
questioni. La più significativa: i cambiamenti climatici, che sono il
problema più grave oggi, con effetti catastrofici. Saremmo ancora in
tempo per affrontarlo, ma gli Usa, soli al mondo, rifiutano di
rispettare le regole e gli impegni. Tutti stanno facendo qualcosa,
eppure il Paese più ricco e più potente, leader del mondo libero, non
solo oppone resistenza ma ostacola gli sforzi altrui. Il problema non è
solo Trump. La leadership repubblicana nega i cambiamenti climatici. Il
Congresso Usa si è schierato contro i negoziati di Parigi sul clima.
Nella Carolina del Nord è stato condotto uno studio che verificava il
grave impatto sul livello delle acque: ma anziché correre ai ripari, la
reazione è stata di approvare una legge che vieta ogni ricerca sui
cambiamenti climatici. Obama ha preso alcune iniziative, ma ora
assistiamo a una nuova corsa all’uso di carburanti fossili».
La
questione del clima, in questo momento, è oscurata dal «Russiagate».
Quanto è grave ai suoi occhi lo scandalo dei rapporti tra lo staff di
Trump e Mosca?
«Io penso che sia un problema minore. Si parla di
uno scambio di informazioni confidenziali, vedremo cosa emerge. In linea
di principio non c’è niente di male nel tentare di stabilire rapporti
con la Russia, anzi è un approccio sostanzialmente corretto».
Lei crede che ci sia margine per un dialogo con il presidente russo, Vladimir Putin?
«Perché
no? Bisogna partire dai temi che contano e ridurre le provocazioni.
Quel che sta succedendo al confine con la Russia è il risultato
dell’espansione della Nato: è scandaloso che nel 2008 Obama e Clinton
abbiano offerto all’Ucraina di diventare membro dell’Alleanza Atlantica;
è come se il Messico avesse tentato di aderire al Patto di Varsavia. Ed
è la ragione per cui i russi agiscono in modo provocatorio al confine
con i Paesi Baltici: la situazione può esplodere in ogni momento, basta
che un aereo russo ne colpisca un altro per errore per innescare
un’escalation che potrebbe scaturire in un conflitto. L’altro tema
urgente è quello delle armi nucleari: Obama ha sviluppato — e Trump sta
portando avanti — un programma di modernizzazione del nostro arsenale
che rende possibile annientare l’intero deterrente russo con un “first
strike”. Questo mina la stabilità, perché salta la logica della
deterrenza reciproca. Consapevoli delle potenzialità americane, i russi
in un momento di crisi potrebbero essere tentati di colpire per primi,
assicurando la distruzione reciproca. È così che riduciamo la tensione?»
Oggi si dice che la più grande minaccia alla sicurezza Usa sia la Corea del Nord ...
«E
si ipotizzano nuove sanzioni e azioni militari, ma non si parla del
fatto che Pyongyang aveva proposto di congelare il programma
missilistico e nucleare in cambio della sospensione delle manovre
militari Usa nella regione. Obama ha rifiutato. Perché non imparare la
lezione dall’Iran? Anche Trump oggi riconosce che Teheran sta
rispettando l’accordo nucleare».
Come spiega l’ascesa del populismo in Occidente?
«Innanzitutto,
che cos’è il populismo? Oggi questo termine viene usato in modo molto
strano, per indicare il sentimento di rabbia, disillusione, disprezzo
per le istituzioni che si è diffuso in tutto il mondo occidentale. Lo
abbiamo visto nelle elezioni francesi con l’ascesa del movimento di Le
Pen, vicino al fascismo, e la vittoria di Macron, un outsider rispetto
ai partiti politici. Negli Stati Uniti i due principali candidati erano
Sanders e Trump, e se non fosse stato per gli imbrogli del partito
democratico, avrebbe vinto Sanders. Questi stessi movimenti
anti-establishment hanno portato alla Brexit. Perché si sviluppano?
Quello che accomuna le diverse realtà sono le politiche neoliberiste
della passata generazione, quella che in Europa chiamate “austerity”. I
risultati sono stati la stagnazione, la perdita di posti di lavoro, la
concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi».
Lei definì l’Ue una delle realtà più promettenti del secondo dopoguerra, ora parla di declino della democrazia anche in Europa.
«L’Unione
Europea vacilla a causa degli effetti nefasti delle politiche di
rigore. Una conseguenza è l’indebolimento della stessa democrazia: le
decisioni vengono prese lontano dal popolo, dai burocrati di Bruxelles e
dalla troika, che ascoltano le banche tedesche e francesi».
Perché la rabbia sfocia nel populismo e non in attivismo politico?
«Negli
Stati Uniti, le ricerche mostrano che la maggioranza della popolazione
non ha alcun modo di influenzare la politica. La gente arrabbiata
vorrebbe più tasse per i ricchi, ma i populisti trovano un capro
espiatorio: gli immigrati, i neri, i musulmani. Anziché concentrarsi
sulle vere fonti del disagio, il popolo vota per i propri nemici. Questo
sta succedendo in tutto l’Occidente».