Corriere 30.5.16
Trump e i palazzi vuoti nel viale della politica
di Sergio Romano
Anche
nelle metropoli moderne, come nelle città medioevali, le persone che
fanno lo stesso mestiere tendono a raggrupparsi nella stessa strada o
nello stesso quartiere. Mentre a Milano esiste un quadrilatero della
moda e a Londra un quartiere delle banche, a Washington, capitale degli
Stati Uniti, esiste un Viale della politica internazionale. È la
Massachusetts Avenue, una larga strada che taglia diagonalmente la
città. Qui, o nelle immediate vicinanze, vi sono quaranta ambasciate.
Tutte hanno un pennone su cui sventola la bandiera nazionale e molte
esibiscono, come insegna, il busto bronzeo o marmoreo del loro padre
fondatore: Masaryk per la Repubblica Ceca, Gandhi per l’India, O’Higgins
per il Cile e così via. Le rappresentanze degli Stati più giovani, nati
dalla disintegrazione della Unione Sovietica e della Repubblica
Jugoslava, sono state verosimilmente attratte dalla presenza nel Viale
di un numero considerevole di istituti accademici e culturali, noti in
America come brain trust: la Heritage Foundation, tradizionalista e
conservatrice; il Centro Islamico, composto da un istituto culturale e
da una moschea, nato dopo la Seconda guerra mondiale per iniziativa del
governo egiziano; l’Istituto Catone, una associazione libertaria che è
stata molto critica della presidenza Bush, ma anche di quella di Barack
Obama, e trae il suo nome dallo pseudonimo di un saggista
anglo-irlandese fra il Seicento e il Settecento; la Scuola Paul Nitze
per gli Studi internazionali avanzati, intitolata dalla Università Johns
Hopkins al nome di un celebre diplomatico che le donò i suoi archivi;
la Brookings Institution, casa madre del pensiero liberale; il Carnegie
Endowment for International peace, una delle più antiche fra le
istituzioni pacifiste del secolo scorso; l’American Enterprise
Institute, vivaio di intellettuali neoconservatori.
James Mann,
uno dei maggiori esperti di affari cinesi e oggi professore alla «Paul
Nitze», mi ricorda che queste istituzioni sono state per molti anni il
serbatoio intellettuale della Casa Bianca, il luogo dove il nuovo
presidente, democratico o repubblicano, andava a pescare i suoi
collabori all’inizio del mandato. A ogni cambiamento di presidenza,
quindi, Massachusetts Avenue assisteva a una sorta di trasloco
collettivo incrociato. Quando il presidente uscente era democratico, gli
intellettuali democratici tornavano nel grande viale per impartire
lezioni e scrivere libri; e quando il presidente entrante era
repubblicano, i loro posti venivano presi dagli intellettuali di
Massachusetts Avenue che simpatizzavano per il suo partito. I traslochi
nei due sensi erano sempre numerosi perché il presidente degli Stati
Uniti, all’inizio del suo mandato, ha il diritto di chiamare al servizio
dello Stato, con nomine discrezionali, circa 4000 funzionari e
magistrati.
Non tutti i nuovi presidenti sono solleciti (Jack
Kennedy e Bill Clinton procedettero molto lentamente), ma il primato
della lentezza sarà indubbiamente vinto da Donald Trump. I traslochi di
Massachusetts Avenue, in questo momento, sono alquanto rari e gli
sterminati corridoi dell’Executive Office Building (il palazzo dei
ministeri) sono pressoché vuoti. Alla fine dei primi cento giorni della
sua presidenza (una data convenzionale usata per far i primi bilanci),
Trump aveva riempito soltanto 50 delle 553 caselle indispensabili per le
posizioni dirigenti del solo potere esecutivo. Un secondo bilancio,
fatto il 20 maggio, non è più incoraggiante. Trump continua a nominare
con grande lentezza e la questione è ulteriormente complicata dal fatto
che parecchie nomine (557) richiedono la conferma del Senato Al 20
maggio le persone nominate erano soltanto 56 e quelle confermate 34.
Mancano ancora dozzine di ambasciatori, e un numero particolarmente
elevato di quelli che noi chiameremmo vice-ministri, sottosegretari,
segretari generali e direttori generali.
Dietro queste cifre vi è
un «problema Trump» che non è facilmente risolvibile. Il nuovo
presidente non è un uomo politico. Ha passato una buona parte della sua
esistenza, sino alla campagna presidenziale dell’anno scorso,
fabbricando e vendendo lusso e svago: grandi condomíni, alberghi,
casinò, campi da golf, gare di mondanità e di bellezza. Quando ha voluto
soddisfare il suo narcisismo e misurare la sua capacità di attrarre e
sedurre, lo ha fatto con un programma televisivo in cui recitava la
parte del giudice che premia il successo e condanna inesorabilmente
l’insuccesso. Per fare e aumentare la sua fortuna Trump si è mosso, sin
dalle sue prime iniziative, nel mondo di coloro di cui aveva bisogno:
sensali d’affari, avvocati specializzati in divorzi e bancarotte,
investitori, pubblicitari, procacciatori di licenze edilizie, impresari
di spettacolo, modelle di successo. Non sorprende che, dopo una vita
trascorsa in questi ambienti, un presidente settantenne (il più vecchio
di coloro che hanno varcato la soglia della Casa Bianca), poco incline
allo studio e con una capacità di concentrazione che non supererebbe i
30 secondi, sia privo dei collaboratori a cui può ricorrere un uomo
politico cresciuto fra elezioni, congressi e seminari di partito.
Gli
Stati Uniti, in questa situazione, rischiano di non avere
un’amministrazione all’altezza delle loro responsabilità e dimensioni.
Kissinger disse un giorno ironicamente che se avesse voluto parlare con
l’Europa non avrebbe saputo a chi telefonare. Con chi dovremo parlare
quando avremo bisogno di parlare con l’America?