Corriere 30.5.17
Europa, il nodo islamico
Una distanza difficile da colmare tra la visione laica dello Stato e i dettami della legge coranica
di Caterina Resta
Le
questioni sollevate da Caterina Resta rappresentano in maniera
esemplare una posizione assai diffusa nella cultura come nel senso
comune italiani (e non solo). Che si segnala innanzi tutto per un fatto
curioso. E cioè che spesso proprio coloro che teorizzano una cultura
della differenza o dell’alterità non tengono conto del principio logico
ineludibile secondo il quale non può esistere alcuna nozione di
differenza, o di alterità, senza una corrispettiva nozione di identità.
Solo se sono qualcosa posso rapportarmi all’altro distinguendomi da
esso. Per pensare il Due o i Molti, non è forse necessario che essi
siano intesi in quanto tali? E dunque definiti in base alla differenza
di che cosa, se non delle loro rispettive identità?
Ciò vale
soprattutto per l’Europa, perché da sempre — da quando ha senso parlarne
come un insieme unitario — essa si costituisce intorno al principio di
distinzione rispetto alla sua originaria unità con l’Asia: il «nodo di
Gordio», come lo ha definito Ernst Jünger, che dalla Ionia ha continuato
per secoli a legare Oriente e Occidente. Certo, chi potrebbe mai
sottovalutare gli apporti della tradizione araba nella matematica,
nell’arte, nella scienza, nella filosofia occidentale? Platonismo e
aristotelismo sono letteralmente inconcepibili fuori dagli apporti,
dagli innesti, dalle contaminazioni con la filosofia araba. La nostra
conoscenza di Platone e Aristotele viene anche da lì, così come l’opera,
e la vita stessa di Averroè costituiscono il primo annuncio di quella
che sarà cinque secoli dopo la battaglia dell’Illuminismo.
Ma la
storiografia ha il dovere di non perdere la misura: nella quantità e
nella qualità. E allora dobbiamo pur ricordare, per esempio, che la
nostra conoscenza dell’umano, della sua irriducibile ambiguità, dei
misteriosi labirinti di ogni sentimento e di ogni coscienza, cioè una
parte essenziale dell’identità europea, ha un debito essenziale con un
versante della cultura greca — la tragedia e la poesia — di cui neppure
una riga, però, la cultura islamica si degnò mai di trasmettere o di
elaborare, giudicandole evidentemente alla stregua di insignificanti
bellurie. E ancora: si può davvero dire che l’apporto arabo sia il cuore
dell’Occidente quanto, mettiamo, il logos greco e il diritto romano? O
che la teologia islamica abbia pesato in Europa quanto quella ebraica e
cristiana? Certo, in Dante c’è un potente elemento averroistico. Ma è
forse la nota dominante della Commedia ? Ci permettiamo di dubitarne.
Come si fa dunque a mettere sullo stesso piano misure e intensità così
diverse?
Il principio della coesistenza dei distinti è il
significato stesso della Trinità cristiana, di cui nel pensiero coranico
non è traccia. E non a caso l’intera cultura occidentale — da Hölderlin
a Nietzsche — lavora sulla compresenza degli opposti. Del cosmo e del
caos, della forma e dell’informe, del limite e dell’illimite.
La
storia, la filosofia, la politica dell’Europa nascono per l’appunto dal
senso del limite, dal distacco dall’illimite, dalla consapevolezza che
solo dalla determinazione nasce il senso. E anche la possibilità della
vita civile: il limite è soprattutto il principio del politico. Non
necessariamente nel senso del conflitto — tantomeno dello «scontro di
civiltà». Ma in quello della distinzione. Da Machiavelli a Montesquieu
la grande cultura politica europea ha riconosciuto la necessità della
distinzione tra potere, sapere e legge, tra teologia, morale e politica.
Questo — che poi altro non è che la creazione dello Stato laico e
l’idea di democrazia politica — è quanto continua a separarci dalla
teocrazia islamica. E non solo da quella, come si dice, «radicale», ma
anche da quella «moderata».
Nella tesi che per l’identità
dell’Europa sarebbe stata «fondamentale» la radice islamica, come scrive
la nostra interlocutrice, c’è una forzatura ideologica estrema che non
giova né alla storia né alla filosofia. Una forzatura, ciò che non è
meno importante, la quale allontana dalla realtà vera delle cose, dal
momento che si fonda su un’esagerata — e per certi versi ci permettiamo
di dire ingenua — sopravvalutazione dell’incidenza dei materiali
«nobili», intellettualmente «alti», nella formazione di quella cosa
assai complessa che è l’identità storico-culturale. Che invece si
costruisce per mille tramiti, e dunque utilizzando anche materiali
«bassi»: primo fra tutti la memoria. Cioè appunto la storia.
Che
quasi sempre sfugge a rassicuranti visioni di idilliaca convivenza.
L’occupazione araba per mezzo millennio di buona parte della penisola
iberica; il lungo e sanguinoso scontro di Venezia con il Turco nel
Levante mediterraneo; le scorrerie saracene e barbaresche durate fino
all’inizio dell’Ottocento sulle coste italiane a caccia di donne, uomini
e bottino; l’occupazione ottomana, anche questa semimillenaria, di
tanta parte dei Balcani, con la dura oppressione delle popolazioni
cristiane costrette ogni anno a vedersi portare via una parte dei propri
figli destinati ad essere convertiti all’Islam ed educati a Istanbul
come guardie del sultano: siamo tentati di credere che forse tutto
questo ha contato qualcosa. E proietta le sue ombre lunghe fino
all’oggi. Siamo tentati di credere che l’epopea del Cid Campeador o
quanto accadde tanto tempo fa sulla Piana dei Merli e a Otranto, o
l’arrivo dei polacchi in soccorso di Vienna assediata, siamo tentati di
credere che questo ammasso di memorie antiche abbiano avuto un peso non
da poco nel plasmare il modo d’essere e di pensare di molti popoli
europei. Che esse siano capaci di suscitare ancora oggi echi profondi
nel loro animo.
L’identità è per l’appunto anche questo. E si
rassicuri la nostra interlocutrice: nessuno intende cancellare le
testimonianze della presenza araba nella sua Sicilia, così come non è
scritto da nessuna parte che l’identità e le memorie che la nutrono
debbano necessariamente sfociare in qualche «guerra di civiltà». Proprio
dando a ciascuno il suo la storia pacifica; e semmai è precisamente
quando si cerca di dimenticarla, sia pure con le migliori intenzioni,
che se ne favorisce invece la rivendicazione distorta e aggressiva.