lunedì 29 maggio 2017

Corriere 29.5.17
La chiesa, l’impegno politico e il nuovo vertice della Cei
di Ernesto Galli della Loggia

La designazione del cardinale Bassetti alla presidenza della Conferenza episcopale italiana è stata generalmente considerata la prova di quella definitiva svolta «antipolitica» voluta da tempo da papa Francesco e finalmente adottata dall’episcopato della Penisola. Una svolta, bisogna aggiungere, giudicata perlopiù con favore dall’opinione pubblica, che è in grande maggioranza ostile anch’essa all’idea che la Chiesa «faccia politica».
Infatti, nella prospettiva che oggi sembra prevalere nel mondo cattolico e fuori di esso, alla Chiesa dovrebbero venire affidate principalmente due missioni. Occuparsi in special modo di coloro che a vario titolo sono vittime di situazione di disagio, di privazione, di sofferenza — di situazioni cioè che richiedono per l’appunto la sua misericordia e/o il suo aiuto e conforto. E in secondo luogo essa dovrebbe rivolgere la sua attenzione nel denunciare e far luce sui grandi mali strutturali del mondo: dalla distruzione della natura all’ingiusta divisione delle risorse, dal commercio delle armi alle grandi migrazioni umane. La vasta popolarità di papa Francesco è dovuta in misura significativa proprio all’immagine che ci si è fatta del suo pontificato come orientato precisamente in queste due direzioni.
Le quali, tuttavia, mi pare che lascino in un certo senso irrisolto il problema non da poco del ruolo delle Chiese nazionali: un problema che ha un rilievo tutto particolare in Europa.
So bene che l’espressione Chiese nazionali — tipica delle Chiese riformate luterane — è dottrinariamente inapplicabile all’universalismo delle Chiese cattoliche pur operanti nei diversi Stati. Ma è anche vero che specie in Europa, le Chiese cattoliche stabilite nei vari Stati nazione, a causa del loro insediamento più che millenario nonché dello spessore e della ricchezza della loro presenza, sono quasi divenute un tutt’uno con le vicende storiche delle rispettive collettività nazionali. Divenendone, si voglia o no, delle protagoniste. E tuttavia, su quale possa o debba essere oggi la loro specifica missione, se esse conservino ancora o no un significato, e quale, si direbbe che l’opinione pubblica cattolica e lo stesso pontificato attuale siano però assai parchi d’indicazioni. Tra il livello planetario dei mali del mondo da un lato, e dall’altro quello dell’«ospedale da campo» per le moltitudini di individui, manca insomma una chiara messa a fuoco del senso specifico da attribuire a quell’ambito, chiamiamolo così intermedio, che invece è in certo senso proprio delle Chiese nazionali. Devono esse ancora mantenere un rapporto con la loro tradizionale identità storica? Hanno ancora un compito specifico?
Il problema riguarda soprattutto quei Paesi come l’Italia rimasti fino all’Ottocento di forte tradizione e in stragrande maggioranza cattolici. Nei quali, però, proprio nell’Ottocento si creò un violento antagonismo (non importa qui vederne le ragioni) tra una politica di orientamento liberale forte di uno Stato ultralaico da un lato, e la Chiesa cattolica e per certi aspetti lo stesso cattolicesimo dall’altro. Ne risultò che è stato assai difficile per la Chiesa, attaccata politicamente e forte a sua volta di un ampio sostegno popolare, poter decidere, seppur ne avesse avuto mai voglia, di tenersi lontana dalla politica, di non «fare politica».
Il fatto è che «fare politica» può voler dire molte cose. Può voler dire brigare per posti, denari e favori, o invece avere una visione del mondo diversa da quella vigente, organizzare pezzi di società, dare loro voce, proporre soluzioni. E naturalmente, come accade in tutte le faccende umane, capita che vi sia un’area in cui i due ambiti si lambiscono o addirittura si sovrappongono. Il che è di sicuro capitato anche alla Chiesa, al clero e ai cattolici italiani quando hanno «fatto politica»: cioè sempre. Dal momento che — in un modo ovviamente ogni volta diverso — hanno fatto politica don Bosco e don Sturzo, don Morosini e i sacerdoti della Brigata Osoppo, hanno «fatto politica» la Fuci di Montini e L’Azione cattolica di Gedda così come la «Comunità di Sant’Egidio» (il cui presidente è stato addirittura ministro della Repubblica) o «Comunione e Liberazione». E per dirne un’altra: c’è per caso qualcuno convinto che nelle elezioni del ‘48 la Chiesa avrebbe fatto meglio a non «fare politica»? Senza il suo impegno non solo probabilmente non ci sarebbe stato De Gasperi ma non ci sarebbero state le cooperative, le società di mutuo soccorso, le associazioni sindacali, le lotte per l’emancipazione, che hanno rappresentato una parte non proprio indifferente dell’Italia migliore. Certo, insieme ai detriti che il legno storto dell’umanità produce immancabilmente. Ma alla fine che cosa è più importante?
In verità la storia di un Paese è una cosa maledettamente complessa, che si fa e va considerata nei tempi lunghi, evitando soprattutto di restare prigionieri dei propri giudizi e delle proprie passioni dell’oggi o dell’appena ieri. Ovvero, per restare all’argomento, avendo un’opinione o l’altra a seconda che la Chiesa faccia politica come a noi piace o come a noi non piace. A me pare che la storia dell’Italia moderna ci dica che in generale il Paese non ha certo scapitato dall’impegno politico dei cattolici, e sarei davvero sorpreso che non fosse d’accordo proprio il cardinale Gualtiero Bassetti che appena eletto ha indicato come sue figure di riferimento Giorgio La Pira e don Milani, due personalità che fino a prova contraria la politica l’avevano nel sangue. Di quell’impegno dei cattolici l’Italia ha forse ancora oggi bisogno. La domanda allora è: può mai esserci senza la Chiesa o a prescindere da essa? Mi sembra difficile pensarlo.