Repubblica 29.5.17
Hannah & Benji
Lezioni d’amore e rancore nella Scuola di Francoforte
Una
serie di lettere, documenti e testimonianze firmate dai due
protagonisti ricostruiscono gli ultimi mesi di Walter Benjamin Ne esce
un ritratto non edificante di Adorno e Scholem che insieme all’autrice
della “Banalità del male” si contesero a lungo e con qualche colpo
basso, l’eredità intellettuale del grande pensatore
di Antonio Gnoli
Conosciamo
quasi tutto di Walter Benjamin. Perfino con quali indumenti si
trascinava in fuga verso la via spagnola: due camice nella valigia, uno
spazzolino da denti e, forse, un manoscritto al quale stava lavorando.
Sappiamo della sua vita geniale e non propriamente fortunata. Vengono in
mente certe fragili figure di marzapane che allietarono la sua fantasia
di bambino precoce. Fu inattuale in tutto, ma di una inattualità
difficilmente classificabile, nominabile, collocabile. Fu questa
sfuggente sensazione di incerto possesso del suo pensiero a rendere
complessa la rete di amicizie solidali che lo avvolse, soprattutto negli
ultimi anni di vita. Una rete che somigliava a una costellazione di
stelle (quasi
tutte di prima grandezza) di cui lui era la più
brillante. Un’idea meno vaga di ciò che sto dicendo ce la si può fare
grazie al libro a firma Hannah Arendt e Walter Benjamin L’angelo della
storia, edito da Giuntina. Si tratta di una raccolta di testi, lettere,
documenti, da cui emergono le complicate relazioni tra i vari
protagonisti; le rivalità, i colpi bassi, le accuse che spesso, dietro
un’apparente armonia, si scambiarono Theodor Adorno, Gershom Scholem e
Hannah Arendt. Tutti e tre amarono realmente Benjamin ma ne usarono
l’immagine anche per combattersi fra loro.
Arendt incontrò
Benjamin a Parigi nel 1935. Entrambi esuli ebrei. Lei lo chiamava Benji.
Spesso giocavano a scacchi. Impararono anche la lingua inglese.
Volevano lasciare l’Europa e raggiungere l’America. Arendt riuscì a
partire. Benjamin non ce la fece. Non resse la fatica di un viaggio che
dalla Francia lo avrebbe condotto in Spagna e da qui negli Stati Uniti.
Si suicidò sul confine, a Port Bou, nel settembre del 1940. Gershom
Scholem fu l’amico della giovinezza. Si conobbero all’università. Fu tra
i primi a lasciare l’Europa. Emigrò in Palestina nel 1923. Si
scambiarono lettere bellissime. Ammirava il talento teorico dell’amico.
Desiderava che lo raggiungesse. Entrambi, da posizioni diverse,
nutrivano un forte interesse per la cultura ebraica. Scholem avrebbe
scritto in seguito una densa biografia dell’amico scomparso. Adorno era
già in America quando Benjamin tentò in qualche modo di raggiungerlo.
Viveva a Los Angeles dove si era trasferito l’Istituto di ricerche
sociali, di cui era insieme a Horckheimer tra i massimi esponenti. Anche
Benjamin ne faceva parte. Molta della sua sopravvivenza dipendeva dal
sussidio dell’Istituto. Ma in cambio di cosa? La Arendt si convinse che
gli amici della Scuola di Francoforte, che lei molto brutalmente
chiamava “banda di porci”, avevano nei riguardi del geniale Benjamin un
atteggiamento da esigenti tutori spirituali. In una lettera a Scholem
adombrò perfino una malversazione nell’uso dei fondi dell’Istituto. Qual
era lo stato d’animo di Benjamin negli ultimi mesi di vita? Nella
dettagliata ricostruzione della Arendt emerge un uomo spaventato dalla
guerra, disperato per la reclusione in un campo di concentramento. A
metà novembre del 1939 venne rilasciato. Tornò, almeno in apparenza, un
uomo sereno. Tanto che nei mesi successivi lavorò alle Tesi di filosofia
della sto- ria. Quel testo enigmatico e per nulla ortodosso gli procurò
molta apprensione. Benjamin temeva che Adorno e Horckheimer, com’era
già accaduto con il Baudelaire, lo giudicassero inadatto alla
pubblicazione. Prima dello scoppio della guerra, l’Istituto lo aveva
avvertito che il sussidio era a rischio. In questo oscillare di stati
d’animo restava il progetto di riparare in America, ma l’horror, dice la
Arendt, che provava per quel paese era indescrivibile. Confidò ad
alcuni amici che preferiva una breve vita in Francia a una lunga vita in
America. Tutto questo non spiega un suicidio. Ma lo colloca in una
prospettiva plausibile. Ne era ossessionato e non faceva che parlarne,
dice la Arendt.
Questa la situazione alla vigilia di quell’ultimo
viaggio che fu senza ritorno. Quando, settimane dopo, si apprese della
morte di Benjamin cominciarono le grandi manovre attorno al lascito dei
suoi scritti. Chi ne era l’erede? L’amico di infanzia Scholem? Adorno il
quale sostenne che Benjamin gli aveva affidato il lascito letterario? O
la stessa Arendt che si stava prodigando per la pubblicazione, tanto in
Germania quanto in America, di un’antologia significativa dei suoi
scritti? Tutti e tre avevano in qualche modo l’autorità morale. Quando
la macchina editoriale si mise in moto cominciarono le prime
insinuazioni e sospetti. Vecchi rancori mai sopiti tornarono avvolti
dalla cautela che ogni forma di potere altrui suggerisce. La Arendt
insinuò il peggio su Adorno, ma disse anche che con lui bisognava essere
dei “lecchini” se si voleva ottenere qualcosa in cambio. Adorno invocò a
giustificazione di certi atteggiamenti il fatto che si vivevano tempi
difficili, soprattutto per dei manoscritti che richiedevano una cura
speciale. La verità è che il trio delle meraviglie — Arendt, Scholem,
Adorno — diffondeva tre immagini profondamente diverse di Benjamin.
Scholem non avrebbe voluto che Adorno scrivesse l’introduzione agli
scritti di Benjamin per l’edizione tedesca. Quanto, all’edizione
americana, rimase infastidito dall’introduzione della Arendt accusandola
di “smania di originalità”, di fraintendimenti e controverse
affermazioni. Siamo già nella seconda metà degli anni Sessanta ma il
peso delle polemiche non è diminuito. A chiudere la vicenda è ancora una
volta una risentita lettera di Scholem, provocata dai reportage della
Arendt al processo Eichmann a Gerusalemme. Scholem prende le distanze da
La banalità del male, un libro sfacciato, sbagliato nel tono «che
trasforma precise e forse anche emozionanti o commoventi circostanze in
perfide osservazioni ». Definisce l’autrice una donna abitata dal
risentimento.
Ma c’è un convitato di pietra: Bertolt Brecht.
L’amicizia con Benjamin venne considerata tanto da Adorno quanto da
Scholem gravida di guai culturali. Troppo marxista, troppo rozzamente
impregnato di analisi politiche, per non immaginare che quell’anima
candida di Benjamin sarebbe caduta nella sua rete ideologica. Benjamin,
convennero entrambi, aveva abbandonato la profondità del pensiero. La
verità è che come in tutti i rapporti che egli strinse in vita anche
quello con Brecht fu all’insegna di un’assoluta indipendenza mentale.
Benjamin non era di nessuno e nessuno poteva rivendicare un possesso, o
vantarsi di essere l’autentico interprete del suo pensiero.
Quando,
rievocandone la figura, Hannah Arendt parlò all’università di Friburgo
era il 1967. Quella mattina fece a sorpresa il suo ingresso Martin
Heidegger. Era lì per l’antica allieva o per Benjamin? Qualche settimana
dopo il filosofo scrisse alla Arendt mostrando apprezzamento per la
lezione. Sono curiosi gli intrecci, spesso densi di involontari
riverberi. Benjamin aveva letto Heidegger. Avevano concezioni della
storia troppo diverse per capirsi. Dopo l’uscita di Essere e Tempo
Benjamin si ripromise di fare a pezzi Heidegger. Forse non ne ebbe il
tempo o la voglia. Sarebbe stato interessante misurare concretamente il
confronto tra due anime che più diverse non potevano essere. Condivisero
però l’affetto di una donna straordinaria che con nettezza comprese il
loro genio.
PROTAGONISTI
Qui sopra, Hannah Arendt. In alto, Walter Benjamin ( a destra) mentre gioca a scacchi con Bertolt Brecht
IL LIBRO
L’angelo della storia
di Hannah Arendt e Walter Benjamin ( Giuntina a cura di C. Badocco pagg. 262 euro 15)