Le Monde Diplomatique
il manifesto - Marzo 2017
Gli intellettuali e il suffragio universale
In Cina, la democrazia… quando il popolo sarà maturo
A Pechino, la stampa ufficiale ha ironizzato sulle elezioni statunitensi e sulle contestazioni negli Stati uniti dopo la vittoria di Donald Trump. Un’occasione per mettere in ridicolo il sistema politico occidentale. Numerosi intellettuali cinesi discutono sulle vie democratiche da immaginare per il loro paese, ma tutti ritengono che il popolo non sia pronto. Una riflessione che ricorda quella di certi politologi francesi
di Jean-Luis Rocca*
Da una parte i «democratici», difensori di un governo dal popolo e per il popolo; dall’altra gli «autoritari», fautori della dittatura del partito unico: ecco il paesaggio politico cinese, secondo la maggior parte dei media occidentali. In realtà, i due campi non sono così lontani. Entrambi sembrano voler determinare a quali condizioni il governo da parte del popolo possa permettere la promozione dell’interesse generale nella stabilità e nella concordia. Anche per i liberali e i dissidenti cinesi, la democrazia diretta non sembra in grado di farlo. Il popolo - essenzialmente i contadini e gli operai-migranti (1) - è preda delle proprie passioni, dei propri istinti, vulnerabile a ogni manipolazione. Una «vera» democrazia ha dunque bisogno di élite capaci di orientare la decisione popolare contando sulla frangia «cittadina» della popolazione, cioè la classe media urbana.
Questo modo di concepire la democrazia non è né nuovo né tipico della sola Cina. Non era solo il XIX secolo europeo a concepire le elezioni unicamente in un sistema adatto a guidare il popolo: ancor oggi, molti intellettuali occidentali sostengono una democrazia inquadrata. Nella Cina di oggi, la questione della democratizzazione e della rappresentazione domina il dibattito politico. Del tutto logicamente, i fautori di uno Stato forte e di un sistema stabile si oppongono a riforme che darebbero troppo spazio a un’espressione diretta della popolazione. Che prendano a riferimento l’esperienza rivoluzionaria cinese o propongano il ritorno a un certo confucianesimo (2), questi «conservatori» ritengono che l’interesse del popolo possa essere difeso solo da una élite di governanti carismatici e sordi rispetto ai bassi interessi materiali.
È forse più sorprendente il fatto che anche quelli che passano per essere i più liberali sono molto prudenti in materia di ampliamento della sovranità popolare. Come fa notare la sinologa Émilie Frenkiel (3), sono per il diritto di voto ma ritengono che, prima di goderne, gli individui debbano diventare cittadini pienamente coscienti delle proprie responsabilità, altrimenti rischiano di scegliere cattivi dirigenti. In questo senso lo storico Xu Jilin insiste sulla necessaria gradualità delle riforme, mentre, per il professore di filosofia Ren Jintao, «l’ideale sarebbe che il Partito [Partito comunista cinese, Pcc], riconosca che deve per forza riformarsi, che non ci sono alternative» (4).
Un elitismo di vecchia data.
Spiega Deng Zhenglai, professore all’università Fudan a Shangai: «La Cina è immensa, i suoi abitanti nu-merosissimi. Non basta una politica a cambiare le cose. La riforma economica non è stata applicata uniforme-mente su tutto il territorio nello stesso periodo. È una forma di saggezza che hanno i cinesi. (…) Occorre essere pazienti. (…) Questo consente di tornare indietro, se necessario.» Dal canto suo, il politologo Li Qiang sostiene che prima di dare il diritto di voto occorre costruire uno Stato moderno e un’economia di mercato, accordare libertà individuali e un po’ di spazio alla società civile - una «prima tappa» che precede riforme più ambiziose. In ogni modo, queste ultime non corrisponderanno alla «democrazia moderna oc-cidentale», perché «il peso delle nostre tradizioni non ce lo permette».
Uno dei liberali cinesi più noti all’estero, Yu Keping, identifica la democrazia nella «buona governance», cioè nel regno di onesti tecnocrati (5). Tagliente il punto di vista del celebre blogger Han Han: «Le persone educate [wenhuaren] identificano la democrazia con la libertà. Ma per la maggior parte dei cinesi, la libertà non ha niente a che vedere con la stampa, la letteratura o l’arte, le elezioni, l’opinione pubblica e la politica (…). Per chi non ha relazioni [sottinteso: per chi non conosce persone potenti e non ha capitale sociale], essere libero è poter gridare, attraversare la strada o sputare per terra a piacimento. Per chi ne ha un po’, libertà consiste nell’infrangere le leggi, approfittare delle falle nel diritto e nelle regole per fare tutto il male che si vuole (6).» Per dirla in altro modo: solo le persone educate possono comprendere caratteristiche e implicazioni della democrazia.
Forse questi giudizi tanto negativi dipendono solo dalla potente propaganda del partito, o da una tradizione autoritaria ancora presente. Ma anche Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace 2010, firmatario della Carta 08 (7) e in carcere dal 2008 per i suoi scritti, non dice niente di diverso: «Di fronte alla me-diocrità rappresentata dal predominio dell’interesse, solo una minoranza elitaria può nobilmente mettere in primo piano la libertà (…). Dopo la scomparsa degli aristocratici dei tempi antichi, la qualità di una società moderna si misura con la capacità da parte di una minoranza di controbilanciare la mag-gioranza (…). Questa élite minoritaria si preoccupa della sorte dei deboli e critica il potere politico; è capace anche di resistere ai gusti delle masse, nel senso che conserva autonomia e spirito critico nei confronti sia del potere che delle masse; fa da supervisore al go-verno con la critica, e guida le masse.» Inoltre: «Quello che le masse vogliono, è la felicità materiale e mediocre» (8).
L’elitismo degli intellettuali più democratici si fonda forse sull’amara e disillusa constatazione secondo la quale, dopo trent’anni di crescita spettacolare dei livelli di vita, i loro concittadini pensano solo a consumare? Ma anche prima del «miracolo cinese», i difensori della democrazia non amavano troppo la vicinanza con il popolo, come risulta evidente rileggendo le analisi del movimento di piazza Tienanmen, nel 1989. Negli Archivi di Tienanmen, Zhang Liang fa notare che le ragioni principali del fallimento del movimento furono «la debolezza dei riformisti ai vertici del Pcc, i disaccordi all’interno del movimento studentesco, la separazione fra gli intellettuali da una parte e gli operai e i contadini dall’altra [sottolineato dall’autore], oltre all’assenza di un’organizzazione rigorosa e di un programma dettagliato (9)».
Questa cesura si spiegava con la preoccupazione degli studenti di preservare la purezza della loro iniziativa. La loro critica al regime doveva essere politica e morale, non motivata da interessi economici. Cercavano di presentarsi come garanti del bene della nazione, sforzandosi di mantenere l’ordine e di preservare la produzione economica. Per preservare «purezza» e serenità, i leader studenteschi e i digiunatori erano protetti da un servizio d’ordine destinato a tenere a bada gli intrusi, la gente del popolo che veniva a presentare il proprio punto di vista. Per incontrarli occorreva essere raccomandabili (10).
Si può anche andare più indietro nel tempo ed esaminare le proposte dei primi liberali cinesi. Liang Qichao (1873-1929), considerato come colui che introdusse la democrazia in Cina e che ne fu il principale pensatore, non aveva subito l’influenza delle forze del passato e del totalitarismo. Eppure, come riecheggiando le proposte di Liu Xiaobo, ecco quanto scriveva al ritorno dai suoi viaggi negli Stati uniti: «Nessuna comunità è tanto disordinata quanto quella cinese di San Francisco. Perché? La risposta è la libertà. La natura dei cinesi di Cina non è superiore a quella dei cinesi di San Francisco, ma almeno, in patria, sono governati da funzionari e controllati da padri e fratelli maggiori. Allo stato attuale, la libertà, il costituzionalismo e il repubblicanesimo significano il governo della maggioranza (…). Se dovessimo adottare oggi in Cina un sistema democratico, sarebbe semplicemente il suicidio della nazione. Insomma, il popolo cinese, per ora, non può che essere governato in modo autocratico (11)…».
Fine del dibattito. In ogni periodo storico, la maggior parte degli intellettuali cinesi non è riuscita a concepire la democrazia come l’esercizio sovrano e diretto del potere da parte del popolo ma, al massimo, come un insieme di libertà civili concesse per consentire a tutti l’espressione dei rispettivi punti di vista e la difesa degli interessi, e anche l’indicazione di preferenze, ma nel quadro di un’oligarchia di governanti e sotto il suo controllo.
Questa concezione appare sconfortante agli occhi dei militanti occidentali della «causa democratica», ma piace ad altri osservatori, per i quali una democrazia alla cinese potrebbe costituire una soluzione di ricambio rispetto al modello occidentale. Si tratta anche di osservatori non sospetti di essere influenzati dalla tradizione cinese confuciana o da quella del Pcc. Emblematico di questa corrente di pensiero è il libro di Michel Aglietta e Guo Bai La voie chinoise. Gli autori assicurano che per il cambiamento politico esiste una via diversa dalla democrazia rappresentativa. E’ quella imperniata su «istituzioni burocratiche, nelle quali responsabili di alto livello, formati al ruolo dell’etica in politica, controllano strettamente i responsabili di rango inferiore». Al cuore di questo sistema, «una burocrazia controllata secondo i principi etici del confucianesimo». Di fronte agli effetti negativi del capitali-smo e della globalizzazione, «è la superiorità intellettuale e morale a determinare la vera nobiltà, e va ricompensata con status sociale, funzioni politiche e ricchezza materiale adeguati» (12).
I due autori concordano con i liberali cinesi circa la necessità di affidare il potere a una élite selezionata attraverso un sistema meritocratico definito dall’élite stessa. A differenza dei liberali cinesi, però, essi pensano che la burocrazia cinese attuale rappresenti l’élite di cui c’è bisogno perché è efficiente e giusta.
Ma in fondo, chi è questo popolo del quale si tratta di soddisfare i bisogni impedendogli però di arrivare al potere? Dal XIX secolo, è l’insieme delle persone poco fortunate o poco educate: contadini, piccoli commercianti e, in seguito, operai (fino alla fine degli anni 1990) od operai-migranti (attualmente). I membri di queste classi sociali sono ritenuti incapaci di esercitare un ruolo di cittadini per mancanza di «qualità» (suzhi), termine che si riferisce al livello di istruzione, ma anche al buon gusto, alle buone maniere, al livello di cortesia, igiene, civiltà, elevazione di spirito. Ancor oggi, la distinzione fra l’«urbano» (educato) e il «rurale» (incolto) è la principale linea di frattura all’interno della società cinese. L’essenziale dell’ex classe operaia ha raggiunto le fila della classe media, dunque degli educati; al fondo della scala rimangono i contadini e gli operai-migranti. Il problema è che sono loro la grande maggioranza della popolazione, e dunque dei potenziali elettori. Da qui la reticenza nell’affidare loro le chiavi del paese.
I democratici cinesi non sono certo i soli a diffidare del popolo. Non è forse tipico di tutti i liberali voler limitare l’esercizio della democrazia? Pensiamo ai dibattiti politici in Francia nella seconda parte del XIX secolo, che presentano molti punti in comune con gli interrogativi cinesi di adesso. L’avvento del Secondo impero fu uno choc per i repubblicani. «I contadini si sono allontanati dagli ex notabili come dai repubblicani al potere, per dare il proprio appoggio (…) a Luigi Napoleone Bonaparte. E la loro fedeltà (…) è di lunga data: gli elettori rurali sono da oltre venti anni i migliori sostenitori dell’Impero», scrive la storica Chloé Gaboriaux (13). La maggior parte dei repubblicani ritiene che il popolo delle campagne (il 70% dei francesi, all’epoca) abbia tradito la democrazia e «considera la maggior parte della popolazione inadatta alla cittadinanza e alla Repubblica». Il contadino è dunque «presentato come l’anti-modello di cittadinanza», non per natura, ma a causa delle sue condizioni di vita, che lo rendono incapace di comprendere le questioni politiche e di «integrarsi nella nazione». E’ la sua mancanza di educazione e di elevazione verso le questioni universali a renderlo politicamente indifferente. «In un capovolgimento del senso destinato a ripetersi nella storia della Francia repubblicana, la difficoltà della Repubblica di integrare una parte dei suoi cittadini è dipinta come la difficoltà da parte di questi ultimi a integrarsi.»
Paura delle classi popolari in Europa.
Nella Cina di oggi come nella Francia di allora, il problema sono i contadini. Ma Gaboriaux fa notare che «Il contadino bonapartista era più spesso istruito che ignorante.» Certo, quei contadini votavano per i conservatori e rifiutavano gli straripamenti rivoluzionari della Comune di Parigi. Ma avevano compreso velocemente come trarre vantaggio dalle pratiche elettorali.
In Europa, i contadini sono stati sostituiti dalle «classi popolari» nella rappresentazione del popolo. Ma continuano a levarsi voci per difendere la necessità di fondare la volontà generale su altro rispetto al principio della maggioranza o alla pratica della democrazia diretta. Alcuni uomini politici si interrogano sulla capacità dei cittadini di comprendere le domande alle quali devono rispondere in occasione dei referendum (14). E auspicano soluzioni «più razionali» fondate sulle analisi di tecnocrati ed esperti. Ma non si dice nulla sulle modalità di selezione di questi giuristi, esperti, governanti. Implicitamente, saranno le «élite» a legittimarli.
Ancora una volta, la Cina si rivela ricca di insegnamenti. Confrontati all’esigenza di contribuire alla modernizzazione del paese, gli intellettuali tornano agli interrogativi ai quali si suppone che le società «moderne» -biano risposto alcuni decenni fa. Cercano di adattare una forma mitizzata di democrazia a una serie di specificità cinesi altrettanto mitizzate. Questo permette di riscoprire come, dal XIX seco-lo fino ai nostri giorni, i grandi principi della democrazia siano stati utilizzati per dare origine a dispositivi e ideologie che paradossalmente limitano l’esercizio democratico.
Alla fine, tutti questi dibattiti si rivelano superficiali e ripetitivi, e la grande maggioranza dei protagonisti si accorda sull’essenziale; le uniche divergenze riguardano le tecniche e le norme da mettere in essere affinché la società sia ben governata. Tutti ritengono che il governo debba favorire l’interesse generale, cioè assicurare il benessere del popolo, ma che solo quelli che sanno, e già governano, ne conoscono le ricette. Da qui la proposta di instaurare una democrazia guidata da una élite meritocratica e dotata - non si sa come - di una capacità superiore e di un’etica adatte ad assicurare l’onestà della sua funzione.
Si ammette dunque il principio di una dissimmetria fra il popolo e l’élite, fra governati e governanti, istruiti e non istruiti. L’istituzione democratica deve sancire questa realtà. Certo, procedure democratiche o meritocratiche possono permettere un rinnovamento delle élite. Si creano concorsi, «commissioni di sorveglianza» di burocrati; si dà più potere ai media, alla legge, alle organizzazioni non governative (Ong); si introducono metodi di democrazia partecipativa. Ma queste innovazioni possono coinvolgere solo quelli che possiedono le qualità definite dai dominanti: avere cultura, essere «distinti», avere competenze tecniche, godere di ricono-scimento sociale e di relazioni. Esistono già relazioni di potere e di selezione nei media, nei tribunali, nelle Ong e nell’amministrazione che definiscono arbitrariamente i criteri di riuscita.
Una società senza rappresentanza democratica come la Cina non sfugge a questo consenso. Tutti - neoconfuciani, liberali, apparatchik, dissidenti - sono d’accordo sulla necessità di un governo per il popolo da parte di una élite. Tutti auspicano l’emergere di una classe media egemonica il cui livello di istruzione, reddito, rispettabilità e serietà garantisca il funzionamento ottimale di una democrazia rappresentativa. La Cina avrebbe allora a sua disposizione una massa sufficiente di individui ben pagati e istruiti, proprietari e consumatori contenti, dunque cittadini pienamente coscienti della realtà. Pronti a difendere i propri interessi - che si suppone coincidano con l’interesse generale -, la legge e la modernità, ma anche la stabilità, di certo sceglierebbero dirigenti illuminati. I conflitti fra i vari pensatori riguardano dunque solo il tipo di élite di cui il paese ha bisogno. Ecco la prova che, anche nel campo politico, la Cina fa assolutamente parte del mondo moderno.
* JEAN-LOUIS ROCCA
Professore a Sciences Po, ricercatore al Centre de recherches internationales (Ceri), autore di The Making of the Chinese Middle Class. Small Comfort and Great Expectations, Palgrave Macmillan, New York, 2017
1) Sono i cinesi originari della campagna che la-vorano in città, chiamati in Cina mingong. (2) Dalla fine degli anni 1990, alcuni politologi intendono articolare l’imperativo della democratizzazione della Cina con i principi confuciani, in particolare la necessaria autorità morale dei go-vernanti. Cfr. Daniel A. Bell, China’s New Confucianism: Politics and Everyday Life in a Changing Society, Princeton University Press, 2010. (3) Emilie Frenkiel, Parler politique en Chine. Les intellectuels chinois pour ou contre la démocratie, Presses universitaires de France, Parigi, 2014. (4) Cfr. Emilie Frenkiel, La Démocratie conditionnelle. Le débat contemporain sur la réforme politique dans les universités chinoises, tesi sostenuta il 25 giugno 2012 alla Ecole des hautes études en sciences sociales (Scuola di alti studi in scienze sociali), Parigi. Salvo diversa indicazione, le citazio-ni che seguono sono tratte da questa tesi. (5) Y u Keping, Democracy Is a Good Thing: Essays on Politics, Society, and Culture in Contemporary China, Brookings Institute Press, Washington, Dc, 2009. (6) Han Han, Lun geming («Sulla rivoluzione»), 23 dicembre 2011, http://blog.sina.com.cn (in cinese). (7) Questo manifesto pubblicato nel 2008 chiede l’adozione di una costituzione democratica. (8) Liu Xiaobo, La Philosophie du porc et autres essais, Gallimard, coll. «Bleu de Chine», Parigi, 2011. (9) Z hang Liang, Les Archives de Tiananmen, Le Félin, Parigi, 2004. (10) Craig Calhoun, «Revolution and Repression in Tiananmen Square», S ociety , vol. 6, no 26, New York, settembre-ottobre 1989. (11) Citato in R. David Arkush e Leo O. Lee (a cura di), Land W ithout Ghosts: Chinese Impres-sions of America from the Mid-Nineteenth Centu-ry to the Present, University of California Press, O akland, 1989. (12) Michel Aglietta e Guo Bai, La V oie chinoise. Capitalisme et empire, O dile Jacob, coll. «Econo-mie», Parigi, 2012. (13) Chloé Gaboriaux, La R épublique en quête de citoyens. Les républicains français face au bonapartisme rural, Presses de sciences Po, Pa-rigi, 2010. (14) Cfr. per esempio Martin Schulz, deputato eu-ropeo del Partito socialdemocratico tedesco il 12 aprile 2016 sugli schermi di Lcl. Si legga Alain Garrigou, «Voter plus n’est pas voter mieux», Le Monde diplomatique, agosto 2016. (Traduzione di Marianna De Dominicis)