La Stampa 9.2.17
Esplode la rivolta nel Pd
Renzi userà il congresso per evitare la scissione
di Carlo Bertini
Dopo
giorni di rancori soffocati e tempesta incombente, esplode la rivolta
nel Pd: «Sta franando tutto», scuote la testa sconsolato uno dei
renziani più fedeli al capo. Si può immaginare cosa dicano gli altri.
Gli eventi precipitano e sintomo della crisi che sembra mettere una
pietra tombale sulla corsa alle urne è la lettera di 41 senatori, tra
cui Chiti, Manconi, Tocci, in cui si chiede di sostenere il governo e di
«non concedere più nulla alle pulsioni dell’antipolitica». Una dura
critica all’assenza di analisi, «le amministrative, il risultato del
referendum, il cambio di leadership governativa aspettano ancora una
ragione interpretativa. E serve un tempo ragionevole», per capire cosa
proporre prima di andare al voto. Nella war room renziana vengono
scannerizzati i nomi e si vede che dodici firmatari sono di area
Franceschini, otto attribuibili a Orlando. Se ai 41 si aggiungono i 20
bersaniani, la metà del gruppo Pd del Senato è fuori controllo. Ma la
vera svolta è la crisi che investe la maggioranza renziana: per due
giorni con interruzioni solo per votare la fiducia, in Senato va in
scena uno psicodramma impensabile fino a due mesi fa, una rivolta di
franceschiniani e renziani vari della seconda ora. «Qui siamo in mezzo
alle macerie», dicono i fedelissimi alla fine. Sconcertati dopo aver
sentito senatori fino a ieri allineati scaricare sul luogotenente di
Renzi, il toscano Andrea Marcucci, una valanga di recriminazioni, con
una violenza verbale inusitata. Accusando Renzi di ogni cosa, dalla «sua
assenza», alla questione dei vitalizi, al parlare solo di data di
elezioni. Un conto salatissimo, messo in carico al leader anche da
quelli di Franceschini. Con i renziani presenti imbarazzati al punto che
l’intervento finale di Marcucci per parare i colpi riceve
un’accoglienza tiepida pure dai suoi.
Renzi è infuriato e lancia
la sua cavalleria contro Bersani che gli intima di piantarla con i
giochetti, ma sa che sta sfumando il suo progetto di votare a giugno.
Idea che malgrado tutto ancora accarezza, cercando di convincere -
tramite ambasciatori - pure Berlusconi che se si voterà a febbraio 2018
anche lui potrebbe restare invischiato nell’effetto Monti, per via delle
prese in carico di responsabilità nazionale che potrebbe richiedere la
manovra lacrime e sangue di autunno. Ma è il Pd il suo fronte più
debole, l’ex Cavaliere lo sa e per questo lo lascia cuocere nel suo
brodo.
Il partito di governo infatti è una barca che fa acqua, al
punto che il segretario sta pensando, consigliato dai suoi, di usare il
congresso anticipato come arma per mettere a tacere la rivolta. Mettendo
in mora la strategia dei «compagni». Che sarebbero costretti a
rinunciare alla scissione. «Meglio, per me lasciare il Pd sarebbe una
scelta drammatica, per altri forse no», ammette Miguel Gotor. Se fosse
tolto dal tavolo il voto a giugno, sarebbero convocate le assise per la
sfida della leadership come chiede Bersani. Il quale ritiene che
comunque Renzi parta favorito, tanto che i «compagni» saranno costretti a
puntare su un unico «cavallo» per non indebolirsi con più candidati.
Oggi Roberto Speranza riunirà la corrente in ebollizione. Ma è indubbio
che con il congresso tutto il cantiere della scissione guidato da
D’Alema verrebbe messo in crisi, tanto che in camera caritatis anche
dirigenti di Sinistra Italiana ammettono di fare il tifo per il voto a
giugno, perché la forzatura di Renzi agevolerebbe loro il compito di
svuotare il Pd. Insomma col congresso a giugno da chiudere con le
primarie a ottobre si riaprirebbero i giochi.