La Stampa 8.2.17
Addio agli ultimi manicomi criminali
Si svuotano le celle che hanno ospitato finti pazzi e veri boss
Il complesso è diventato casa circondariale
Anche il capoclan Buscetta riuscì a entrare
di Laura Anello
Da
queste celle con le porte blu sono passati pazzi e finti pazzi, nella
Sicilia pirandelliana dove il confine è sottile. Finti pazzi come i
superboss Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, arrivati
grazie a giudici compiacenti per ottenere sconti di pena. Ma pure il
primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, che non fu creduto e finì
ricoverato. E pazzi veri. Assassini e ladri di galline, criminali e
povere anime perse. Adesso, nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario
più grande d’Italia con oltre 600 internati negli anni di pienone, ne
sono rimasti 13 Gli ultimi tredici rimasti dalla grande dismissione
iniziata qui due anni fa, con il trasferimento progressivo verso le Rems
(residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) o
verso le Comunità terapeutiche, i due destini disegnati per gli ospiti
che hanno finalmente lasciato queste celle. Le prime riservate a chi è
considerato socialmente pericoloso, le seconde per persone con maggiore
autonomia e libertà di movimento.
È stato l’ultimo, questo
ospedale psichiatrico, a chiudere i battenti, dopo un lungo passaggio di
consegne tra i ministeri della Giustizia e della Salute. Eppure è
quello da cui tutto è partito, quando nel 2009 Ignazio Marino, allora
presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio
sanitario nazionale, venne qui e trovò un uomo con le mani e i piedi
legati con garze, sopra un letto di ferro arrugginito con un buco per le
feci e l’urina. Da quella visita nacque il disegno di legge che
prevedeva la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia.
Chiusura fu la parola d’ordine. E chiusura è stata anche qui.
Oggi
questo complesso di quasi sessantamila metri quadrati nel cuore di
Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, è diventata
una casa circondariale - un carcere normale, cioè - dove sono reclusi
duecentotrenta detenuti. E dove sopravvive però anche un reparto (per la
burocrazia si chiama “articolazione della tutela della salute mentale”)
in cui sono ricoverati i malati psichiatrici, «gente che si è ammalata
durante la detenzione», spiega il direttore Nunziante Rosania, un omone
grande e grosso al timone dell’istituto dal lontano 1989: in questo
momento ne sono ricoverati settantadue, sessanta uomini e dodici donne
tra cui anche i tredici “residui manicomiali”, seguiti da due psichiatri
e da un pugno di infermieri, nell’attesa che la Regione metta a
disposizione operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione.
«I
tredici vecchi internati - aggiunge Rosania - avrebbero dovuto essere
trasferiti in una Rems a Caltagirone non ancora completata. Ma abbiamo
trovato una soluzione, visto che tutti, tranne uno, alla luce di una
verifica della loro condizione psichiatrica, sono risultati in
condizione di transitare nelle comunità terapeutiche. Tra poco saranno
dimessi». Gli altri duecentoquaranta che hanno lasciato queste sbarre,
sono distribuiti tra Rems e comunità di tutta Italia, «e da lì mi
scrivono, mi mandano gli auguri per il compleanno, chiedono e danno
notizie». Qui, in questo enorme complesso costruito nel 1925 come
manicomio criminale, dei sei reparti disposti a pettine in mezzo a uno
spazio verde dove c’è pure un teatro spesso aperto alla città, ne sono
attivi tre, uno per i detenuti in attesa di giudizio, gli altri due per i
“definitivi”. L’altra metà del carcere è in ristrutturazione, e a
lavorarci sono in gran parte proprio i carcerati, «almeno ottanta che
vengono regolarmente pagati, alcuni anche del settore psichiatrico»,
aggiunge Rosania. E per chi vuole c’è anche la band musicale del
cappellano. «Non esageriamo, la strada da fare è ancora lunga».