Repubblica Robinson 4.12.16
Io non ho più paura
Gli
attacchi di panico, la depressione La scrittrice racconta come ha
attraversato “la lunga notte” Grazie a una città e a un incontro
imprevisto
di Simona Vinci
È cominciata con la
paura. Paura delle automobili. Paura dei treni. Paura delle luci troppo
forti. Dei luoghi troppo affollati, di quelli troppo vuoti, di quelli
troppo chiusi e di quelli troppo aperti. Paura dei cinema, dei
supermercati, delle poste, delle banche. Paura degli sconosciuti, paura
dello sguardo degli altri, di ogni altro, paura del contatto fisico,
delle telefonate. Paura di corde, lacci, cinture, scale, pozzi,
coltelli. Di notte l’inferno indossa la maschera peggiore. Di notte,
quando nelle case intorno si spengono tutte le luci, tutte le voci.
Quando sulla strada il fruscio delle automobili e dei camion si
assottiglia e si rarefà. Di notte, il suono dei miei stessi pensieri è
la cosa più forte di tutte: il battito del cuore fuori tempo, il sangue
che raschia sordo dentro le vene ristrette. Di notte arriva la paura
cattiva. Come si fa a definire quella particolare paura — che è non la
paura di qualcosa di reale, concreto, riscontrabile, evidente, ma una
paura irrazionale e pervasiva che fa del corpo, del sistema
cardiocircolatorio, respiratorio e vasomotorio l’epicentro esatto di un
terremoto, l’abisso più nero e infinito — che è l’attacco di ansia e
peggio ancora l’attacco di panico? Sensazione di cadere, di precipitare
in un vuoto infinito, di esplodere, di impazzire, di essere sul punto di
morire. La sensazione somiglia a quella di un infarto, non a caso, la
maggior parte delle persone colpite da attacchi d’ansia o di panico la
prima cosa che fa è chiamare un’ambulanza oppure correre in un pronto
soccorso, convinta di star avendo un infarto o comunque di avere
problemi cardiaci.
Io però non l’ho fatto.
Per molto tempo non ho detto niente a nessuno.
Depressione ansiosa reattiva
La
mattina uscivo e andavo a camminare in mezzo ai camion. Mi sembrava più
facile rischiare davvero un urto mortale, una deflagrazione definitiva.
Le definizioni sono la morte, ma questo abisso spalancato cos’era?
Avevo trentatré anni e non sapevo chi ero. Mettevo la testa sul cuscino
la sera e il sonno non arrivava. No problem in fondo, mi dicevo, hai
sempre avuto problemi d’insonnia, anche da ragazzina, e non te ne sei
mai liberata. Il sonno è abbandono, resa, e tu non sai abbandonarti e
nemmeno arrenderti. Per dormire, da una certa età in avanti, ho sempre
avuto bisogno di un aiuto: goccine, melatonina, erba. Finché l’erba, in
dosi modeste, sbriciolata dentro il tabacco, ed esclusivamente la sera,
prima di dormire, non ha cominciato a farmi venire la nausea,
tachicardia e pensieri angoscianti. Allora ho smesso. E allora è
incominciata. Era astinenza? Impossibile a quelle dosi, forse solo
psicologica, tant’è che non dormivo più. Neanche con le gocce. Il cuore
mi scoppiava nel petto. Me ne fregavo ormai di tutti. Pareti lisce, le
persone, gli occhi, i sentimenti, le storie. La vita era faticosa. E
tutta quella fatica non valeva la pena.
Certi giorni, con quanta
timidezza, splendevo, ma l’ombra era lì. Piano piano, arrivare a non
pensarci, a quell’ombra, a farla svaporare come un alone umido sulla
stoffa, che si asciuga.
Non ci sono riuscita, ho cercato aiuto.
L’ho
fatto prima che fosse troppo tardi, nel momento in cui mi sono resa
conto che l’unica cosa ormai alla quale pensavo davvero era il suicidio.
Ci pensavo costantemente, era il mio unico sollievo: sarei morta, la
sofferenza sarebbe finita.
Quando noi viviamo la morte non c’è,
quando c’è lei, non ci siamo noi. Non è nulla né per i vivi né per i
morti. Per i vivi non c’è, i morti non sono più,
scriveva Epicuro.
Ed era proprio lì che volevo arrivare: a non esserci più. Non so cosa
mi abbia veramente trattenuta, e poi spinta a cercare qualcuno che mi
potesse aiutare, telefonare, prendere un appuntamento e andare. Era una
psicoanalista. Una donna. Non so con esattezza perché non mi sono
rivolta al Centro di Salute Mentale del mio paese, anzi, lo so
benissimo: perché come tanti, tantissimi, provavo vergogna di ciò che mi
stava capitando e non volevo che nessuno lo venisse a sapere. Un
campanello sulla porta di un appartamento privato fa meno paura di un
ambulatorio medico. E poi, paghi, e quel gesto ti rassicura: se paghi
vuol dire che avrai diritto al servizio migliore possibile e non verrai
giudicato e nessuno lo saprà. Se puoi permettertelo, certo. Ho fatto dei
grandi sacrifici in quei sette anni per riuscire a pagarmi le sedute.
Ma il primo anno non succedeva niente. E continuavo a stare male. Ci
vuole del tempo e a me sembrava di non avercelo, quel tempo, ogni giorno
pensavo che volevo morire e mi vergognavo perché non c’era un vero
motivo per cui io dovessi desiderare di morire. Sì, era finita una
storia d’amore, ne era cominciata un’altra, che si era schiantata contro
l’evidenza della sua impossibilità. C’era un lutto, ormai lontano nel
tempo, ma che continuava a ripetersi, per me, ogni singolo giorno,
insieme al senso di colpa che ne derivava. Mangiavo una banana al
giorno. E basta. Volevo essere magra. Prima l’avevo fatto per l’amore
impossibile, perché lui mi voleva così. Ma adesso ero io a decidere che
volevo sparire. Chiesi dei farmaci alla mia dottoressa e lei dopo molte
insistenze mi mandò da uno psichiatra con il quale collaborava. Lo
psichiatra mi dedicò un’ora del suo tempo. Parlammo dell’analisi che
stavo facendo, degli attacchi d’ansia, della paura. Mi guardava
sornione. Alla fine della chiacchierata prese in mano penna e blocco
delle ricette, rimase con la penna sollevata a mezz’aria e mi disse: io
glieli prescrivo anche, gli psicofarmaci, ma lei davvero è pronta
all’eventualità di ingrassare dieci chili in tre mesi? La risposta mi
pare evidente. Uscii da quello studio con un foglietto che prescriveva
compresse di ademetionina per tre cicli di venti giorni e compresse di
integratore multivitaminico. Aveva centrato il punto: stavo già facendo
un percorso di psicoanalisi e il fatto che andassi a tutte le sedute
senza mai saltare già diceva della mia volontà di uscire dallo stato
depressivo nel quale mi trovavo. Certo, la mia era una
—
definizione che riuscii più o meno a strappare alla mia psicoanalista
dopo anni di domande sfiancanti, perché io avevo bisogno di definirmi,
di appiccicarmi un’etichetta, di sapere chi cazzo ero diventata — e quel
tipo di depressione — associata a un lutto o a qualcosa che viene
vissuto come tale e che non si riesce a elaborare — assomiglia un po’
alla ciclotimia: fasi alterne ravvicinate di up e down e possibilità di
fare scelte avventate. Ne ho fatte. Ne ho pagato il prezzo. Ho
continuato ad andare alle sedute. Sono stata fortunata? Credo di sì.
A
un certo punto, dopo meno di un anno di analisi, chiesi e ottenni una
pausa di tre settimane. Nel mese di giugno, un amico giornalista mi
aveva invitata a New York dove stava facendo un corso alla Columbia
University. Aveva un appartamento affacciato sull’Hudson River. Non ero
mai stata a New York, soffrivo di attacchi di panico, stavo seguendo un
percorso di psicoanalisi. Cosa direbbe la logica? Decisi il giorno,
prenotai il biglietto aereo, comprai una scatola di cerotti alla
nicotina e partii per gli Stati Uniti. La mattina dopo il mio arrivo
accompagnai il mio amico a Union Square, doveva andare a lezione e
pensavo vi avrei assistito e sarei tornata indietro insieme a lui.
Invece, dopo un caffè alla Barnes and Nobles, lui mi mise in mano una
card per la metro, una piantina di Manhattan, una scheda telefonica per i
telefoni pubblici (non avevo un cellulare adeguato alla bisogna) e un
foglietto con su scritto l’indirizzo di casa e il suo numero di
telefono. Poi mi fece ciao ciao con la mano e mi disse:
a stasera.
Boom.
Ero in mezzo a una città sconosciuta, LA CITTÀ, i grattacieli erano
enormi, la luce accecante, l’aria condizionata a palla dappertutto, la
gente era grande grossa e con l’aria coriacea ed efficiente, il sistema
toponomastico, per me, un incubo. Presi un bus che si chiamava M1 per
tornare immediatamente a rintanarmi in casa, ma durante il tragitto
successe qualcosa. Stavo seduta con tutti i sensi all’erta per non
sbagliare fermata e intanto sentivo i brividi e pregavo: per favore, fa
che non arrivi adesso, non ora, non ora, ma cominciai a sudare, a
tremare, a sentirmi mancare il respiro, chiusi gli occhi, li riaprii e
mi guardai attorno: guerrieri femmine e maschi, senza paura, determinati
a fendere la vita di slancio mentre io mi disintegravo e diventavo un
pugno di cenere; di fianco a me, a destra, una donna alta e nerissima mi
posò una mano sul braccio, alzai gli occhi a incontrare i suoi.
Mi chiamo Mary, disse, sono un’infermiera.
Era
vero? Vidi che sotto il giubbottino di jeans portava un camice da
ospedale verde, probabilmente aveva finito il turno e si era dimenticata
di toglierlo, oppure aveva fretta, che ne so. Dentro gli occhi enormi
di quella donna io però trovai qualcosa, quell’appiglio che mi sfuggiva
da mesi, anni, qualcosa che non mi avrebbe mai più abbandonata: scoprii
che gli esseri umani possono incontrarsi anche se non si conoscono, che
fidarsi e affidarsi è quasi sempre l’unica cosa sensata da fare. Mi
sciolsi in quel bruno liquido del suo sguardo e le dissi grazie e lei mi
indicò la fermata sulla mappa e mi fece segno quando dovevo scendere e
io scesi e poi arrivai fino al portone del palazzo con il numero giusto,
presi l’ascensore, salii al piano giusto e trovai la porta giusta, me
la chiusi alle spalle e mi lasciai cadere sul divano senza più muovermi
né accendere la luce. Rimasi lì tutto il giorno a guardare l’Hudson
River, fino a sera, in pace con l’universo. Avevo scoperto il trucco, la
magia: non chiudere, ma apri. Non nasconderti, ma mostrati. Non tacere,
ma esprimiti. Se hai paura, chiedi aiuto.
Il giorno dopo, aprii la porta, chiamai l’ascensore, scesi in strada e uscii fuori dal palazzo.
La
storia della mia depressione, e della mia paura non erano finite,
naturalmente — la storia della depressione e quella della paura forse
non finiscono mai del tutto — , ma certamente era cominciato un capitolo
nuovo.
La bibliografia
Tra i libri autobiografici che sono stati
dedicati al tema della paura e della depressione c’è La donna che trema
di Siri Hustvedt (Einaudi). Dopo la morte del padre, la scrittrice tiene
un discorso in suo onore e mentre parla si accorge di tremare. Un testo
molto amato da Oliver Sacks per le domande che pone sul nostro rapporto
con l’angoscia. Andrew Salomon, giornalista del New Yorker e del New
York Times, ha raccontato la sua sofferenza in Il demone di mezzogiorno”
(Mondadori), spiegando il rapporto con i farmaci e con la psicoterapia.
Molto bella l’edizione curata da Bollati Boringhieri del saggio di
Virginia Woolf Sulla malattia.
Dove spiega la difficoltà di
trovare le parole: “Basta che il malato tenti di spiegare a un medico la
sofferenza che ha nella testa perché il linguaggio si prosciughi di
colpo”. Altri suoi scritti sul tema si trovano in Voltando pagina (Il
Saggiatore)