Repubblica Domenicale 4.12.16
La vendetta di Artemisia
È
stata una delle più importanti donne pittrici. Vittima di uno stupro, è
diventata con il tempo un simbolo del femminismo: le sue Giuditte
raccontano molto di più dell’assassinio del nemico Oloferne
di Lea Mattarella
CITTÀ: ROMA LUOGO: PALAZZO BRASCHI INDIRIZZO: PIAZZA NAVONA 2
ORARI: MARTEDÌ- DOMENICA 10- 19; FINO AL 7 MAGGIO PREZZO: 11 EURO (RIDOTTO 9 EURO)
È
considerata l’eroina della pittura per avercela fatta in un mondo
dominato dagli uomini. E con il tempo, è diventata anche un’icona del
femminismo. Artemisia Gentileschi è uno di quegli artisti per i quali è
impossibile compiere una separazione tra arte e vita. Soprattutto perché
tra i suoi capolavori c’è quello della vendicatrice Giuditta intenta a
tagliare la testa a Oloferne che strabuzza gli occhi in primo piano
davanti a noi, mentre lei, un po’ schifata, si allontana perché non le
finisca addosso troppo sangue. Il dipinto conservato al Museo di
Capodimonte a Napoli arriverà il 7 febbraio a Roma, a Palazzo Braschi,
per completare la bella mostra Artemisia Gentileschi e il suo tempo che
raccoglie ben cento opere. Ma in esposizione si può già ammirarne una
seconda versione che arriva dagli Uffizi ed è in migliori condizioni di
conservazione, datata tra il 1620 e il 1621, cioè tre, quattro anni dopo
la prima. La composizione è la stessa. Cambiano solo i colori delle
vesti di Giuditta e della fantesca Abra che tiene ferme le braccia del
condottiero assiro, ucciso dall’eroina biblica. Julia Kristeva, autrice
de La testa senza il corpo, considera il quadro il simbolo della “lotta
contro il potere fallico dell’uomo violentatore”.
Ma è anche la
vendetta personale di Artemisia, che dal 1613 viveva a Firenze dove
frequentava Galileo e dove era stata ammessa, prima donna di tutti i
tempi, a frequentare l’Accademia del Disegno. Portava con sé il trauma
di uno stupro.
Successe a Roma, dov’era nata nel 1593, e dove
presto imparò il mestiere dal padre Orazio: nella stessa bottega
lavorava anche Agostino Tassi che nel 1611 l’aggredisce e la violenta.
Il Gentileschi, pittore di talento ma pessimo padre, denuncia il collega
non per la violenza subita dalla figlia, ma per il rifiuto di sposarla.
Meglio così, per Artemisia che sposò un altro ed ebbe pure un amante al
quale inviava lettere appassionate (aveva anche imparato a scrivere,
cosa — all’epoca — nient’affatto scontata).
Per la Kristeva
tagliare sulla tela la testa a Oloferne/Agostino/Orazio significava una
vera e propria resurrezione: non a caso Artemisia dipinge molte volte la
storia di Giuditta (solo in questa mostra lo stesso soggetto è
declinato ben quattro volte). Nella versione del 1613 la vendetta è già
compiuta, Giuditta e la fantesca Abra portano la testa del nemico in un
cesto. È lo stesso schema della tela del padre che vediamo in mostra, ma
lei rende tutto più drammatico avvicinandosi al soggetto, eliminando lo
spazio intorno.
La rappresentazione diretta della violenza
arriverà dopo, quando Artemisia si allontanerà dall’influenza paterna,
scoprendo il naturalismo di Caravaggio. E tra i pittori caravaggeschi
oggi è forse la più amata. La mostra la mette a confronto anche con
quelli attivi a Napoli, città dove arriverà nel 1630 per morirvi nel
1653: Andrea Vaccaro, Ribera, Francesco Guarino, Filippo Vitale, anche
lui autore di una Giuditta che sgozza Oloferne, un grido rosso che
invade la stanza.
Artemisia è sempre lì, a testa alta fino agli
ultimi anni, quando placa un po’ il furore e acquista una pacatezza più
classicheggiante. Basta confrontare le sue Lucrezie, tema amatissimo,
che inscenano suicidi sempre meno tragici e più teatrali. Come fossero
allontanate dal dolore.