il manifesto 4.12.16
Se vince il No Renzi lascia, per restare
Il
presidente del Consiglio non può che dimettersi in caso di sconfitta,
ma il capo dello stato gli chiederebbe di restare e verificare la
possibilità di cambiare la legge elettorale. Ma a pochi mesi dalle
elezioni un accordo tra i partiti è difficile e si tornerebbe a guardare
alla Corte costituzionale
di Andrea Fabozzi
La
parola fine la stanno scrivendo gli elettori, ma la storia della riforma
costituzionale coincide da quasi tre anni con un’altra storia: quella
delle dimissioni annunciate di Matteo Renzi, in caso di sconfitta al
referendum di oggi. Se vincerà il No, il presidente del Consiglio non
avrà quindi alternative: presenterà le sue dimissioni al presidente
della Repubblica domani stesso. Perché lo ha promesso – più esattamente
minacciato – il giorno esatto in cui ha presentato per la prima volta la
sua bozza di nuova costituzione, il 12 marzo 2014. Era a palazzo Chigi
da appena due settimane e fu molto chiaro: «Se non riesco a portarla a
termine mi dimetto e lascio la politica».
Solo nelle ultime
settimane quell’annuncio si è molto sfumato, per evitare la
«personalizzazione» che i sondaggi hanno indicato come controproducente,
e anche per ascoltare gli inviti del presidente della Repubblica a
rispettare la naturale separazione tra una consultazione referendaria e i
destini del governo. La seconda parte di quella promessa-minaccia,
anzi, si può dire che sia stata ritirata definitivamente. Renzi non
lascerà la politica. Ma proprio per non lasciarla ha bisogno di una via
d’uscita dal No ragionata e accorta. Che comincia con le dimissioni.
1 nel testo mattarella it
La
sconfitta – così come la vittoria dei Sì – sarà in ogni caso di misura,
dunque per Renzi è difficilmente ipotizzabile uno scenario di fuga
dalle responsabilità. Mattarella farà le sue veloci consultazioni e
proverà a chiudere la crisi chiedendo al presidente del Consiglio
dimissionario di verificare in parlamento se ancora esiste una
maggioranza. Che senz’altro esiste, anche perché – consegnato alla
storia il referendum – si riprenderà immediatamente a temere il giudizio
europeo sui conti dell’Italia. Letteralmente dal giorno dopo: domani e
martedì sono infatti in programma a Bruxelles due vertici fondamentali
ai quali parteciperà il ministro Padoan: Eurogruppo ed Ecofin.
La
legge di Bilancio, che ha sollevato qualche dubbio in sede europea (ma
sulla quale non è stato affondato il giudizio proprio per non
danneggiare il governo nel referendum), avrà bisogno di qualche ritocco,
ma dentro la normale dialettica tra le camere. Escluso ogni rischio di
esercizio provvisorio, visto che la manovra c’è e sarà approvata. E da
tempo sappiamo che il giudizio della Unione sugli «squilibri» nei conti
italiani arriverà assieme a quello sugli altri paesi in «terza fascia»,
nella prima parte del 2017.
Renzi per mostrarsi coerente rispetto
al suo impegno ha bisogno che sia una maggioranza a chiedergli di
restare. Non può esserci dubbio che sarà così, visto che già adesso
tutto il suo partito e anche parte dell’opposizione sta dicendo che deve
restare. Se però bersaniani e minoranze vogliono tenerlo a palazzo
Chigi per logorarlo in vista delle elezioni, Renzi tenterà la manovra
opposta. Anche contando sui due appuntamenti importanti in programma
nella primavera del prossimo anno, il 60esimo anniversario dei trattati
di Roma (marzo) e il vertice del G7 (maggio).
La vera difficoltà
sarà però sulla legge elettorale, l’emergenza reale per un governo di
transizione. L’eventuale vittoria dei No scoprirebbe infatti l’azzardo
di Napolitano e Renzi, quello dell’Italicum imposto a prescindere dal
sistema istituzionale nel quale doveva essere inserito. Fare una nuova
legge elettorale diventerà indispensabile, ma anche assai complicato
alla vigilia delle elezioni politiche. Troppi e contrapposti gli
interessi dei partiti, soprattutto nell’imminenza della sfida. Non a
caso la precedente legge elettorale ha resistito dieci anni malgrado gli
evidentissimi difetti: c’è voluto un governo in grado di minacciare lo
scioglimento delle camere per cambiarla, e c’è voluta la fiducia. Al
Renzi-bis non sarebbe data questa possibilità.
I partiti perciò
tornerebbero a guardare alla Corte costituzionale, che prima del
referendum ha rinviato il giudizio sull’Italicum, atteso adesso tra
gennaio e febbraio. I punti sui quali la Consulta è attualmente chiamata
a giudicare (da cinque tribunali), se accolti, consentirebbero una
riscrittura della legge certamente migliorativa, ma in ogni caso non
compatibile con la vittoria del No e dunque con la sopravvivenza del
senato elettivo. Perché l’Italicum è una legge scritta per la sola
camera e il ballottaggio che ne costituisce il cuore non consente che
venga semplicemente estesa anche al senato. Due ballottaggi, infatti,
potrebbero dare due risultati diversi, rendendo il parlamento
ingestibile.
La via d’uscita della Corte costituzionale, allora,
potrebbe essere quella di giudicare L’Italicum incostituzionale nella
sua interezza, vuoi perché approvato con la fiducia (la Costituzione
all’articolo 72 sembra escludere questa possibilità), vuoi perché il
premio di maggioranza grande o grandissimo che sia può essere
considerato comunque illogico in presenza di un’altra camera ugualmente
titolare della fiducia, il senato, da eleggere con il sistema
proporzionale. Si potrebbe tornare, cioè, alla situazione del 2014, con
il Consultellum come punto di caduta. E molto meno tempo per evitare di
caderci.