il manifesto 4.12.16
La posta in gioco della sinistra nel Risiko renziano
di Norma Rangeri
La
fabbrica del referendum ha lavorato per otto mesi, da maggio a
dicembre. Nemmeno l’alambicco di mago Merlino saprebbe distillare un
filtro magico capace di neutralizzare l’iniezione di demagogia e
cialtroneria che è stata prodotta e iniettata nelle vene del paese.
Seppure non è in gioco la democrazia contro la dittatura, è certamente
stata la più brutta campagna elettorale della storia repubblicana.
Oltre
all’enfasi dei comizi, all’occupazione forsennata delle tv, sono scesi
in campo i social network con bufale e previsioni apocalittiche da una
parte e dall’altra.
referendum impatto
Se non fossero in
gioco 47 articoli della Costituzione, potremmo anche prenderlo come un
grande sondaggio sulla penetrazione del populismo in Italia, perché a
confrontarsi, l’uno contro l’altro, seppure con una potenza di fuoco
sbilanciata, sono stati Renzi e Grillo. Un duello tra chi è il leader
più anticasta, tra chi ha la ricetta migliore per rottamare il vecchio
sistema.
Solo che, tra i due, una distinzione dobbiamo pur farla,
non fosse altro per il fatto che un populismo viene dispensato
direttamente dal governo e arriva fin nella nostra buca delle lettere,
l’altro invece combatte dall’opposizione.
Da una parte c’è il
governo che promette di rottamare la casta, dall’altra c’è un movimento
che tiene a bada il suo recinto elettorale assicurando di non diventarlo
mai.
Ad agitare l’alambicco populista contribuisce sicuramente la
forte trasversalità di questo voto. Succede sempre quando la scelta non
va a un partito ma veste i panni semplici di un Sì o un No. In questo
caso orientati da una forte valenza simbolica tra chi vuol cambiare e
chi vuol conservare. Il Sì afferma, il No nega. E una forte corrente
trasversale ha diviso il campo della sinistra dove le ragioni del No
purtroppo spingeranno molti a votare Sì.
Dal caso più eclatante di
Romano Prodi che, dopo aver spiegato perché non si dovrebbe approvare
la riforma, si tura il naso e la vota. Ai casi che ciascuno di noi ha
incontrato in questi mesi, donne e uomini di sinistra che fanno lo
stesso ragionamento prodiano.
Alla base di questo comportamento
c’è la convinzione di togliere la bandiera di una eventuale vittoria del
No a Grillo e alla destra di Berlusconi, Salvini e Meloni.
Ma
questa apparente prova di assennatezza, e non è un trascurabile
dettaglio, sorvola del tutto sul merito della scelta, lasciata sfumare
in lontananza. Così lo schieramento travalica la questione
costituzionale per misurarsi solo con la questione politica.
Il
dilemma dei No che diventano Sì in realtà dovrebbe essere sciolto molto
semplicemente: con il No la sinistra batte un colpo, con il Sì ha tutto
da perdere nel merito e in prospettiva.
Perché il plebiscitarismo renziano si rafforzerebbe, le minoranze interne verrebbero tacitate e accompagnate all’uscita.
Se
la sinistra vuole avere ancora un campo di gioco regolato dalle
garanzie costituzionali, nel parlamento, nel capo dello stato, e nelle
altre istituzioni repubblicane il No garantisce un habitat democratico e
spinge verso una riforma elettorale che torna alle coalizioni. Il
minimo indispensabile.
Cosa accadrà oggi non lo sappiamo anche se
sulla carta i numeri dicono che il No dovrebbe vincere con largo margine
perché somma uno schieramento politico che va da Sel a Fratelli
d’Italia, oltre il 60%. A fronte dell’altro fronte in battaglia dove, in
teoria, Renzi può contare solo su larga parte del Pd oltre a Ncd e
verdiniani. Del resto è stata questa la grancassa risuonata nella
forsennata propaganda, accreditata dai sondaggi e alimentata dalla
televisione.
Ma, oltre alla trasversalità di chi si recherà al
seggio, giocheranno un ruolo importante le astensioni alimentate anche,
se non principalmente, dalla difficoltà di orientarsi nel merito. Quando
al referendum costituzionale del 2006 gli elettori vennero chiamati a
esprimersi sulla riforma di Berlusconi l’astensione fu del 47,6%.
Alla
fine se sarà un testa a testa, e il Sì dovesse prevalere con uno scarto
minimo (magari grazie alla manna dei voti all’estero), Renzi si sentirà
in grado di governare e di replicare il risultato al momento delle
elezioni politiche. Mentre la sconfitta nell’urna referendaria
provocherebbe uno sconquasso anche nel Pd, con il presidente del
consiglio costretto a dimettersi da segretario.
In ogni caso
vittoria o sconfitta di un fronte o dell’altro dipenderà molto dagli
astenuti che ognuno si porta dietro. È questo l’aspetto interessante
perché anche se il quorum non è importante, nel referendum di oggi una
partecipazione inferiore del 50% marcherebbe un ulteriore distacco degli
italiani dalla politica. O da un certo modo di fare politica.