domenica 11 dicembre 2016

Repubblica Robinson 11.12.16
Alberto Mantovani
Immunologo e oncologo di fama mondiale direttore scientifico di Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano)
“Il compito della medicina è rendere sopportabile la nostra dose di infelicità”
intervista di Antonio Gnoli,

L’uomo con cui ci siamo dati appuntamento ha con sé una borsa, un trolley, un portabiti. Veste con eleganza tradizionale. Domani, ma la cosa, quando scrivo, è già accaduta, riceverà il premio “ Roma”, l’ultimo di una serie di riconoscimenti per tutto quello che nel suo lavoro ha svolto nel campo dell’immunologia. È un medico famoso. I suoi lavori scientifici vengono citati e indicati a esempio nel mondo. Ha sessantotto anni, ben portati. Quattro figli. Un congruo numero di nipoti e una moglie che, dal modo in cui la racconta, è una figura un po’ speciale. Nella contingenza originale della vita penso che Alberto Mantovani sia un uomo fortunato e tenace. Ha da poco pubblicato per La Nave di Teseo Non avere paura di sognare, in cui prende forma una riflessione sui sensi riposti di un lavoro che lo assorbe ( molto) ma non lo monopolizza: « Cerco, per quanto posso, di non lasciarmi catturare da una sola sirena. È stata soprattutto mia moglie a mettermi in guardia dal diventare un uomo a una sola dimensione», dice mostrando la parte più duttile del suo carattere.
Perché ha scelto di occuparsi di immunologia?
«Dovrei dirle perché ho scelto di fare il medico. E allora devo tornare a parecchi anni indietro. Liceo al Manzoni di Milano, un professore di fisica e matematica che aveva lavorato, per un po’, con i grandi fisici di via Panisperna a Roma. Fu lui a orientarmi sul sapere scientifico. Presi la maturità pensando di iscrivermi a fisica».
E invece?
«Quell’estate la trascorsi in Inghilterra con una organizzazione di volontariato. Per caso fui destinato a un campo di lavoro nell’ospedale psichiatrico di Oxford. Fu in quelle settimane che decisi di iscrivermi a medicina. Con grande accanimento cominciai a leggere libri di patologia generale. Era come se il corpo umano, fino a quel momento, un’entità familiare ma scontata, prendesse una forma diversa. Si rivestisse di un significato fino ad allora sconosciuto».
E a cosa pensò?
« Pensai che a molta gente fosse toccata in sorte una dose non indifferente di infelicità e che il compito della medicina fosse anche quello di alleviarla e renderla sopportabile».
È un atteggiamento che sfiora il religioso.
«Sebbene non sia credente penso che la medicina riveli qualcosa che chiamerei compassione. Troppe volte ci si dimentica di questo stato d’animo. Troppe volte il medico legittima il proprio mandato con l’autorità del suo sapere più che con la forza del suo cuore».
Con quali conseguenze?
«Per anni il solco tra la nostra classe e quella dei pazienti è sembrato incolmabile. Lasciando un misero retrogusto di superiorità».
C’entra in questa riflessione aver scelto il campo dell’immunologia e anche quello dell’oncologia?
«La sua domanda mi fa pensare che uno dei punti di contatto tra le due specializzazioni riguardi il modo di affrontare la vita nel pericolo. Mi pare evidente perciò che una riflessione comporti non solo la competenza tecnica e il giudizio diagnostico ma altresì la comprensione esistenziale. È un compito per me inderogabile: trattare l’uomo non da semplice oggetto di studio ma da persona».
Dove è nato?
«A Milano, i miei erano di Soragna non lontano da Parma».
Che cosa facevano?
« Erano contadini. Hanno lottato per difendere ciò che avevano conquistato. Mia madre amante dell’opera. E mio padre che leggeva
I miserabili di Victor Hugo. Mi sono care queste immagini».
Cosa le hanno insegnato?
«A non avere paura di sognare, come dice il titolo del mio ultimo libro. Ma anche a tenere ben saldi i piedi per terra».
Un difficile equilibrio.
«Lo so. Ma spero di esserci riuscito abbastanza. Occorre anche saper combattere e sacrificarsi per le cose in cui si crede».
Combattere in che senso?
«Non si ottiene niente né si giunge a una visibilità internazionale senza affrontare le avversità e senza avere la capacità di competere».
Competere è agonismo e competenza. Come ha coniugato i due aspetti?
« Un ricercatore non è un soggetto isolato, la sua credibilità è messa al vaglio dalla comunità scientifica. E dai colleghi. Agonismo significa capacità di lottare per ciò in cui si crede. Competenza è farlo con cognizione e umiltà».
Perché ha scelto di occuparsi di immunologia?
«Il sistema immunitario, insieme al sistema nervoso centrale, forma
le componenti fondamentali della vita di un individuo».
Sono due sistemi che interagiscono?
«Diciamo che hanno punti di contatto e parole in comune».
Per esempio?
« La parola “ riconoscimento”. Il sistema immunitario riconosce se stesso da tutto quello che gli è estraneo. Tanto è vero che tende a rigettare i trapianti. C’è poi la parola “identità” per cui un determinato meccanismo molecolare consente al sistema di rispecchiarsi in se stesso. Un’altra parola chiave è “memoria”».
Una parola che si può declinare in tanti modi.
« Vero. Non intendo memoria della coscienza, ma una specie di “memoria involontaria”».
Viene in mente Proust.
«Le sue “madeleine” ci aiutano a capire il problema. Sostituendo i celebri biscotti con i microbi assistiamo a un risveglio di questa memoria del sistema immunitario. Se faccio un vaccino contro l’epatite B, l’organismo userà questa “memoria” come arma immunitaria».
Come è passato dal sistema immunitario all’oncologia?
« Possiamo immaginare il cancro come un nemico, silenzioso e subdolo, che entra nel sistema immunitario e cerca di distruggerlo».
È un’immagine efficace e terribilmente aggressiva.
«All’inizio è come se le forze in campo si confrontassero all’insaputa dell’individuo. Poi c’è una fase in cui il tumore ha un suo equilibrio ma più passa il tempo e più cresce l’instabilità genetica».
Come in guerra immagino che le strategie siano diverse.
« Fino a una quindicina di anni fa la visione prevalente era tutta concentrata sulla cellula tumorale. Io ho pensato che fosse possibile una strategia differente».
Cioè?
« La nicchia ecologica dove risiede la cellula è altrettanto importante. E questo cambio di prospettiva fa capire che certe cellule apparentemente destinate a combattere il cancro, in realtà lo aiutano».
Come è possibile un tale fraintendimento?
« Non si tratta di un fraintendimento, ma di un cambio di paradigma. A un certo punto nel nostro laboratorio di ricerca ci si è resi conto che l’infiammazione attorno alla cellula ci aiutava a comprendere meglio l’insorgere del tumore e come combatterlo».
Il nemico non era solo la cellula ma anche il microambiente nel quale il tumore proliferava?
«Esattamente. Questa doppia constatazione ha fornito una conferma a una mia intuizione degli anni Settanta: certe cellule che si pensava fossero a difesa dell’organismo, in realtà favorivano la crescita del cancro. Erano dei “poliziotti corrotti”. Questa scoperta fu accolta con scetticismo. C’è voluto del tempo perché fosse accettata».
Quanto conta l’intuizione nella scienza?
« È una componente ineliminabile dell’intelligenza. Le porto un esempio. In laboratorio individuammo una strisciolina nera in un tipo di cellula del sistema immunitario. Per quindici anni non abbiamo capito cosa ci stesse a fare. Poi una studentessa del dottorato ha intuito, insieme a un altro ragazzo, la funzione fondante di questa molecola. L’intuizione non necessariamente è una prerogativa giovanile. Ma posso dire di avere imparato tantissimo dai ragazzi».
Errore, abbaglio, malafede che generi di peccati sono per un medico?
«L’errore ci può stare, in un certo senso anche l’abbaglio. Malafede e cialtroneria sono inammissibili. Peccati mortali. Se trucchi i dati di una ricerca come fai poi a guardarti allo specchio? C’è una responsabilità anche sociale dello scienziato».
E l’arroganza?
« Quando viviamo la scienza come un blocco di certezze e non trasmettiamo l’idea che il suo fascino è nel dubbio, allora è molto facile cadere nell’arroganza. Come pure è arroganza non capire che puoi apprendere dal paziente non solo dalla scienza».
Si è mai sbagliato?
«È successo. Studiando certe particolari cellule chiamate NK (Natural Killer), che colpiscono e distruggono le difese immunitarie, pensai che fossero dei semplici macrofagi mascherati. Fu nel laboratorio di Ron Herberman che mi resi conto che i dati che avevo assunto erano fuorvianti. Ma anche Herberman prese un abbaglio. Pensò che il cancro potesse essere curato con massicce dosi di vitamina C».
Tra le sue priorità cosa c’è al primo posto?
« La famiglia: i miei figli e mia moglie Nicla, maestra elementare con grande buon senso. Una valdese che ha mitigato il mio scetticismo religioso. Poi la professione. Infine le passioni: la montagna e la lettura. Ancora oggi faccio scalate con un amico, una guida sicura».
Si ritiene un bravo alpinista?
« Non lo sono. Ma la montagna mi ha insegnato cosa significa affrontare una parete. C’è la capacità tecnica, c’è la forza di sopportare la fatica, c’è la consapevolezza di quello che puoi fare. Fino a che punto spingerti nel pericolo e quando tornare indietro. E c’è l’altro, l’amico, la guida, con cui decidi tutto questo. L’alpinismo, come la medicina, come la vita. È un fatto di onestà. Con te e con gli altri».