Il Sole Domenica 11.12.13
Louis-Ferdinand Céline (1894–1961)
Irrinunciabile tipaccio
di Ernesto Ferrero
Nelle
«Lettere agli editori» l’autore del «Voyage» dà il meglio e il peggio
di sé. Insulta tutti, consapevole del valore della sua opera, che è
musica «e solo la musica è un messaggio diretto al sistema nervoso»
«Per
quanto sia probabilmente un tipaccio, è di sicuro un grande scrittore».
Siamo nel maggio del 1951, e André Malraux scrive a Gaston Gallimard
offrendosi di fare da tramite con l’Indegno per eccellenza, il dottor
Louis-Ferdinand Destouches, in arte Céline, ricercato dal1’aprile 1945
per «alto tradimento e intelligenza con il nemico», imputazione che
comportava la condanna a morte. Dopo otto anni di prigione e esilio in
Danimarca il reprobo tornava in Francia grazie all’amnistia concessa
agli ex-combattenti della Grande Guerra, dove s’era guadagnato una
medaglia al valore. Malraux coglieva il punto: esecrabile per il suo
antisemitismo, così isterico da risultare autocaricaturale, come
scrittore resta irrinunciabile.
A lui Gallimard pensava
dall’autunno 1947, consigliato da Jean Paulhan, che l’aveva sempre avuto
in stima. Nel 1932 la N.R.F aveva mancato il Viaggio al termine della
notte per pochi giorni, per colpa delle lentezze del lettore d’allora,
Benjamin Crémieux, che nella sua scheda aveva parlato di un «romanzo
comunista contenente episodi di guerra molto ben raccontati». Robert
Denoel era stato più svelto, ed era stato subito scandalo: non tanto per
la virulenza anarcoide del dettato, per il disincanto feroce con cui
inchiodava l’uomo del ’900 alle sue miserie, quanto per le rotture
stilistiche, che si facevano beffe delle scritture perbene da salotto
buono. Era un inaudito jazz metropolitano, percussivo, eseguito su ogni
materiale capace di produrre suono, fatto di slogature sintattiche, di
effrazioni provocatorie, di un parlato che sembrava naturale proprio
perché costruito artificialmente con somma perizia.
Céline ne era
consapevole con una lucidità sbalorditiva. Ne troviamo un’ulteriore
conferma nelle torrenziali Lettere agli editori, amorevolmente curate da
Martina Cardelli per Quodlibet: una vera ghiottoneria per célinofili.
Duecentocinquanta pagine scelte ad hoc da vari volumi, principalmente le
Lettres à la N.R.F. (1931-1961) e Lettres à Pierre Monnier (1948-1952),
in cui il Ferdinand furieux dà il meglio e il peggio di sé. Tre sono le
figure principali dei suoi corrispondenti: il suddetto Denoel, e poi,
morto lui assassinato in circostanze misteriose nel dicembre 1945, la
sua compagna Jean Voilier che aveva preso in mano le redini della casa
(«stronza» e «troia navigata»); l’illustratore Jean Monnier, che editore
non è, ma da quando gli ha reso visita in Danimarca nel 1948 si è
prodigato con dedizione commovente per farlo tornare in patria e
ristampare i suoi capolavori; la Gallimard, nelle persone del patron, di
Paulhan e di Roger Nimier, che negli ultimi anni si farà (molto
abilmente) carico dei rapporti con quell’autore ingovernabile.
Presentando
nel 1932 il dattiloscritto del Viaggio, Céline parlava di una «specie
di sinfonia letteraria», addirittura, «pane per un intero secolo di
letteratura». Si presentava come il «demolitore della porta di quella
camera dove stagnava il romanzo fino al Voyage». Spiegava che il vero
scoglio nei romanzi è la noia e «questa cosa non credo sia noiosa. È un
racconto abbastanza vicino a quello che si ottiene o si dovrebbe
ottenere con la musica. Digressioni in quantità, che a poco a poco
entrano nel tema e alla fine lo fanno cantare come in un componimento
musicale. La cosa può risultare presuntuosa e oltremodo ridicola se il
lavoro è fatto male. Giudicate voi. Per me è fatto bene. È così che io
sento le persone e le cose. Peggio per loro. È un grande affresco, è
populismo lirico, comunismo con l’anima, è licenzioso, dunque vivo.
Crimine, delirio, dostoevskismo, c’è di tutto qui dentro, per istruirsi e
divertirsi».
Si proclama operaio maniacalmente attento al minimo
dettaglio, alla virgola, ai famosi tre puntini di sospensione. «Non
aggiunga una sola sillaba senza avvertirmi», intima a Denoel. Vuole
copertine asciutte, austere, senza fronzoli. Propone rapporti
freddamente professionali, nessuna richiesta di simpatia o complicità:
«Ho in odio tutto ciò che somiglia a intimità, amicizia, cameratismo,
eccetera. È un aspetto della vita che mi disgusta. Mi consideri un
eccellente investimento, nulla di più, nulla di meno».
Da bravo
figlio di bottegai, è convinto che l’editore sia un bieco sfruttatore,
un ricco parassita che vive sulle spalle dell’autore, truffandolo sul
numero delle copie vendute. Contesta ogni rendiconto, chiede fatture ai
tipografi, indaga personalmente. Quando torna a Parigi nel 1951, il
«Gentile Amico» della prima lettera a Gaston lascia il posto a un
diluvio di recriminazioni furibonde, di insulti triviali: gli anticipi
sono ridicoli, i vecchi libri non sono ristampati, quelli nuovi non si
trovano e si vendono poco, non escono recensioni. Gli epiteti che Céline
riserva a Gaston rivaleggiano con quelli di Gadda per Mussolini:
vecchio cioccolataio, imperatore, faraone dei premi letterari, dannata
cassaforte blaterante, maledetto ruffiano, compare Alibi, papa rosso
frocio e gollista, gran nababbo, disastroso salumiere, bandito,
coglionazzo in capo, pagliaccio. Persino Paulhan, che lo ha sempre
difeso e sostenuto, può diventare di volta in volta un povero servo, un
vacanziero, un prousteggiante Landru o un Anemone languido. L’intera
casa editrice è una assurda combriccola di somari presuntuosi, bagnarola
governata da cretini, sabba di falliti, coacervo di microcefali.
I
due compaiono perfino come personaggi caricaturali in D’un chateau
l’autre da loro stessi pubblicato. Gaston è un «sordido salumiere
implacabile, fronte bassa e coglione, che pensa solo ai quattrini».
Paulhan ha la faccia molle a forma di vagina, una bocca da lumaca, è
addirittura coprofilo. E la N.R.F diventa la «Revue Ponctuelle
d’Emmerderie». In una sorta di sogno allucinato i due vengono spappolati
a colpi di remo da Caronte che se li porta via sulla sua barca.
Le
lettere del dopoguerra sono un delirio di recriminazioni, rancori,
vittimismi, paranoie esilaranti. Sartre, che ha appena pubblicato contro
di lui ilpamphlet Ritratto di un antisemita, è un «lurido moccioso con
l’hobby della sbronza», «un teppistello, le sue accuse per quanto
balorde mi portano dritto dritto alla forca. Scrive male ma è un ottimo
delatore». Rivendica astiosamente di essere l’innovatore che poi tutti
hanno copiato, Miller come Gide, Genet (“spaventoso”), Dos Passos,
Faulkner. Attacca gli stessi padri della patria: «Tutti quei romanzi
compreso Balzac mi sembrano imposture, per non parlare di Gide o Proust!
Sono schemi di romanzo per me, resta tutto da fare, l’essenziale, la
resa emotiva! Ma loro opinano, dissertano, moralizzano, massimizzano, e
neanche un briciolo di musica. Solo la musica è un messaggio diretto al
sistema nervoso. Il resto bla-bla. Gente che non ha il fisico per
trasporre emotivamente. Bestie ignoranti, bestie manierate e
alambiccate, sentenzianti. Ma pur sempre bestie, e narcisi.Tutti
contenti dei loro abbozzi di romanzi. Contenti di sé. ...La critica è
fatta apposta per blandire questi impotenti, per lusingarli, consolarli.
Ne farei una carneficina!».
Nel 1949 spiega a Paulhan: «In
letteratura tutto è crollato dopo l’arrivo del cinema, ma gli scrittori
non sembrano averlo previsto, ammesso, nulla di nulla. Ora senza
rendersene conto fabbricano tutti trame di sceneggiature. Anche i
romanzi di Flaubert, Hugo, Loti, Balzac! Allora meglio il cinema, al
romanzo resta un solo spazio: l’emotività diretta. Tutto il resto è
occupato dal film, totalmente! Un tempo (prima del film) si potevano
chiedere al lettore sforzi di immaginazione che oggi rifiuta nel modo
più assoluto». Finchè nel 1955 il povero Paulhan, che aveva sopportato
tutto «con relativa allegria», si stufa e si defila: «Le sue lettere
sono divertenti, come possono esserlo le lettere dei bambini o dei
pazzi. Mi accorgo oltretutto che le sue lettere hanno smesso di
divertirmi. Tutto ciò è ben triste, tutto sommato le volevo bene. Perché
diavolo ha così cattivo carattere?»
Per dieci anni l’insonne
Vociferante incazzoso bombarda Gaston per farsi accogliere nella
Pléiade. Si chiede a «quale gang, quale nucleo, quale sinagoga,
pisciatoio, partito, loggia dovrebbe appartenere» per arrivare a tanto.
Ci riuscirà pochi mesi prima della sua morte, il 1 luglio 1961. Ancora
il giorno prima di accasciarsi sul tavolo di lavoro, detta a Gaston
(ridiventato «caro editore e amico») le condizioni per il romanzo che
appena finito di scrivere, Rigodon, e lo minaccia: se non accetterà le
sue proposte, noleggerà un trattore e andrà a sfondare la porta della
N.R.F in rue Sébastien-Bottin.
Louis-Ferdinand Céline, Lettere agli editori , a cura di Martina Cardelli, Quodlibet, Macerata, pagg. 252, € 19