Corriere 11.12.16
Bob Dylan : «Io come Shakespeare non mi chiedevo se fossi un poeta»
Il Nobel all’Accademia: grazie per aver dato voi una risposta meravigliosa
di Serena Danna
E
alla fine Bob Dylan parlò. Dopo mesi di illazioni, giudizi, scontri sul
conferimento del premio Nobel per la Letteratura al cantautore
americano, Dylan si riappropria del palcoscenico dell’Accademia svedese.
Doveva essere il grande assente della cerimonia di premiazione,
rappresentato dall’amica di sempre Patti Smith che, emozionatissima, ha
cantato A Hard Rain’s A-Gonna Fall . E invece, dopo le lacrime e le
medaglie, Dylan ricompare attraverso un testo — letto durante il
banchetto dall’ambasciatrice americana in Svezia Azita Raji — in cui
finalmente restituisce la sua versione, a partire dai ringraziamenti:
«Essere premiato con il Nobel per la Letteratura è una cosa che non
avrei mai immagino nella mia vita», scrive. Anche perché, fin da
piccolo, si è confrontato con i «giganti della letteratura» — cita
Rudyard Kipling, George Bernard Shaw, Thomas Mann, Pearl Buck, Albert
Camus ed Ernest Hemingway —, dunque essere tra loro «è qualcosa che va
davvero oltre le parole».
È un discorso pieno di empatia verso i
maestri: «Io non so se questi uomini e donne abbiano davvero mai pensato
di poter essere onorati con il Nobel un giorno, tuttavia credo che
chiunque scriva un libro, una poesia o un’opera teatrale, ovunque nel
mondo, custodisca dentro di sé quel segreto, probabilmente così
sotterrato da non sapere neanche se c’è davvero».
Dylan — classe
1941 — dichiara di aver paragonata l’eventualità di vittoria del Nobel a
quelle di andare sulla Luna: «Nell’anno in cui sono nato e in quelli
successivi non c’era praticamente nessuno nel mondo considerato bravo
abbastanza da vincere un Nobel. Così riconosco di essere davvero in una
compagnia scarna».
Il paragone con gli astronauti non è l’unico
del discorso di Dylan e, probabilmente, neanche il più visionario, visto
che per spiegare la sua reazione al premio (e quello che rappresenta)
ricorre a William Shakespeare. Tutto è cominciato il giorno
dell’annuncio: dopo la notizia — «ci ho messo qualche minuto per
realizzare quello che era successo» — l’artista ha iniziato a pensare al
grande autore inglese: «Suppongo che lui si considerasse un
drammaturgo. Probabilmente il pensiero che con il suo lavoro stesse
producendo letteratura non l’ha neanche mai sfiorato. Le sue parole
erano scritte per il palcoscenico. Per essere recitate, non lette.
Mentre scriveva l’ Amleto sono sicuro che pensava a tantissime cose
diverse.“Chi è l’attore giusto per questo ruolo?”, “Come andrò in
scena?” “Voglio davvero ambientarlo in Danimarca?”». Non solo. Di sicuro
— ipotizza Dylan — c’erano anche questioni molto meno nobili: «Ci sono
abbastanza posti a sedere per i miei finanziatori? Come posso recuperare
un teschio umano?». In definitiva, scommette il cantautore, «la cosa
più lontana dalle mente di Shakespeare era domandarsi se stesse facendo
letteratura». Lo sa perché, in fondo, si rispecchia in lui: «Come
Shakespeare, anche io sono spesso occupato nel perseguimento delle mie
imprese creative e alle prese con gli aspetti pratici: “Quali sono i
musicisti migliori per questa canzone?”,“Sto registrando nello studio
giusto?”, “La tonalità è corretta? Queste cose non cambiano mai, neanche
in 400 anni. Mai ho avuto il tempo di chiedermi “le mie canzoni sono
letteratura?”».
Il cantautore — che ringrazia l’Accademia per aver
preso in considerazione seriamente quella domanda e «fornito una
meravigliosa risposta» — ricorda le sue aspirazioni da adolescente:
«Pensavo che magari un giorno le mie canzoni sarebbero passate nei caffè
o nei bar, e più avanti magari in luoghi come il Carnegie Hall o il
London Palladium». E continua: «Se poi mi fossi messo a sognare in
grande, allora forse avrei immaginato di registrarle e quindi di
ascoltarle alla radio. Quello era il grande premio nella mia testa».
Al
di là dei sogni, quello che resta cruciale nel Dylan-pensiero sono le
canzoni, «il centro vitale di ogni cosa che faccio: sembrano aver
trovato un posto nella vita di molte persone attraverso differenti
culture e ne sono grato». Dylan chiude con una confessione: «Come
performer, ho suonato per 50 mila persone e per 50 e posso dirvi che è
più difficile suonare per 50. 50 mila persone formano un’entità unica,
ma non 50. Ogni persona ha un’identità separata, individuale, un mondo
dentro di sé. Possono percepire le cose più chiaramente: la tua onestà e
come si relazione alla profondità del tuo talento. Il fatto che il
Comitato del Nobel sia così piccolo mi fa un certo effetto».
Dal
canto suo, il Comitato ha ribadito, attraverso l’accademico Horace
Engdahl, la convinzione nella scelta di Dylan, spazzando via qualsiasi
dubbio: «Aver riconosciuto la rivoluzione attribuendo a Dylan il Nobel —
ha detto Engdahl — sembrava al momento audace: ora sembra già ovvio».
Perché, quando lui è arrivato «all’improvviso tutta la poesia del mondo è
sembrata anemica, mentre le parole delle canzoni che i suoi colleghi
continuavano a scrivere sembravano come la vecchia polvere da sparo dopo
l’invenzione della dinamite».
A parte il presidente colombiano
Manuel Santos, Nobel per la Pace, che ha definito l’onoreficenza «un
regalo caduto dal cielo» , restano sullo sfondo gli altri premiati: il
biologo Yoshinori Ohsumi; i fisici David Thouless, Duncan Haldane e
Michael Kosterlitz; i chimici Jean-Pierre Sauvage, Sir J. Fraser
Stoddart e Bernard L. Feringa; gli economisti Oliver Hart e Bengt
Holmström. Orgogliosi e discreti nei loro tight scuri con camicia
bianca, come richiesto dal dress code , rigidissimo, hanno pronunciato
la «Nobel Lecture», il discorso di accettazione, e sono tornati al posto
con la medaglia. Ieri sera la scena era tutta per il menestrello
assente.