il manifesto Alias 11-12.16
Il riso di Cicerone tra Aristotele e Freud
«Ridere
nell’antica Roma» di Mary Beard tradotto da Carocci. Un saggio di
metodo e ricerca aperto a diverse ipotesi, anziché il mosaico
storico-ideologico che non riesce a integrare le tessere
di Luigi Spina
Siamo
nell’accampamento di Pompeo, nel 49 a.C., prima della battaglia di
Farsalo. Lucio Domizio Enobarbo promuove a un delicato posto di comando
un uomo inadatto alla guerra, solo perché è mite e saggio. E Cicerone:
«Allora perché non te lo tieni stretto a educare i tuoi figli?». Se,
leggendo l’aneddoto nella Vita di Cicerone di Plutarco, vi è venuto in
mente Massimo Troisi (Le vie del Signore sono finite, 1987): «Da quando
c’è Mussolini i treni sono in orario», dice la signora fascista; e
Camillo/Troisi: «Mica c’era bisogno di farlo capo del governo. Bastava
farlo capostazione no?»; ecco, se avete fatto questa ingenua
comparazione, siete pronti/e per leggere Ridere nell’antica Roma di Mary
Beard (Carocci, pp. 347, € 28,00), traduzione di Anna Maria Paci
dell’originale Laughter in Ancient Rome: On Joking, Tickling, and
Cracking up, 2014 .
Ha scritto di recente Maurizio Bettini:
«Esiste in Inghilterra una figura che l’Italia non possiede: il
classicista in pubblico. Qualcuno cioè che si è guadagnato ascolti,
visibilità, perfino un ruolo di opinione nel proprio paese, perché parla
di Pompei e di Augusto. Questo qualcuno – cioè qualcuna, lei ci
terrebbe a sottolinearlo – è Mary Beard: la storica di Cambridge nota
anche al grande pubblico grazie alla BBC e ai suoi molteplici interventi
sui media. Vorremmo averla in Italia, Mary Beard».
Molto vero: in
quasi ogni pagina del suo libro Mary Beard, come dinanzi a una platea
attenta e interattiva, dà conto al lettore (non necessariamente esperto
di classici o di storia romana) del suo progetto di ricerca e del modo
in cui ha inteso affrontarlo, dichiarando esplicitamente l’obiettivo di
rendere più ingarbugliato, non più ordinato, il tema del libro. Perché
questa sadica attitudine contro un lettore che magari vorrebbe certezze,
ricostruzioni rassicuranti? Perché, quando si mette mano a una lettura
antropologica del mondo antico, bisogna innanzitutto sgombrare il campo
da molte letture precedenti, che si sono accumulate nei secoli divenendo
spesso tradizione autorevole allo stesso livello di quei testi –
letture ‘perfette’ che hanno consegnato al nostro immaginario un mondo
molto spesso non corrispondente a quello reale che si vorrebbe studiare e
descrivere.
Dopo il capitolo introduttivo, che parte dall’analisi
di due testi in cui il riso dei Romani viene rappresentato e descritto
(una pagina dello storico Dione sulla risata soffocata di un senatore
dinanzi all’imperatore Commodo, e una risata teatrale in Terenzio), il
secondo capitolo, «Questioni sul riso, antiche e moderne», affronta le
tre teorie che hanno tentato di connettere riso antico, per così dire, e
riso moderno: la «teoria della superiorità», che vede il riso come
forma di derisione o scherno (con Hobbes come teorico di punta); la
«teoria dell’incongruenza», cioè il riso come reazione all’illogico o
all’inatteso, con Aristotele come capofila, fino a Kant, Bergson e
oltre; infine, la «teoria del sollievo», il riso come liberazione di
energia nervosa o emozione repressa, portata a solidità teorica da
Freud. Teorie-sistema che non riescono a spiegare, secondo Mary Beard,
l’intera dimensione del riso, anche se è comodo individuare padri
fondatori, per esempio la presunta teoria aristotelica del riso e del
comico, per giunta affidata al perduto secondo libro della Poetica: col
risultato che «può essere uno shock tornare ai testi originali e
scoprire cosa sia stato effettivamente scritto e in quale contesto».
Figuriamoci,
allora, che, oltre alla perdita del secondo libro della Poetica, si
debba scontare in futuro anche quella del Motto di spirito di Freud.
Ebbene, «sarebbe interessante immaginare che genere di ricostruzione
verrebbe fuori mettendo insieme le diverse sintesi e citazioni. Io penso
– scrive l’autrice – che sarebbe lontanissimo dall’originale». Con
questa lezione di metodo, cui ho voluto dedicare buona parte della
recensione, il lettore viene, direi felicemente, avvertito che non
troverà ricostruzioni rassicuranti in cui tutto si tenga, come spesso
avviene nei grandi affreschi storico-filologici, quando le tessere del
conosciuto sembrano congiungersi perfettamente nascondendo, in realtà, i
tanti vuoti che si insinuano pesantemente fra di esse, a partire dai
quadri mentali e dalla vita concreta che quei testi presuppongono.
Ai
quattro capitoli della prima parte del libro sono dedicate, appunto,
più che le risposte, le informazioni necessarie a formulare possibili
risposte per domande cruciali, aggravate, si potrebbe dire, dal
combinato disposto dell’aver situato la ricerca nel mondo antico:
«Potremo mai sapere in che modo, e perché, si rideva nell’antichità? E
possiamo farlo, visto che a stento siamo in grado di spiegare perché noi
stessi ridiamo? Esiste qualcosa come il riso dei Romani, distinto, che
so, da quello dei Greci?» (p. 9); «Quanto ci è familiare, o estraneo, il
mondo del passato? Quanto ci è comprensibile?» (p. 65). Ma i primi
quattro capitoli non sono mai teoria pura, discussione astratta di
modelli: in ogni pagina il lettore incontra testi spesso ambigui e
analisi complesse: a partire dal lessico greco e romano del ridere,
molto più articolato il primo, più asciutto il secondo (ridere,
soprattutto, con i suoi composti), comparati con le mille sfumature del
lessico inglese, per esempio, e passando per la valenza sintattica del
ridere (ridere assoluto o ridere di qualcuno); proseguendo col confronto
fra esempi testuali (le parole e le descrizioni, in fin dei conti, sono
il principale campo di indagine dell’antropologia del mondo antico) e
immagini, anch’esse di problematica interpretazione, soprattutto se si
vuole evitare l’universalità delle espressioni facciali cui tenderebbero
«gli etologi, i neuroscienziati più intransigenti e i loro seguaci» (p.
88); dedicando, infine, pagine di ‘complessa chiarezza’, se mi si passa
l’ossimoro, al famoso passo virgiliano (IV ecloga) in cui si delinea un
rapporto comunicativo di riso fra neonato e genitori.
Il riso
romano, capace di trascrivere e influenzare il – più che essere
influenzato dal – riso greco, soprattutto nella fase di intreccio di
culture dell’impero romano, si offre così, nei quattro capitoli della
seconda parte, al lettore, allenato ormai al rifiuto della
semplificazione, attraverso personaggi e testi più o meno noti.
In
primis Cicerone, con le sue riflessioni su riso e oratoria nel De
oratore, riprese e forse sovrainterpretate da Quintiliano; e poi,
imperatori, buffoni, schiavi, per finire col riso delle donne, i mimi e
le facce da animale. Il lettore non avrà che da seguire per molte pagine
la affascinante strategia discorsiva di Mary Beard, vedendo crollare
luoghi comuni a vantaggio di un arricchimento di sorprendenti conoscenze
sul ridere a Roma, nonché sull’assenza o la scarsa rilevanza del
‘sorridere’.
E le barzellette? Come mai ridiamo ancora leggendo
una raccolta di tarda età imperiale (scritta in greco e dalla tradizione
complicata) come il Philogelos, cioè L’amante del riso? Non certo
perché ridiamo ancora come i Romani, ma solo perché, in qualche modo, il
loro riso è entrato nella tradizione che porta fino a noi, con, forse,
continui riadattamenti culturali. Però provate a dire a qualcuno, oggi,
che è ridicolo. Se l’aveste detto a un Romano: ridiculus es, avrebbe
cercato di capire se volevate fargli un complimento (sei uno arguto,
capace di far ridere) o denigrarlo. Differenza non da poco.