Repubblica 9.12.16
La tenaglia che stringe Matteo
di Stefano Folli
COME
è ovvio, la crisi di governo è tutt’altro che risolta, anzi è appena
agli inizi; tuttavia s’intravede un canovaccio e al tempo stesso si
avverte un pericolo. Il canovaccio è stato predisposto da Sergio
Mattarella e prevede che le tensioni si stemperino nei colloqui
riservati e nelle procedure protocollari. A molti gli incontri con
decine di gruppi e gruppetti parlamentari che si godono il loro quarto
d’ora di popolarità nei saloni del Quirinale sembrano una perdita di
tempo; in realtà è il modo tradizionale attraverso cui il sistema scosso
cerca di ritrovare un equilibrio. Di fatto il presidente della
Repubblica è di nuovo al centro della scena e il capo del governo
dimissionario sconta una repentina perdita di potere e d’influenza. Ma è
pur vero che Renzi è fornito di una forte personalità, oltre che di una
natura sospettosa. Non è semplice per lui uscire di scena, prendersi
quella fase di riflessione che gli sarebbe utile per tornare in campo
ritemprato fra qualche mese. D’altro canto si rende conto di quanto sia
arduo e controproducente per lui restare a Palazzo Chigi dopo i proclami
delle scorse settimane, quando era certo che l’annuncio “se perdo me ne
vado” avrebbe spinto gli italiani a votare a suo favore. La
contraddizione in cui Renzi si dibatte è dolorosa. Da un lato, un po’
per convinzione e un po’ per farsi coraggio, sostiene la tesi che il 40
per cento dei Sì rappresenta un plebiscito per lui e per il partito
personale di cui si sente il leader. Dall’altro teme — non a torto — che
lontano da Palazzo Chigi e dalle leve del potere la residua magia del
“renzismo” sia destinata ad appannarsi.
È tentato di dedicarsi al
Pd per distruggere gli oppositori interni e preparare delle liste
perfettamente lealiste, cioè depurate da ogni personaggio scomodo, in
vista delle prossime elezioni che comunque giudica vicine. Ma anche
questo è un indice di inquietudine psicologica: semmai dovrà guardarsi,
all’interno del partito, da coloro che fino a ieri lo applaudivano e
oggi gli hanno già voltato le spalle. In ogni caso è chiaro che egli
vive con ansia crescente la strategia d’attacco dei Cinque Stelle e
della Lega: un conto è difendersi e ribattere colpo su colpo essendo
alla guida del governo; altra cosa è trovarsi a Largo del Nazareno,
impegnato nelle beghe interne, e dover tutelare di malavoglia un governo
che sarà pure “amico”, ma in certi momenti gli sembrerà composto di
usurpatori. Per di più usurpatori che scriveranno la legge elettorale
grazie a qualche accordo con una parte dell’opposizione, a cominciare da
Forza Italia. O che potrebbero affrontare con successo, chissà, lo
psicodramma delle banche: protetti dal mantello del Quirinale che
desidera un governo vero, non fragile e precario, almeno fin quando si
deciderà che la legislatura è davvero finita. Del resto, lasciare
l’esecutivo a Padoan, al fedele Gentiloni e persino al presidente del
Senato Grasso non risolve il problema del logoramento. Al dunque sarà
lui, Renzi, a finire sotto tiro, perché verrà visto dagli avversari e da
una fetta di opinione pubblica come il vero referente del governo,
l’uomo che nell’ombra tira i fili. Magari non sarà vero, magari avrà
dovuto accettare dei compromessi, ma tutto gli sarà messo in conto.
Qui
nasce il pericolo. Per uscire dalle strettoie, il segretario del Pd
darà il via all’attività che più lo elettrizza: la campagna elettorale.
Smanioso di portare il confronto con i Cinque Stelle sul consueto
terreno: “o io o loro”. Questo condannerebbe il paese ad altri sei mesi
di conflitti. In totale, fra referendum e voto politico, sarà oltre un
anno. Una nevrosi che nessun paese ha sperimentato in anni recenti. La
Spagna, ad esempio, è rimasta a lungo senza governo, ma tra un’elezione e
l’altra il paese non subiva traumi quotidiani. D’altra parte,
l’alternativa è quasi inesistente. Non essendo in condizione di rifare
la legge elettorale in Parlamento, dopo l’infortunio dell’Italicum, la
classe politica si arrovella in attesa della Corte costituzionale. Né è
pensabile che l’attuale governo dimissionario resti in carica fino alla
sentenza, alla fine di gennaio, per poi risorgere dalle ceneri come
l’Araba Fenice. La tenaglia in cui è stretto Renzi non si allenterà
tanto facilmente.