mercoledì 7 dicembre 2016

Repubblica 7.12.16
Perché non ci sarà l’urna di Carnevale

NON avremo le elezioni a Carnevale. Mancano le premesse istituzionali, politiche e persino tecniche di uno scioglimento affrettato. Per rendersene conto bisogna guardare a tre soggetti: la Corte costituzionale, il Quirinale e il Pd.
LA CORTE si pronuncerà solo verso la fine di gennaio sulla costituzionalità della legge elettorale. E per quanto la sentenza sia subito applicabile, occorrono tempi non brevi per fissare le procedure e soprattutto rendere meno disomogenei fra loro il modello della Camera e quello del Senato. Inoltre il capo dello Stato sta per cominciare le sue rapide consultazioni volte a rimettere in piedi un governo. Si conoscono già le priorità: rapporto con l’Europa, garanzie sui conti pubblici e capacità di risolvere la crisi delle banche. Tutti insieme questi punti riconducono a una cornice comune: la stabilità. Una stabilità fondata sulla maggioranza parlamentare, finché dimostra di esistere; e ovviamente su un presidente del Consiglio in grado di gestire con competenza i passaggi critici. Ieri l’indice della Borsa di Milano ha avuto sentore che qualcosa si sta sbloccando nel settore bancario e il rialzo è stato perentorio: segno che il pessimismo pre-referendum è superato, benché la soluzione definitiva dei problemi sia lontana. Non a caso si attende un governo nel pieno delle sue funzioni, forte della fiducia del Parlamento.
Terza gamba del tavolo, il Pd. È l’elemento più delicato del quadro. Il segretario del partito, Renzi, si è mosso nei due giorni dopo il voto come se avesse vinto e non perso la consultazione. Certo, ha annunciato le dimissioni da Palazzo Chigi e si è assunto orgogliosamente la responsabilità della sconfitta. Ma subito dopo ha sventolato il vessillo del 40 per cento, affermando che si deve ripartire da quella soglia per cercare la rivincita. Nel Regno Unito Cameron aveva preso il 48 per cento sulla Brexit, ma non ha ritenuto di attribuirsi quel numero come fosse un merito: al contrario, è uscito di scena perché nei referendum conta la vittoria, non le cifre della disfatta. S’intende, di questo è consapevole anche Renzi. Ma in lui ha prevalso il desiderio di restare in campo e di riprendere la battaglia.
Come era prevedibile, l’addio a Palazzo Chigi gli è sembrato, con il passare delle ore, troppo doloroso. Per questo è maturata la suggestione delle elezioni subito, una rivincita immediata per tornare da vincitore. Magari con l’idea di gestire le elezioni da Palazzo Chigi, così da risultare allo stesso tempo dimissionario e in carica “pro tempore”. Sono le tipiche contraddizioni psicologiche dei momenti difficili, quando tutto sembra perduto. Ma Renzi già ieri ha recuperato lucidità. Anche perché solo una parte del Pd lo seguirebbe nella forzatura istituzionale. La Consulta si è già messa di traverso, il Quirinale cerca la stabilità e di sicuro in Europa sono in molti a condividere la cautela di Mattarella. Un’altra divisione dentro il partito sarebbe un rischio per il segretario. E il fatto che al tema delle “elezioni subito” siano contrari non solo la minoranza interna, ma anche un segmento importante della maggioranza come il gruppo di Franceschini, la dice lunga sulle conseguenze del 4 dicembre. Grillo e i Cinque Stelle non sono mai stati in così buona salute e nessuno nel centrosinistra vuole commettere l’errore che potrebbe catapultarli al governo del Paese.
In altri termini, Renzi è ancora il capo ma la coperta del suo potere si è improvvisamente ristretta. Per lui non è ora di nuove sfide, bensì di riflessioni. In ogni caso il leader ferito non può combattere contro i suoi avversari interni e al tempo stesso tentare di condizionare Mattarella circa la composizione e i tempi del nuovo governo. Due fronti sono troppi. Certo, il segretario può aver ragione nel pensare che le elezioni alla scadenza, nel 2018, siano troppo lontane. Ma non gli conviene oggi passare per il destabilizzatore di uno scenario politico-istituzionale che invece ha bisogno di un po’ di serenità dopo mesi di tensioni. Ieri sera è parso che questo argomento avesse fatto breccia, sfociando nella formula del “governo di responsabilità”. Presto ne avremo la controprova. Perché un esecutivo Grasso o Padoan avrà la necessità di raccogliere il consenso convinto, non avaro e a termine, del partito di Renzi.