Repubblica 7.12.16
Tarkovskij
“Fragile e spietato, vi racconto chi era davvero mio padre”
Il grande regista russo moriva trent’anni fa I ricordi del figlio “Grazie a Gorbaciov lo riabbracciai a Parigi”
intervista di Raffaella De Santis
L’anniversario
L’Istituto
Tarkovskij, con la regione Toscana, cura una serie di eventi per i 30
anni dalla morte del regista. Tra questi: la proiezione di Sacrificio il
15 dicembre al Teatro della Compagnia di Firenze e una lettura dal
libro Scolpire il tempo (18 gennaio).
FIRENZE Fuori c’è
una targa di marmo che ricorda che qui Andrej Tarkovskij ha vissuto gli
ultimi anni della sua vita. In questo palazzo storico di via San
Niccolò a Firenze, il grande regista russo ha trascorso il suo esilio,
insieme alla moglie Larisa. Qui ha lavorato al montaggio di
“Sacrificio”, il suo ultimo film, restaurato in occasione dei trent’anni
dalla morte, avvenuta il 29 dicembre 1986. Dentro tutto è rimasto
identico: i mobili di legno scuro, i collage alle pareti e due quadretti
che Parajanov gli mandò dalla prigione. La casa ospita l’Istituto
Tarkovskij, dove è custodito l’archivio: cinquemila documenti cartacei,
tra cui i diari scritti a mano, settemila fotografie, più di mille ore
di video. Ora rischiano di essere sfrattati dal comune. Qui vive oggi il
figlio, che ha 46 anni e si chiama Andrej come il padre. Arriva da
un’altra stanza il suono di un violino. È Natascia Gazzana, la compagna
violinista di Andrej, che esegue una sonata di Ravel.
Andrej, iniziamo dalla fine, dall’esilio di suo padre. Quando vi siete rivisti?
«Una
data indimenticabile: era il 19 gennaio 1986. Avevo sedici anni, non
vedevo i miei genitori da quattro anni. Fu Gorbaciov a concedermi il
permesso di andare a Parigi, dove papà era ricoverato. Aiutò molto un
telegramma di intercessione di Mitterrand».
Suo padre chiese aiuto a tanti politici?
«Scrisse
a Pertini, Andreotti, perfino a Reagan perché facessero pressione sul
regime per ottenere il ricongiungimento familiare. Inutilmente, rimasi
un ostaggio nelle loro mani».
Era un padre ingombrante?
«All’università
mi ero iscritto alla facoltà di fisica e matematica per sfuggire al
confronto. Poi ho capito che non era giusto. Oggi realizzo video e
documentari e con l’Istituto mi dedico alla catalogazione e
pubblicazione dei suoi lavori. Abbiamo da poco ripubblicato Scolpire il
tempo ed è in cantiere un libro di racconti e poesie».
Che educazione ha ricevuto?
«Da
bambino sfogliavo cataloghi d’arte e conoscevo a memoria tutti i passi
della Passione secondo Matteo di Bach. Mio padre mi contagiava con il
suo entusiasmo. Ricordo che dall’Italia mi chiamava ogni giorno. Una
volta mi suggerì di procurarmi Walden di Thoreau. Pensava potesse
aiutarmi a vivere nella solitudine».
Suo nonno paterno Arsenij era un grande poeta.
«Anche
mia nonna scriveva versi. Si erano conosciuti a un concorso letterario.
Mio padre le dedicò Lo specchio. Diceva che grazie a lei aveva scoperto
che cos’è l’amore. Ma la nonna materna invece era una sarta, una donna
concreta e molto saggia. Mio padre l’adorava».
Non deve essere stato facile separarsi dai propri genitori.
«Avevo undici anni ma capivo che era l’unico modo perché mio padre potesse continuare ad esprimere il suo talento».
Quando erano iniziati i problemi con il regime?
«Nel 1966, con Andrej Rublëv.
Un
film profondamente religioso. Fu censurato e il negativo rischiò di
venire sciolto nell’acido. Si salvò grazie all’impegno di molti amici,
tra cui Shostakovic, che ne organizzarono proiezioni private, aiutati da
mia madre Larisa».
Dove si erano conosciuti?
«Sul set di
Rublëv. Fu una passione fatale, erano entrambi sposati, divorziarono per
stare insieme. Mia madre era assistente alla regia ma lasciò tutto
diventando la sua segretaria. Ha sempre cercato di sollevarlo dalle
questioni pratiche per permettergli di creare in pace».
Lo avete molto protetto. Era una persona fragile?
«Era dotato di una straordinaria sensibilità».
Nei giudizi però sapeva essere tagliente. È vero che Bergman lo deluse?
«Ammirava
il suo lavoro. Si incontrarono in Svezia durante le riprese di
Sacrificio. Dopo una conferenza, Bergman uscì senza neanche salutarlo.
Forse gli aveva dato fastidio che Sacrificio fosse ambientato negli
stessi luoghi dei suoi film».
Non risparmiò neanche Solgenitsyn.
«Non le mandava a dire ( ride).
Adorava
però Bresson, Kurosawa e Mizoguchi. Era amico di Antonioni e Tonino
Guerra, con cui lavorò a Nostalghia. Fu lui a regalargli l’amata
polaroid. Era libero, diceva sempre quello che pensava. Quando
Solgenitsyn stroncò Rublëv ci rimase molto male».
Non accettava critiche?
«Solgenitsyn
aveva raccontato di aver preso appunti durante la proiezione, cosa per
mio padre inconcepibile. Per lui l’approccio al cinema doveva essere
emotivo, mai intellettuale».
Eppure il suo cinema è stato accusato di elitarismo.
«I
suoi film riempivano le sale. Conservava le lettere che gli mandavano
gli spettatori. Gente semplice, che considerava più aperta alle
emozioni, alla sua idea di cinema come atto d’amore, preghiera. Ancora
oggi è molto amato. A novembre il Romaeuropa Festival ha presentato il
concerto Music for Solaris di Ben Frost e Daniel Bjarnason, con video di
Brian Eno e l’orchestra di Santa Cecilia».
S’interrompe, indica
un tavolo: «Era seduto lì quando ha detto ai suoi amici di essere
malato. Aveva invitato a cena Krzysztof Zanussi e Franco Terilli. Fu mia
madre a convincerlo a ricoverarsi a Parigi dove c’era l’oncologo Léon
Schwartzenberg, marito dell’attrice Marina Vlady».
Fu un periodo molto duro?
«A
suo modo bello. Papà non parlava mai di morte, pianificava il futuro,
leggeva libri di filosofia russa, tra cui Florenskij e Berdjaev. Ha
continuato fino alla fine ad amare la vita».