Repubblica 7.12.16
Illegali e inquinanti l’inferno di metallo delle acciaierie cinesi
di Angelo Aquaro
PECHINO
È LA condanna del Dragone: fino a quando continuerà a sputare fuoco e
fiamme? E fumo, certo: tanto, troppo, velenosissimo fumo. La Cina si sta
strangolando a partire da qui: dalle fabbriche che il governo promette
di chiudere e invece risorgono come fenici sempre più ingrigite. E
figuriamoci chi trova il coraggio di mettere un tappo alle ciminiere
illegali documentate da Kevin Frayer nel suo viaggio nella Mongolia
Interna. Le sue immagini sono denunce a cielo chiuso: dallo smog e dal
sudore degli operai felici di lavorare in condizioni subumane – pur di
lavorare. È un circolo vizioso: tra chi produce, chi vende e chi compra.
Gli americani e gli europei sostengono che così i cinesi stanno
avvelenando non solo il loro paese ma l’intera economia mondiale: tra
sovrapproduzione e crollo dei prezzi. Nessuno ovviamente è senza
peccato: Donald Trump che accusa i cinesi di dumping è accusato lui
stesso di aver usato l’acciaio made in China a basso costo per elevare
al cielo le sue tower. Pechino promette e non mantiene: entro i prossimi
5 anni abbasseremo la produzione da 150 a 100 milioni. Infatti. I 68,17
milioni di tonnellate prodotti a ottobre sono il 3.9% in più rispetto
all’anno precedente. È vero che il rallentamento dell’economia ha
portato a un abbassamento della produzione nel 2015: la prima volta in
trent’anni. Ma quant’è durato? Dal 5% in meno preventivato ci si avvia a
chiudere l’anno con il 3% in più: merito, o colpa, del boom delle
costruzioni che rischia di portare a una nuova bolla, come ammette anche
Wang Janlin, il capo di Wanda, l’impero immobiliare che ha conquistato
mezza Hollywood. È la condanna del Dragone: la seconda potenza economica
del mondo è fondata sull’acciaio. In tutti i sensi: si spezza ma non si
piega. L’altro giorno Wang Jinnan, responsabile dell’Accademia cinese
per la pianificazione ambientale, ha ammesso che il piano non funziona:
«La regione di Pechino, Tianjin e Hebei è tra quelle più inquinate dal
Nord Africa all’Asia dell’Est», che è un po’ una circonlocuzione
geografica per dire del mondo intero. Come se non lo sapessero le decine
di milioni di abitanti che negli ultimi giorni hanno boccheggiato nelle
60 città in cui è scattato l’allarme. No che non basterebbe soffocare
le acciaierie: Shijiazhuang, la capitale dell’Hebei che vanta – ricorda
il Financial Times – l’equivoco titolo di città più inquinata, ha
provato a dare questa settimana l’ordine di stop temporaneo.
Stessa cosa per le acciaierie di Tangshan. Risultato?
Aumentata la produzione in quelle della Yangtze Valley.
Immaginiamoci
dunque che può succedere nell’inferno documentato dall’obiettivo di
Frayer. Qui vige la legge che non riuscirà a cancellare neanche la
campagna anticorruzione del nuovo Mao Zedong, cioè Xi Jinping, il
presidente ora accusato da Human Rights Watch di usare perfino la
tortura per combattere le mazzette. Ma provateci voi a fermare i
padroncini delle acciaierie della Mongolia: quelle che calano nei
tasconi dei funzionari del partito comunista locale le buste con le
“multe” per non obbedire agli ordini. Sì, come no, chiudiamole le
acciaierie di troppo: e del mezzo milione di operai che finirebbero
sulla strada che ne facciamo? È la condanna del Dragone: continuare a
sputare fuoco e fiamme. Tanto poi da Shijiazhuang a Pechino, passando
per l’Europa e l’America che vogliono imporre i nuovi dazi, ci sarà
sempre qualcuno disposto a ingoiare tutto questo maledettissimo fumo.
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Il
governo promette di chiudere le fabbriche per rispettare gli accordi
internazionali sul clima. Ma i padroni pagano mazzette ai funzionari e
aggirano i controlli
L’autore delle immagini sulle acciaierie della Mongolia Interna è il fotoreporter canadese Kevin Frayer, 43 anni.
Pluripremiato
per i suoi reportage dal Kashmir o dalla Striscia di Gaza, ora fa base a
Pechino, dove, come scrive sul suo sito, vive con la « moglie Janis, il
figlio Jetsun, il cane Uma e tre gatti rifugiati» . Con uno scatto
sulle miniere di carbone cinesi si è aggiudicato il Word Press Photo
2016 nella categoria “ daily life”