Repubblica 7.12.16
Una lezione attuale
Il confronto con l’esito del referendum costituzionale del 2006
di Salvatore Settis
IL
DATO più rilevante nei risultati del 4 dicembre emerge dal confronto
con l’esito del referendum costituzionale del 2006. In ambo i casi il
voto popolare ha respinto una riforma costituzionale assai invasiva (54
articoli modificati nel 2006, 47 nel 2016), approvata a maggioranza
semplice da una coalizione di governo che ostentava sicurezza per bocca
di un premier (allora Berlusconi, ora Renzi) in cerca di un’investitura
plebiscitaria. Le due riforme abortite non sono identiche, ma vicine in
aspetti cruciali (la fiducia riservata alla sola Camera e il nebbioso
ruolo del Senato). Se guardiamo ai numeri, il confronto è
impressionante: nel 2006 i No furono il 61,29%, nel 2016 il 59,25;
quanto ai Sì, si passa dal 38,71% (2006) al 40,05 (2016). Un rapporto di
forze simile, che diventa più significativo se pensiamo che l’affluenza
2016 (68,48%) è molto superiore a quella del 2006 (52,46%): allora
votarono 26 milioni di elettori, oggi ben 32 milioni, in controtendenza
rispetto al crescente astensionismo delle Europee 2014 e delle Regionali
dello stesso anno.
Eppure, dal 2006 ad oggi il paesaggio politico
è completamente cambiato, per l’ascesa dei 5Stelle, la frammentazione
della destra berlusconiana, le fratture di quella che fu la sinistra.
Più affluenza oggi di dieci anni fa, un cambio di generazioni, con
milioni di giovani che votavano per la prima volta a un referendum
costituzionale: eppure, nonostante i mutamenti di scenario, un risultato
sostanzialmente identico, con un No intorno al 60%. Una notevole prova
di stabilità di quel “partito della Costituzione” che rifiuta modifiche
così estese e confuse. Esso è per sua natura un “partito” trasversale,
come lo fu la maggioranza che varò la Costituzione, e che andava da
Croce a De Gasperi, Nenni, Calamandrei, Togliatti. Il messaggio per i
professionisti della politica è chiaro: non si possono, non si devono
fare mai più riforme così estese e con il piccolo margine di una
maggioranza di parte. Nel 2006 e nel 2016, due governi diversissimi
hanno cercato di ripetere il discutibile “miracolo” del referendum 2001,
quando la riforma del Titolo V (17 articoli) fu approvata con il 64% di
Sì contro un No al 36%: ma allora l’affluenza si era fermata al 34% (16
milioni di elettori). Si è visto in seguito che quella riforma, varata
dalle Camere con esiguo margine, era mal fatta; e si è capito che
astenersi in un referendum costituzionale vuol dire rinunciare alla
sovranità popolare, principio supremo dell’articolo 1 della
Costituzione.
Per evitare il ripetersi (sarebbe la terza volta) di
ogni tentativo di forzare la mano cambiando la Costituzione con esigue
maggioranze, la miglior medicina è tornare a un disegno di riforma
costituzionale (nr. 2115), firmato nel 1995 da Sergio Mattarella,
Giorgio Napolitano, Leopoldo Elia, Franco Bassanini. Esso prevedeva di
modificare l’art. 138 Cost. nel senso che ogni riforma della
Costituzione debba sempre essere «approvata da ciascuna Camera a
maggioranza dei due terzi dei suoi componenti», e ciò senza rinunciare
alla possibilità di ricorrere al referendum popolare. Questo l’art. 4;
ma anche gli altri di quella proposta troppo frettolosamente archiviata
sarebbero da rilanciare. L’art. 2 prevedeva che la maggioranza
necessaria per eleggere il Presidente della Repubblica debba sempre
essere dei due terzi dell’assemblea (l’opposto della defunta proposta
Renzi-Boschi, che avrebbe reso possibile l’elezione da parte dei tre
quinti dei votanti, senza computare assenti e astenuti); e che qualora
l’assemblea non riesca ad eleggere il Capo dello Stato «le funzioni di
Presidente della Repubblica sono provvisoriamente assunte dal Presidente
della Corte Costituzionale». L’art. 3, prevedendo situazioni di stallo
nell’elezione da parte del Parlamento dei membri della Consulta di sua
spettanza, prevedeva che dopo tre mesi dalla cessazione di un giudice,
se il Parlamento non riesce a eleggere il successore «vi provvede la
Corte Costituzionale stessa, a maggioranza assoluta dei suoi
componenti». Previsione lungimirante: è fresco il ricordo del lungo
stallo delle nomine alla Corte, finché nel dicembre 2015 si riuscì a
nominare tre giudici dopo ben 30 tentativi falliti.
In quelle
proposte, come si vede, la Corte Costituzionale aveva un ruolo centrale,
e il rafforzamento delle istituzioni passava attraverso un innalzamento
delle maggioranze necessarie per passaggi istituzionali cruciali, come
le riforme costituzionali o l’elezione del Capo dello Stato. In un
momento di incertezza come quello che attraversiamo, quella lezione
dovrebbe tornare di attualità, anche se molti firmatari di quella legge
sembrano essersene dimenticati. La riforma Renzi- Boschi è stata
bocciata, ma fra le sue pesanti eredità resta una cattiva legge
elettorale, l’Italicum, che la Consulta potrebbe condannare tra poche
settimane, e che comunque vale solo per la Camera. Compito urgente del
nuovo governo, chiunque lo presieda, sarà dunque produrre al più presto
una legge elettorale finalmente decorosa, e compatibile (si spera) con
riforme costituzionali come quelle sopra citate. Le prossime elezioni
politiche, anticipate o no, dovranno portare alle Camere deputati e
senatori liberamente eletti dai cittadini e non nominati nel
retrobottega dei partiti. Il referendum da cui veniamo è stato un grande
banco di prova per la democrazia: ma ora è il momento di mostrare, per i
cittadini del No e per quelli del Sì, che sappiamo essere “popolo”
senza essere “populisti”. Che per la maggioranza degli italiani la
definizione di “popolo”, della sua sovranità e dei suoi (dei nostri)
diritti coincide con quella della Costituzione, la sola che abbiamo. Il
“ritorno alla Costituzione” che ha segnato i mesi scorsi e che ha
portato all’esito del referendum mostra che è possibile.