martedì 6 dicembre 2016

Repubblica 6.12.16
La metamorfosi
Da rottamatore a “potente” il premier ha perso la simpatia
Il volo di Stato per andare a sciare, lo scandalo Banca Etruria: scivolate che hanno trasformato la parabola dell’innovatore nel simbolo di una nuova nomenklatura
di Francesco Merlo

AVESSE incontrato se stesso due anni fa, Renzi si sarebbe autorottamato senza pietà. Dalla Smart all’aereo di Stato, dal selfie al fotografo personale, dalla pizza con Blair al “bollito non bollito” di Bottura con Hollande e la Merkel, la sua è infatti la storia di uno spavaldo dell’antipotere che è diventato un potente spavaldo, la parabola del guascone del 2014 («Mi sento come Al Pacino nel film Ogni Maledetta domenica ») che si è gonfiato di boria nel 2016 («Sono cattivo, arrogante e impulsivo»).
Gli spostamenti progressivi del potere hanno dunque trasformato il simpatico giovanotto che sfacciatamente voleva impadronirsi del mondo («Ho l’ambizione smisurata, non lo smentisco ») nel più scorbutico dei vecchi antirenziani che si compiacevano di essere uomini di mondo, «uno di quei polli di batteria» di cui il “renzidiprima” voleva a tutti i costi non rispettare le regole: «Non starò mai alle loro regole, le regole di una generazione che ha già dato tutto quello che poteva dare».
Il “renzidipoi” è invece quello che nel Capodanno del 2015 andò a sciare con la famiglia prendendo l’aereo di Stato sino ad Aosta e poi l’elicottero sino a Courmayeur. Si giustificò così: «Per protocollo di sicurezza», che è lo scudo linguistico di un privilegio. Il renzidiprima, il 18 febbraio 2014, al contrario diceva: «No, guardate, a me la scorta non mi garba, non la voglio, grazie. La mia scorta è la gente ». E tutti a replicargli «ma non si può...». Con la Giulietta bianca era salito al Quirinale e contro “il protocollo di sicurezza” montava sopra i treni: «Non voglio dare al Paese l’impressione di un uomo che una volta al governo cambia status, immagine, stile. Non posso e non voglio passare dalla bicicletta all’auto blu. Io sono di Rignano! ».
Ma ecco la questione amletica: quando quel ragazzo, che sembrava agli italiani simpatico e sanguigno, con quegli incredibili pantaloni attillati e il giubbotto di pelle a chiodo in opposizione ideologica, è diventato anche lui nomenklatura? Si sa, ogni rivoluzione mangia i suoi figli. Ebbene, quando Renzi si è auotomangiato? Quando Renzi ha smesso di fare il Renzi? E ancora: si diventa nomenklatura a poco a poco, oppure a scatti, o la sua era solo demagogia; oppure forse, c’è stato, nei mille giorni del potere, un momento fatale che ha cambiato il renzidiprima nel renzidipoi?
Di sicuro aveva ancora una fame da lupo («A 38 anni sono pronto per fare tutto») il renziediprima quando, il 13 luglio del 2013, andò di nascosto e di mattina presto a trovare la Merkel, che di lui disse: «Questo ragazzo mi incuriosisce». Due anni dopo, il 23 gennaio 2015, con una conferenza stampa napoleonica il renzidipoi esibì la Merkel ai giornalisti nella Galleria dell’Accademia di Firenze ai piedi del David: «Consiglio alla Germania di adottare la legge elettorale che noi abbiamo fatto in 11 mesi». E promise: «Come a Michelangelo era bastato togliere il marmo in eccesso così faremo anche noi con il processo di riforme, toglieremo la burocrazia in eccesso».
E però, ad ogni slittamento dall’immagine di bullo bellimbusto, come il famoso Fonzie televisivo, a quella del boiardo di Stato con busto al Pincio, come La Marmora e Ricasoli, era come se i peli dell’ambiguità italiana si spostassero dalla faccia di D’Alema a quella di Renzi. E oggi il No che lo rottama dimostra che la metafora dei baffi ha traslocato: imago animi vultus. Dunque sono traslocate le ambiguità, le mille trame attribuite, i presunti inciuci, gli affari, le ombre cinesi, il petto gonfio, il mezzo sorriso, persino il passo che da saltellante si è fatto marziale.
E forse il momento fatale, quel momento che tutto riassume e tutto trasforma in Storia, è stato il suicido di Luigino D’Angelo, il 28 novembre del 2015, il sessantottenne pensionato — di sinistra — a cui la Banca Etruria aveva azzerato i risparmi, 110mila euro investiti in spazzatura finanziaria. Renzi non pregò sulla sua tomba, non andò ad abbracciare la vedova, la signora Lidia Di Marcantonio («Solo Berlusconi mi ha mandato un bellissimo telegramma, lo Stato ci ha girato le spalle»). Renzi si chiuse a Palazzo Chigi, e non fece quel che il renzidiprima avrebbe fatto — prima di ubriacarsi con il 41 per cento dei consensi — : carezze economiche e belle parole ai pensionati, la promessa di riformare le banche, non dico i versi di Ezra Pound sull’usura e neppure le metafore di Brecht o gli aforismi di Kraus, o i disegni di Otto Dix, ma le parole di Obama del 2010 contro «gli speculatori banditi»: «Mai più salvataggi a spese dei consumatori». E invece il New Deal del renzidipoi fu… il salvataggio delle banche già fallite.
Ed è passata un’epoca da quando Renzi, giocando con il suo iphone faceva un autoscatto goffo e scriveva “io” sotto una faccia gonfia e nessuna messa a fuoco. Era l’8 settembre del 2014. Confrontate quell’immagine con quell’altra, per esempio, del 29 ottobre del 2016, realizzata dal fotografo personale Tiberio Barchielli. È insieme a Zuckerberg lungo i corridoi di Palazzo Chigi, tra mappamondi e arazzi. Il renzidipoi ama infatti le eccellenze, i cantieri finiti, i nastri da tagliare, i viadotti riedificati a tempo di record e subito richiusi dopo la sua visita.
Era ben più vero e più popolare lo scapestrato che a Firenze, indossando l’elmetto giallo, saliva sulle ruspe, rispetto allo statista in visita alla Ferrrari il 31 agosto 2016, alla Ferrero il 14 settembre 2016, alla Lamborghini e poi alla Philip Morris il 23 settembre 2016, all’Hitachi di Pistoia il 13 ottobre 2016, alla ex Fiat di Cassino il 24 novembre 2016… Ma fotografandolo ormai abitualmente in pose che sanno di pensiero, il bravo Barchielli ce lo mostra nella verità più cruda: il renzidipoi è un personaggio ormai immaginario, il vezzoso involucro del potere, la metamorfosi è compiuta. E forse tutto è cominciato quel giorno a Siracusa, il 5 marzo del 2014, quando — ricordate? — in una scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, Renzi accettò l’accoglienza servile dei bambini che, istruiti dai maestri, gli cantarono “facciamo un salto / battiam le mani / muoviam la testa/ facciam la festa”. Ecco, noi allora intuimmo la metamorfosi. Scrivemmo infatti: «Se fosse stato ancora lo stesso che, appena eletto segretario, scelse come inno “Resta ribelle” dei Negrita, Renzi avrebbe certamente intonato “prendi una chitarra e qualche dose di follia / come una mitraglia sputa fuoco e poesia”. E, con l’incitamento a contestare e a irridere i maestri, avrebbe rifiutato quei miagolii che dai maestri erano stati imposti: “presidente Renzi/ da oggi in poi / ovunque vai / non scordarti di noi”».
Ecco, c’era già il renzidipoi nel renzidiprima, l’evoluzione non fa salti, la metamorfosi è il bruco che non può non farsi farfalla, è l’uomo che non può che farsi scarafaggio. Viene dunque da lontano la sconfitta del renzidipoi. Ma non è la sconfitta dello stil novo “da Dante a Twitter” (che è il suo libro del 2012), ma è semmai il No al twittume che lo circonda, alla petulanza del circoletto social che, per esempio, produsse il ciaone ai tempi del referendum “No trivelle” (17 aprile 2016), la pacchianeria del vincitore renziano che dimostrò di non sapere vincere con quello sbotto di scherno che ricordava le corna di Gassman quando, sulla spider, sorpassava strombazzando.
E però, poiché nella fine c’è sempre la perfezione dell’inizio, l’altro ieri Renzi ha dimostrato di saper perdere, di essere ancora un capo nel Paese dei maggiordomi e dei militanti ossessivi. Domenica notte, con accanto Agnese che lo rendeva elegante, Renzi ha provato che si può vincere perdendo. Sia pure per il tempo di un discorso, il renzidiprima infatti ha avuto la meglio sul renzidipoi.