Repubblica 6.12.16
Il populismo del potere
di Ezio Mauro
LA
 SEMPLIFICAZIONE assoluta della politica è stata inventata da Renzi come
 il post-linguaggio, dopo la fine delle ideologie, delle appartenenze, 
delle distinzioni di campo tra destra e sinistra. Arrivata alla sua 
forma estrema nella logica propria del referendum — la riduzione del 
discorso politico alla scelta basica tra un Sì e un No, senza sfumature —
 quella semplificazione si è imbizzarrita, disarcionando il suo 
cavaliere e gettandolo a terra sconfitto, senza rimedio.
Tutti gli
 elementi della grande semplificazione si erano riuniti in questo 
scontro referendario, e molti li aveva materializzati proprio il 
presidente del Consiglio, incautamente. Una riforma della Costituzione è
 cosa complessa, che va spiegata con pazienza nella sua logica e nella 
tecnica. Qui ha preso l’aspetto di un mezzo colpo d’accetta contro la 
“casta”, con riduzione dei senatori, dei loro stipendi, della loro 
potestà legislativa, senza la costruzione di un paesaggio culturale, 
storico e istituzionale che trasmettesse la sensazione di una 
modernizzazione governata del sistema, di una riforma rispettosa della 
cornice costituzionale, nella quale inserire un principio di innovazione
 coerente.
RENZI ha scommesso sulla voglia di cambiamento degli 
italiani, estenuati dall’inefficienza della macchina politica, 
dall’inefficacia di quella amministrativa e dall’improduttività di 
quella istituzionale. Ha scelto due bersagli grossi e facili, l’alto 
numero dei parlamentari e la rigidità del bicameralismo troppo perfetto.
 Ha pensato di proporsi come l’unico attore del rinnovamento, 
denunciando come conservatori o parrucconi tutti coloro che avanzavano 
riserve e obiezioni, o difendevano la Costituzione. Chiuso in questo 
recinto artificiale perfetto, ha poi esposto la collezione degli 
avversari rivendicandola, orgoglioso del loro numero e incurante della 
somma finale, nella convinzione di avere il popolo con sé.
Attacco
 alla casta, antiparlamentarismo, mozione degli istinti antipolitici: 
sono tutti elementi di un inedito populismo del potere che Renzi ha 
provato a impersonare nel tentativo — o nella tentazione — di disegnarsi
 un doppio profilo di lotta e di governo, usando le armi 
dell’antipolitica per combatterla. Come se il premier dicesse al sistema
 che doveva torcersi per salvarsi, e l’atto stesso del cambiamento 
diventava più importante della sua qualità. Come se fosse semplice 
parlare contemporaneamente la lingua del governo e quella 
dell’opposizione. Come se fosse possibile una dose omeopatica di 
antipolitica nel governo di una democrazia occidentale moderna.
Tutto
 questo ha prodotto una semplificazione simmetrica nelle opposizioni, ma
 ben più radicale ed estrema, perché libera nei linguaggi, nelle 
responsabilità, nelle contraddizioni. In questa raffigurazione del No, 
la riforma è diventata addirittura una prova di colpo di Stato, di gesto
 tirannico, di autoritarismo, mentre era evidente semmai la mancanza di 
autorità del governo, non altro. La mostrificazione di Renzi lo ha 
trasformato in una sorta di nemico del popolo e della democrazia, figlio
 naturale di Berlusconi, mentre è chiaro che il premier ha tutti gli 
altri difetti del mondo, ma nessuna delle quattro anomalie che 
distinguevano il Cavaliere dai leader moderati d’Occidente: il conflitto
 d’interessi, la legislazione
ad personam, lo strapotere economico
 che gli ha consentito di comperare parlamentari a grappoli, lo 
strapotere proprietario del mercato televisivo del consenso.
A 
questo punto è scattata l’ordalia mortale, e il referendum si è 
trasformato in un plebiscito a favore o contro Renzi. E qui c’è il 
peccato capitale del presidente del Consiglio: non aver creduto nella 
politica, ma solo nel rapporto di forza. Non aver capito che l’ordalia 
compiva il miracolo di coalizzare l’incoalizzabile. Non aver compreso 
che solo dando un’anima politica al corpo scomposto della riforma si 
sarebbero selezionati i consensi e i dissensi su un asse riconoscibile e
 trasparente, evitando una sommatoria indistinta. Un discorso 
autenticamente riformista, progressista, sulla necessità di riformare la
 Carta rispettandone forma e sostanza probabilmente avrebbe perso per 
strada Verdini ma avrebbe guadagnato coerenza, selezionando anche nel 
campo del No.
Qui c’è forse il limite maggiore di Renzi. Pensare 
che la politica sia di volta in volta forza, istinto, tecnica e coraggio
 — ciò che certamente è —, ma non cultura. Il referendum è il risultato 
finale di questa visione. Quasi che Renzi avesse rinunciato al tentativo
 più ambizioso e necessario, l’egemonia culturale. Ma senza una base 
culturale la politica non vive di vita propria, bensì di 
rappresentazione. Mima la realtà e non l’impersona. Trasforma se stessa 
in performance, che si consuma mentre si compie, senza lasciare traccia 
dopo lo spettacolo, quando si accendono le luci. Coinvolge il cittadino,
 ma nel ruolo di spettatore seduto in platea, e non di soggetto che 
pretende rappresentanza. Consente e autorizza un immiserimento della 
contro-politica, che abbassa il livello del discorso fino agli stilemi 
della “schiforma”, sostenuta dai “poteri marci”.
Questa debolezza 
culturale e politica si lega con la rinuncia di Renzi a impersonare e 
usare il Pd, accontentandosi di comandarlo. Bisognava spendere tempo e 
impegno — la “grande fatica della democrazia” — per far diventare la 
riforma una conquista ragionevole di tutto il Pd, capace a quel punto di
 sostenerla a testa alta nel Parlamento e nel Paese, come aveva fatto 
con la candidatura di Mattarella al Quirinale. La riforma avrebbe 
trovato così una base materiale, un’anima culturale e un’identità 
politica, diventando espressione matura e condivisa di una sinistra di 
governo, non di un singolo contro tutti. Naturalmente questo avrebbe 
dato un “colore” alla riforma, il colore del riformismo. Ma avrebbe 
anche dato un destino di leadership compiuta a Renzi e di responsabilità
 coerente alla sinistra interna, che oggi compie invece il gesto 
contronatura di chi applaude la caduta del proprio governo: ancora una 
volta, e senza sapere se e quando ce ne sarà mai un altro.
Alla 
fine, dunque, Renzi cade su un problema di identità, inseguendo il tutto
 e rinunciando a impersonare la parte che gli si è affidata. È una 
mentalità eternamente minoritaria (titanica e minoritaria insieme), che 
abbiamo già visto in altri leader incapaci di rivestirsi della maestà di
 una storia comune, accontentandosi di controllarla. Pesa in questo la 
dannazione fratricida della sinistra, la sua vocazione cannibale con la 
delegittimazione permanente del leader da parte della minoranza interna.
 Ma pesa anche la convinzione che i partiti siano strumenti del 
Novecento, senza tradizioni e radici, quindi impersonabili a piacere dal
 leader del momento, come vestiti che si cambiano quando cambia la 
stagione. In questo disancoramento dalla storia e dalla cultura la 
politica vive di fiammate estemporanee, nascono gli innamoramenti per un
 leader subitanei ma senza radici, cresce all’improvviso il disamore, 
quando si gonfia l’onda delle promesse mancate, del risentimento 
sociale, della solitudine dei non rappresentati, della crisi più forte 
di ogni sovranità democratica.
Al fondo c’è il grande errore della
 post-politica, la convinzione che destra e sinistra siano categorie 
superate che non servono più per leggere il mondo e per rappresentarlo. 
Come se Trump e i populismi di casa nostra non fossero destra reale — 
anzi, realizzata — nei linguaggi, nei disegni, nei programmi, nella 
cultura. Nell’età del trumpismo, di Salvini e di Grillo ci sarebbe 
bisogno di una sinistra di governo moderna, occidentale, europea, 
finalmente risolta invece di inseguire l’indistinto, che è un campo 
vasto, ma non ha un’anima. E la politica, come un buon diavolo, fa 
commercio di anime: senza le quali, come dimostra il referendum, va a 
fondo.
 
