Corriere 6.12.16
Le cinque ragioni di una sconfitta
di Ernesto Galli della Loggia
La
personalizzazione controproducente, certo; e poi l’eccessiva invadenza
mediatica; poi ancora il fatto di avere contro 4/5 dei partiti del Paese
e perfino buona parte del suo: tutto vero, sicché sembra essercene
abbastanza per spiegare la sconfitta di Matteo Renzi al referendum di
domenica.
Invece non basta, credo. In quel risultato c’è
qualcos’altro. Le sue proporzioni rovinose manifestano qualcosa di più:
un rifiuto profondo che via via ha preso corpo nei confronti della
personalità stessa dell’ormai ex presidente del Consiglio, il rigetto
della sua proposta in un certo senso «a prescindere», la crescita di
un’insofferenza radicale per la sua immagine e il suo discorso.
L o
dirò molto alla buona: il risultato del referendum più che mostrare la
devozione degli italiani al testo della Costituzione indica che alla
maggioranza di essi Matteo Renzi era ormai diventato insopportabilmente
antipatico. «Poco convincente», se si preferisce un termine
politologicamente più nobile.
Eppure Matteo Renzi non è mai stato
il giovane Achille Starace, anche se in tutte queste settimane i suoi
avversari di sinistra e di destra — uniti in un lodevole afflato di
impegno antifascista — si sono sforzati di dipingerlo in qualcosa di
simile a un pericolo per la democrazia e di descrivere la sua riforma
come la potenziale anticamera di una dittatura. Invece, particolarmente
oggi, nel giorno della sua sconfitta, sarebbe più che ingeneroso
spregevole dimenticare le non poche buone leggi che il suo governo ha
promosso, l’impulso dinamico che ha cercato d’imprimere in certi settori
dell’amministrazione pubblica, la sua continua insistenza sulla
necessità di svecchiare, sveltire, semplificare. Ma perché allora il
risultato così negativo di domenica, perché l’ondata di antipatia e di
avversione che ha travolto Renzi? Per effetto dei suoi errori,
naturalmente, che hanno oscurato tutto il resto. Ecco un elenco
disordinato di quelli che specie sul piano della comunicazione e
dell’immagine, ma non solo, mi sembrano essere stati i più gravi.
1)
Il profluvio dell’ottimismo, degli annunci sull’uscita dal tunnel, del
«ce la stiamo facendo», «ecco ormai ce l’abbiamo fatta». Ai tanti
italiani che viceversa se la passano tuttora male, talvolta malissimo e
senza speranza, sentirsi dire che invece e contrariamente alla loro
esperienza quotidiana le cose si stavano mettendo bene, deve essere
suonata come una beffa e deve aver provocato un effetto di esclusione e
di immeritata colpevolizzazione. Specie al Sud — verso il cui declino
storico la comprensione politico-intellettuale e la personale empatia di
Renzi non sono riusciti a mostrarsi se non eguali pressoché allo zero —
l’effetto è stato catastrofico.
2) A una conferenza stampa o a
una riunione di responsabili acquisti di una catena di supermercati si
può comunicare all’uditorio attraverso le slide : a una massa di
cittadini elettori no. Di un discorso complesso la gente comune può
capire spesso la metà, ma capisce che se le si rivolge in quel modo
significa che la si tiene in considerazione, che la si ritiene
importante. Renzi non ha mai parlato al Paese in modo «alto» ed
«eloquente»: starei per dire in modo «serio». La sola cifra di serietà
del suo discorso è stata solitamente quella del sarcasmo: non proprio
l’ideale, come si capisce, per suscitare simpatia. Per il resto la sua
irresistibile propensione al tono leggero e alla battuta ne hanno
inevitabilmente diminuito la statura politica.
3) La mancanza di
posizioni critiche vere, argomentate e conseguenti di qualunque tipo
verso le élite del potere che non fossero le élite politico-parlamentari
o mediatiche italiane. In un’epoca invece nella quale — almeno a mio
giudizio con più di un fondamento — è largamente diffuso un sentimento
opposto, questo orientamento di Renzi non gli ha procurato alcuna
simpatia. Che a mia memoria al capo del nostro governo non sia mai
uscita di bocca un’espressione di censura verso i dirigenti
dell’inefficiente e per più versi marcio mondo bancario o verso la
Consob, responsabili della rovina di decine di migliaia di cittadini
italiani, è apparso quanto mai significativo. Egualmente significativo,
per esempio, che per tanto tempo egli non sia mai andato al di là delle
battute circa il modo spudorato con cui l’Unione Europea si stava
comportando con l’Italia a proposito della questione dei migranti. Cose
come queste hanno allontanato Renzi dal modo d’essere e di sentire
prevalente nel Paese. La sintonia con il quale non credo che sia stata
di molto accresciuta dalla sua frequentazione intensa, a tratti si
sarebbe detta compulsiva, con gli ambienti dell’industria e della
finanza.
4) La politica dei bonus: dagli 80 euro ai lavoratori
dipendenti, ai 500 euro a insegnanti e neo-diciottenni. Personalmente,
così come dubito che i primi siano stati cruciali per il successo di
Renzi alle Europee del 2014, invece sono sicuro che tanto i primi che i
secondi non siano serviti ad aggiungergli il minimo consenso domenica
scorsa. Il fatto è che l’attribuzione di tali somme (con quel termine
«bonus», degno della pubblicità di un casinò volta ad attrarre clienti
alle slot machine ) è stata sentita probabilmente non già come il
riconoscimento di un compenso atteso e meritato quanto, più che altro,
come l’elargizione di una mancia umiliante, concessa per acquistarsi il
buon volere e la gratitudine del «beneficato». È facile immaginare la
popolarità derivatane al «benefattore».
5) Il tratto marcato di
«consorteria toscana» che Matteo Renzi non ha esitato a dare all’intera,
vasta cerchia dei suoi collaboratori. È ovvio come ciò lo abbia fatto
percepire dal resto del Paese come murato in una posizione «chiusa», non
disposta ad accogliere e a colloquiare con apporti diversi. Si aggiunga
il carattere non proprio di rango di un gran numero di tali
collaboratori, così come dei tanti nominati in una miriade di posti:
troppo spesso scelti con ogni evidenza più che per i loro meriti per la
loro sicura fedeltà (vedi il caso, esemplare tra i tanti, per il
risultato grigissimo verificabile quotidianamente da tutti 24 ore su 24,
dei vertici Rai).