Repubblica 6.12.16
L’Italia senza leader
Manca un premier e pure un nemico
Sei
italiani su dieci hanno votato contro Renzi, che puntando sull’elemento
personale ha perso soprattutto fra i giovani e nel Sud
In Umbria e
Marche, regioni per tradizione “rosse” il No è apparso ovunque
maggioritario C’è da attendersi una stagione non breve di instabilità
politica Dai dati elaborati da Demos&Pi il seguito attribuito al
presidente del Consiglio si è ridotto Gli sono rimaste fedeli una
decina di province all’incrocio fra l’Emilia Romagna e la Toscana
di Ilvio Diamanti
Il
referendum costituzionale, alla fine, si è tradotto in un referendum su
Renzi, secondo le intenzioni dello stesso premier. Ma il risultato ha
travolto anche lui, insieme alla riforma costituzionale. D’altronde, è
una questione di “misure”. E la “misura” assunta dal No è al di là di
ogni aspettiva.
I sondaggi, questa volta, non hanno sbagliato,
sull’esito. Ma, appunto, sulle “misure”. Infatti, tutti i principali
istituti demoscopici avevano previsto il successo del No, segnalando,
però, un’ampia area di incerti, che avrebbe potuto rendere possibile
perfino il sorpasso del Sì. Invece, il No si è imposto nettamente. E ha
prodotto conseguenze immediate, anzitutto sul governo. D’altronde, 6
italiani su 10 hanno votato contro la riforma, ma, anzitutto, contro
Renzi. Troppi per non provocare le dimissioni immediate del Premier.
Puntualmente rassegnate un’ora dopo la chiusura delle urne. Perché il
significato “politico” del voto è indubbio. Sottolineato, anzitutto,
dall’ampiezza della partecipazione elettorale. Quasi il 70%, in ambito
nazionale. Molto più elevata rispetto ai precedenti referendum
costituzionali. Infatti, nel 2001 l’affluenza si era fermata al 34%,
mentre nel 2006 era, comunque, distante dal livello raggiunto in questa
occasione: 54%. Così è probabile, come si era già osservato, che il Sì
abbia intercettato il consenso di larga parte degli elettori del PD.
Anche se non di tutti. Nel complesso, intorno all’85%. Più di quanto
venga rilevato dall’Istituto Cattaneo, che però utilizza un metodo
diverso e fa riferimento al voto in alcune città alle elezioni politiche
del 2013. Mentre il sondaggio condotto domenica da Quorum per Sky offre
stime coerenti con il nostro.
D’altronde, è indubbio che questo
referendum abbia ulteriormente marcato l’impronta “personale” del PD.
Convertendolo, in modo deciso e decisivo, nel PdR. Il Partito di Renzi.
Che ora potrebbe indebolirsi, se non destrutturarsi. Producendo una
nuova svolta rispetto alla tradizione e alla geografia elettorale del
dopoguerra. Quando la DC, prima, e il Centro-destra Forza-leghista (come
lo definì Edmondo Berselli), poi, apparivano radicati nel Nord Est e
nella provincia del Nord. Mentre la Sinistra delineava una sorta di
“Lega di Centro”, ancorata nei territori della (cosiddetta) “zona
rossa”. Ma il M5s, alle elezioni politiche del 2013, e il PdR, alle
europee del 2014, hanno assunto una distribuzione “nazionale” dei
consensi. In questa occasione, però, la storia “regionale” del voto, in
Italia, sembra riemergere (come ha osservato Antonio Gesualdi). Visto
che le poche province dove ha prevalso il Sì sono, appunto, localizzate
“al centro” dell’antica zona rossa. Al centro del Centro. Soprattutto in
Toscana. Perché, come ha rilevato ancora l’Istituto Cattaneo, “alla
mobilitazione degli elettori per il No si è sommata una relativamente
maggiore mobilitazione degli elettori per il Sì”.
Eppure anche in
questo caso il segno del cambiamento si conferma. Anzitutto, perché la
base fedele alle indicazioni di Renzi appare ridotta. Al “cuore rosso”
(come lo ha definito Francesco Ramella) della zona rossa. Nel complesso:
una decina di province all’incrocio fra Emilia Romagna e Toscana.
Mentre in Umbria e nelle Marche - le altre “regioni rosse” - il No
appare dovunque maggioritario. Come, peraltro, in altre importanti
province toscane: Grosseto, Livorno, Lucca, Massa Carrara. E dell’Emilia
Romagna: Ferrara, Parma, Rimini, Piacenza.
Così oggi il PdR
appare minoritario. Fra gli elettori e ancor più sul piano territoriale.
D’altronde, il grado di fiducia nei confronti di Renzi, rilevato da
Demos due settimane fa, coincide con il risultato raggiunto dal Sì: 41%.
Pressoché uguale il dato relativo alla fiducia nel governo. Una
coincidenza, forse, casuale. Ma non troppo. Soprattutto se riproduce –
in diversa misura – la distribuzione territoriale: del voto e
dell’affluenza. Elevata nel Centro-Nord. Bassa nel Mezzogiorno. Dove la
differenza rispetto alle europee del 2014, il momento di maggiore
affermazione per il PD e per Renzi, appare molto ampia. Segno evidente
del significato attribuito al voto da alcuni ambienti (in)sofferenti
verso il Premier e il suo governo. Il Mezzogiorno, appunto. Scosso dalla
crisi. Ma anche i giovani. I più convinti del significato (anti)
“personale” del referendum. I giovani: in cerca di futuro. In fuga
dall’Italia.
Questi appunti segnalano i problemi “politici” incombenti.
Per
il PD e per Renzi anzitutto. Dunque, per il PdR. Che è stato sconfitto e
dubito che possa “riprodursi” com’è adesso. Ma difficilmente potrà,
comunque, tornare ad essere il PD. Cioè, il partito di prima. Perché,
ormai, è un “Partito del Capo”, inserito in una “Democrazia del Leader”
(per echeggiare le formule coniate da Fabio Bordignon e Mauro Calise).
Ma non è chiaro chi e come lo possa “soccorrere”. Mentre non si vedono
altri leader, altri Capi credibili, nel PD. E fuori. Dopo Renzi. Oltre a
Renzi.
Le altre forze politiche dovranno, a loro volta, trovare
una missione. Autonoma. Oltre l’antipolitica, interpretata e
intercettata – con efficacia - dal M5s. Oltre il berlusconismo senza
Berlusconi, tentato senza convinzione da Forza Italia. Mentre la Ligue
Nationale di Salvini dovrà, infine, sperimentare la propria reale
capacità di attrazione “oltre i confini del Nord” e del Nordismo. Per
candidarsi alla leadership della Destra. E del Paese. Tuttavia, nel
Fronte del No, non è possibile individuare nuovi motivi di “coalizione”,
dopo il referendum. Oltre l’antirenzismo.
È, dunque, lecito
attendersi una stagione - non breve – di instabilità. Perché questo
Paese, oggi, appare senza leadership. Senza colori. E senza Un Nemico.
Ma con un Bicameralismo e con un Senato solidi. Destinati a durare a lungo.