Repubblica 6.12.16
L’energia civica che batte l’apatia
di Michele Ainis
ABBIAMO
votato, certo; ma per cosa? Il giorno dopo, non lo sappiamo più.
Giacché i politici si sono trasformati in politologi, inondandoci
d’elucubrazioni contrastanti. Dicono che questo referendum abbia
sconfessato le politiche economiche e fiscali del governo. Che sia
servito a esprimere il disagio dei giovani come dei meridionali, ossia
le due fasce sociali dove il No risulta quasi unanime. Che rappresenti
l’ultima puntata (dopo Brexit e Trump) della rivolta contro
l’establishment. Che segnali un’allerta rispetto agli immigrati. Che
infine valga come una mozione di sfiducia verso il presidente del
Consiglio, come una disapprovazione radicale di tutto il suo operato;
tanto che lui si è dimesso su due piedi.
Calma e gesso, per
favore. L’oggetto del quesito non era il (cattivo) carattere di Renzi,
né il nostro rapporto con l’Europa. Era la Costituzione, tutto qui.
Cambiarla o conservarla. E suona un po’ paradossale la lettura che
interpreta il successo del No come un voto di protesta: chi protesta
vuol modificare l’esistente, in questo caso viceversa l’ha salvato. Poi,
certo, ogni referendum trascende il suo specifico argomento, perché si
gonfia nelle urne, si carica di significati evocativi; dopotutto, la
seconda Repubblica fu battezzata (nel 1991) dal referendum sulla
preferenza unica, cioè su un dettaglio della legge elettorale. Però il
quesito conta, mica si può ignorarlo. Altrimenti ignoreremmo la lezione
che ci impartisce ciascun voto popolare. Specie in quest’ultima vicenda,
dov’era in gioco la qualità della nostra vita democratica. E dove le
lezioni, a conti fatti, sono almeno un paio.
Primo: l’affluenza.
Coinvolge il 69% del corpo elettorale, superando di gran lunga il dato
dei due precedenti referendum costituzionali (34% nel 2001, 52% nel
2006) e surclassando l’indice di partecipazione all’ultimo referendum
abrogativo, quello dello scorso aprile sulle trivellazioni in mare
(31%). Significa che l’apatia elettorale di cui continuamente si
discetta non è un dato permanente: dipende dall’argomento, non dal
sentimento. Significa altresì che in Italia circola un’energia civica,
un senso d’affezione verso le sorti della democrazia. Vuol dire che dopo
settant’anni la Costituzione ancora ci mobilita, ancora ci nobilita. E
che siamo assai meno divisi di quanto si temesse alla vigilia di questo
referendum. Perché ci unisce, quantomeno, l’interesse verso le regole di
fondo della nostra convivenza. Mentre l’esito del voto rinvigorisce la
Costituzione, ma al contempo rivitalizza il referendum, come istituto,
come strumento di democrazia diretta.
Secondo: le riforme. Non è
vero che ormai siano un capitolo chiuso, non è vero che la nostra Carta
rimarrà inalterata per tutti i secoli a venire. Non è affatto questa la
lezione della storia, dato che negli ultimi trent’anni ne abbiamo
modificato 35 articoli, un quarto del totale. Nello stesso lasso di
tempo, tuttavia, sono saltate per aria 3 Bicamerali, mentre 2
maxiriforme hanno incassato un niet dagli elettori (nel 2006 e nel
2016). Per quale ragione? Perché i grandi rivolgimenti costituzionali
nascono da un vissuto comune, da un’esperienza affratellante che
permette di colmare divisioni politiche e fratture culturali. Come negli
Usa dopo la guerra d’indipendenza, come in Italia dopo la Resistenza
antifascista. Il regime, infatti, aprì le sue prigioni per Gramsci e per
Pertini, ma anche per De Gasperi. E don Sturzo sperimentò l’esilio non
meno di Togliatti. Da qui il soprassalto d’unità dal quale germinò la
Carta del 1947.
Questa medesima unità è adesso replicabile
soltanto su interventi chirurgici, puntuali. Su ammodernamenti
progressivi, senza pretendere di riscrivere in un amen l’universo. Come
d’altronde impone la logica dell’articolo 138 della Costituzione, e come
in quest’ultima riforma avrebbe suggerito qualche grammo di prudenza.
Senza la sciagurata decisione di tenere tutti i pesci in un’unica rete,
senza l’avversione verso lo spacchettamento del quesito, magari oggi
avremmo potuto cel