il manifesto 6.12.16
La spesa militare
Il referendum che nessuno fa mai
L'arte della guerra. No alla «riforma» bellicista
di Manlio Dinucci
La
maggioranza degli italiani, sfidando i poteri forti schierati con
Renzi, ha sventato il suo piano di riforma anticostituzionale.
Ma
perché ciò possa aprire una nuova via al paese, occorre un altro
fondamentale No: quello alla «riforma» bellicista che ha scardinato
l’Articolo 11, uno dei pilastri basilari della nostra Costituzione.
Le
scelte economiche e politiche interne, tipo quelle del governo Renzi
bocciate dalla maggioranza degli italiani, sono infatti
indissolubilmente legate a quelle di politica estera e militare. Le une
sono funzionali alle altre.
Quando giustamente ci si propone di
aumentare la spesa sociale, non si può ignorare che l’Italia brucia
nella spesa militare 55 milioni di euro al giorno (cifra fornita dalla
Nato, in realtà più alta).
Quando giustamente si chiede che i
cittadini abbiano voce nella politica interna, non si può ignorare che
essi non hanno alcuna voce nella politica estera, che continua ad essere
orientata verso la guerra.
Mentre era in corso la campagna
referendaria, è passato sotto quasi totale silenzio l’annuncio fatto
agli inizi di novembre dall’ammiraglio Backer della U.S. Navy: «La
stazione terrestre del Muos a Niscemi, che copre gran parte dell’Europa e
dell’Africa, è operativa».
Realizzata dalla General Dymanics –
gigante Usa dell’industria bellica, con fatturato annuo di 30 miliardi
di dollari – quella di Niscemi è una delle quattro stazioni terrestri
Muos (le altre sono in Virginia, nelle Hawaii e in Australia). Tramite i
satelliti della Lockheed Martin – altro gigante Usa dell’industria
bellica con 45 miliardi di fatturato – il Muos collega alla rete di
comando del Pentagono sottomarini e navi da guerra, cacciabombardieri e
droni, veicoli militari e reparti terrestri in movimento, in qualsiasi
parte del mondo si trovino.
L’entrata in operatività della
stazione Muos di Niscemi potenzia la funzione dell’Italia quale
trampolino di lancio delle operazioni militari Usa/Nato verso Sud e
verso Est, nel momento in cui gli Usa si preparano a installare sul
nostro territorio le nuove bombe nucleari B61-12.
Passato sotto
quasi totale silenzio, durante la campagna referendaria, anche il «piano
per la difesa europea» presentato da Federica Mogherini: esso prevede
l’impiego di gruppi di battaglia, dispiegabili entro dieci giorni fino a
6 mila km dall’Europa. Il maggiore, di cui l’Italia è «nazione guida»,
ha effettuato, nella seconda metà di novembre, l’esercitazione «European
Wind 2016» in provincia di Udine. Vi hanno partecipato 1500 soldati di
Italia, Austria, Croazia, Slovenia e Ungheria, con un centinaio di mezzi
blindati e molti elicotteri. Il gruppo di battaglia a guida italiana,
di cui è stata certificata la piena capacità operativa, è pronto ad
essere dispiegato già da gennaio in «aree di crisi» soprattutto
nell’Europa orientale.
A scanso di equivoci con Washington, la
Mogherini ha precisato che ciò «non significa creare un esercito
europeo, ma avere più cooperazione per una difesa più efficace in piena
complementarietà con la Nato», in altre parole che la Ue vuole
accrescere la sua forza militare restando sotto comando Usa nella Nato
(di cui sono membri 22 dei 28 paesi dell’Unione).
Intanto, il
segretario generale della Nato Stoltenberg ringrazia il neo-eletto
presidente Trump per «aver sollevato la questione della spesa per la
difesa», precisando che «nonostante i progressi compiuti nella
ripartizione del carico, c’è ancora molto da fare». In altre parole, i
paesi europei della Nato dovranno addossarsi una spesa militare molto
maggiore.
I 55 milioni di euro, che paghiamo ogni giorno per il militare, presto aumenteranno. Ma su questo non c’è referendum.