Repubblica 6.12.16
La bandiera del 40 per cento e quell’intreccio governo-dem
Il premier è un combattente ferito e tutt’altro che rassegnato. Ma il partito rischia di non sopportare un’altra sfida
di Stefano Folli
LA
 STORIA del giorno dopo si muove su due piani. Il primo è istituzionale e
 vede il presidente Mattarella prodigarsi per raffreddare gli animi. Il 
colloquio privato di ieri mattina con Renzi è stato logicamente il 
passaggio più importante della giornata. C’era il rischio concreto che 
lo “stress” accumulato dal presidente del Consiglio fosse foriero di 
qualche incidente ovvero complicasse le procedure della crisi. Il Capo 
dello Stato ha voluto rendersi conto di persona delle intenzioni del 
presidente del Consiglio e il chiarimento gli ha permesso di replicare 
il precedente di Napolitano nel 2011. Allora il premier Berlusconi andò 
al Quirinale per annunciare le dimissioni — si era nel pieno della 
tormenta dello spread —, ma le formalizzò un paio di giorni dopo, una 
volta approvata la legge di bilancio. L’anno dopo lo stesso schema fu 
adottato da Mario Monti.
La storia si ripete. Renzi è di fatto 
dimissionario, ma lo sarà sul piano formale solo dopo l’approvazione 
della manovra finanziaria, comunque entro pochi giorni. È il primo passo
 per uscire dal pantano in fretta, senza aprire vuoti di potere e 
soprattutto senza spaventare i mercati. Una strategia tanto più 
necessaria nel momento in cui l’Eurogruppo solleva obiezioni alla legge 
di stabilità: il che impone all’Italia di rispondere quanto prima con un
 governo nel pieno delle sue funzioni. Questo scenario istituzionale 
rivela, come si è detto, l’impronta di Mattarella. È la sua mossa 
iniziale per placare gli animi e avviare un’opera di riconciliazione 
nazionale. Viene meno l’idea di un rinvio di Renzi alle Camere — ormai 
il premier è destinato a lasciare Palazzo Chigi — e si intuisce la rotta
 immaginata dal Capo dello Stato, fondata sul presupposto che una 
maggioranza in Parlamento esiste e non è stata disarticolata dal 
disastro referendario.
Tuttavia siamo solo ai primi passi di una 
vicenda complicata. Che è tale perché esiste un secondo piano, quello 
politico, intrecciato con il primo. È il livello in cui si muove Renzi, 
combattente ferito ma tutt’altro che rassegnato. Il presidente del 
Consiglio e segretario del Pd ieri ha taciuto, ma i suoi collaboratori 
hanno parlato in modo piuttosto chiaro. La tesi ricorrente riguarda quel
 40 per cento di Sì che viene attribuito tout court al premier come 
patrimonio elettorale ormai acquisito. Non c’è più il Pd, se non sullo 
sfondo. C’è un partito personale che siede sul 40 per cento di Sì. Non è
 una sorpresa per chi ha seguito la lunga campagna renziana, 
individuando il vero obiettivo del referendum trasformato in plebiscito.
 Ma è vero che questa accelerazione crea un altro elemento di frattura 
all’interno del centrosinistra, nonché fra politica e istituzioni.
Per
 due ragioni. La prima, rende in prospettiva più fragile l’esecutivo che
 dovrà nascere. Mattarella lo vuole solido e in grado di interloquire 
con l’Europa, Renzi si preoccupa invece che non lo sia troppo: sa bene 
che in quel caso le correnti del Pd lo userebbero contro di lui, magari 
cominciando dal negoziato parlamentare con Berlusconi e altri sulla 
nuova legge elettorale. Per l’ex premier diventerebbe più difficile 
condurre il gioco e convincere gli italiani che lui è sempre il deus ex 
machina. Renzi ha bisogno di restare al centro della scena e di 
continuare l’eterna campagna di opinione in vista del voto politico, 
molto prima della scadenza della legislatura. Ma il governo deve essere 
debole e tale da non coinvolgere troppo il Pd. Un “governo amico”, si 
sarebbe detto un tempo.
L’altra ragione porta direttamente nel 
cuore del Pd. Se Renzi intende sventolare la bandiera del 40 per cento 
in faccia ai suoi avversari, è plausibile che il partito si spacchi in 
modo clamoroso e definitivo. Parlare e agire da vincitore dopo una 
battaglia persa significa gettare molta benzina sul fuoco. Difficile che
 stavolta la sinistra si lasci annichilire. Intanto si vedrà domani 
nella direzione quale sarà il clima. Ma Renzi non sembra per ora 
nell’ordine di idee di svolgere una seria autocritica e di lavorare 
all’unità interna. Quindi i due piani, istituzionale e politico, 
rischiano di collidere. La strada del governo e lo psicodramma Pd 
s’intrecciano. Tenerli separati richiederebbe un leader nel pieno del 
suo potere, non reduce da una disfatta.
 
