Repubblica 4.12.16
Donne al comando, asse con gli Usa l’altra Cina esce dall’isolamento
di Angelo Aquaro
PECHINO.
C’era una volta il “made in Taiwan”, era l’alba degli anni Settanta e
anche l’Italia che arrancava nell’austerity scoprì l’invasione dei
prodotti sottocosto in arrivo dalla Cina. Già, ma quale Cina? Quella
“nazionalista”, recitavano fior di esperti, per distinguerla dalla “Cina
comunista” di Mao Zedong. Altri tempi? Mica tanto se perfino il
presidente eletto degli Stati Uniti non fa adesso che rilanciare la
confusione. E pensare che l’ultima crisi si sta consumando mentre a
Pechino torna un signore chiamato Henry Kissinger, l’uomo che organizzò
lo storico viaggio di Richard Nixon del 1972: l’inizio della fine
dell’isolamento della Cina comunista ma anche l’inizio della fine del
sogno di Taiwan di rappresentare la Cina nel mondo. Il presidente Xi
Jinping l’ha invitato per farsi spiegare che tipo è questo Trump. E
Kissinger è venuto a dirgli quello che aveva già detto alla Cnn: «Non
bisogna inchiodarlo sulle posizioni che ha espresso in campagna
elettorale. Certo, se poi davvero insiste...».
Trump ha insistito,
e ieri sì che Pechino ha alzato la voce con la Casa Bianca
dell’incolpevole Barack Obama. E Taiwan? «Almeno il mondo si è accorto
che esiste », racconta Barbara Celis, giornalista che ha lasciato New
York per l’isola e ieri ha raccolto per strada la gioia «soprattutto tra
i più giovani, quelli che dai tempi del Sunflower Movement spingono per
l’indipendenza, anche se qui è difficile liberarsi dalla paura
dell’invasione». Non è solo un mito della guerra fredda. C’è un rapporto
del ministero della Difesa taiwanese datato 2015 che adombra
letteralmente lo scenario: ricordando i 1.500 missili già puntati contro
ma anche le ultime manovre militari intorno alle isole contese nel Mar
della Cina. Del resto Pechino ha passato 11 anni fa quell’Anti Secession
Law che prevede l’uso della forza persino «se non si intravede più la
possibilità di una riunificazione pacifica». Eppure le migliaia di
persone che ieri hanno invaso il Ketagalan Boulevard a Taipei
protestavano, certo, ma mica per la telefonata tra The Donald e Tsai
Ing-wen, la prima presidente che parla di indipendenza: sono scesi in
piazza contro la legge con cui questa signora fiera di essere single,
nonché paladina dei gatti, vuole fare del suo piccolo grande stato la
prima nazione d’Asia a legalizzare le nozze gay. Capite come sono uguali
e diverse la Cina di Pechino e quella di Taiwan? Nell’altra Cina
vogliono i matrimoni omosessuali, in questa la Costituzione riconosce
solo il matrimonio tra uomo e donna. Nell’altra Cina comanda una donna,
in questa non ce n’è una nel Comitato permanente. Nell’altra Cina una
donna, Hung Hsiu-chu, è anche a capo dell’opposizione, in questa
l’opposizione non ha neppure un capo perché non esiste. Nell’altra Cina
il Pil sale, in questa rallenta: ok, lì +2.03% e qui comunque +6.7%, le
grandezze non sono comparabili, ma l’altra Cina è una nazione di 20
milioni di abitanti, questa di 1 miliardo e 400 milioni di persone.
Nell’altra Cina vogliono liberarsi del nucleare entro il 2025: in questa
vogliono triplicarlo entro il 2020.
Peccato che tutto questo, per
Pechino, non ha alcun senso: perché per Pechino non esiste un’altra
Cina. La Cina è una e una sola: e a dire il vero fino alla telefonata
che ora il China Post di Taipei definisce “storica” il principio era
condiviso anche dall’isola. È il “1992 Consensus” che per superare lo
stallo permise a entrambi i duellanti di riconoscere l’esistenza di una
sola nazione: la propria. Quando nel 1949 i comunisti di Mao
conquistarono Pechino dando vita alla Repubblica popolare, ai
nazionalisti di Chiang Kai-shek non era restato infatti che
miniaturizzare la Repubblica cinese in questo superscoglio nel Pacifico:
l’isola che i portoghesi chiamarono “Bella”, cioè Formosa. Chiang
Kai-shek è morto nel 1975. Mao l’ha battuto anche in quello: è campato
un anno di più. Da allora l’ascesa economica e politica del Dragone ha
fatto il resto: facendo uscire Taiwan prima dall’Onu, dove ha perso il
seggio preso dalla Cina, poi dai radar dell’attenzione internazionale.
Per non far arrabbiare Pechino, dalle Olimpiadi all’Organizzazione
mondiale della salute le hanno tolto anche il nome: la chiamano Taipei.
È
toccato a una donna, ora, riportare al centro del mondo l’isola che
voleva diventare nazione: con il piccolo aiuto di Edwin Feulner, il
consigliere di Trump che già a ottobre era sbarcato qui per incontrare
la presidente e che è stato fra l’altro il gran supporter di Elaine
Chao, la donna emigrata dall’isola che The Donald ha chiamato nel suo
governo dando un altro schiaffo alla Cina. È la riscossa del “made in
Taiwan”? Per la verità la forza da lì non se n’è mai andata, è pur
sempre il paese di Asus, Acer e altre meraviglie tecno, la quarta Tigre
asiatica con Singapore, Hong Kong e Corea del Sud. Ma cosa può il
graffio della Tigre contro le fiamme del Dragone?