La Stampa 4.12.16
Nella Mosca di Putin che legge Fidel ma guarda a Trump
Una
città che non dorme mai dove i parrucchieri sono aperti fino a tarda
notte e le giovani coppie si fanno fotografare davanti ai luoghi simbolo
dell’Urss
di Cesare Martinetti
Gamberetti e tè
col miele sono un dolce spuntino dopo la sauna. Salame di cavallo alla
tartara con il pane nero hanno un gusto più selvaggio, da carovana nella
taigà. Ernst, tra un boccone e l’altro, mi dice: «Parliamoci chiaro,
senza Putin sarebbe il caos. Avevo undici anni quand’è caduta l’Urss. A
scuola fui uno dei primi a togliermi il fazzoletto rosso da pioniere che
portavamo al collo. Gli insegnanti non sapevano che fare, dall’alto non
arrivavano direttive, lo Stato era semplicemente scomparso».
E
aggiunge: «Ricordo quegli anni con grande entusiasmo, c’era confusione,
casino, ma anche vita, idee diverse, discussioni. Per strada c’erano i
fascisti con la camicia nera, bande che si affrontavano, ogni giorno si
faceva a pugni. Ora è tutto sotto controllo».
Siamo ai bagni
Sanduny, uno di quei posti veri di Mosca, décor rococò fine ’800,
nemmeno uno straniero a pagarlo. Schwarzenegger ci girò un film. È
venerdì sera, ordinari corpi da businessman si mescolano a masse
muscolari tatuate da lottatori georgiani. Nella grande sauna gli
inservienti sferzano spietati la schiena dei clienti con rametti di
quercia e di betulla. Gesti ritmati che assomigliano a un rituale. È il
relax di guerrieri che hanno combattuto le loro differenti battaglie per
tutta la settimana. Sono gli elettori di Vladimir Putin che ora sembra
diventato il king maker della politica mondiale, da Trump a Fillon,
l’ago della bilancia di tutti gli equilibri geopolitici, a cominciare
dalla Siria, il fornitore occulto di tutti i sospetti, dai leaks delle
mail di Hillary Clinton alle fantasiose cosmogonie dei nostri Cinque
stelle. Che pensano di lui i suoi sudditi? Lo amano, lo temono, lo
detestano?
L’effetto Mosca
È qui che incontriamo Ernst
Sultanov, considerandolo modello di una generazione. Ha 37 anni, ne
aveva venti quando Putin è andato al potere e adesso ci dice senza
esitazione: «Senza di lui sarebbe il caos». È il coordinatore di «Mir
initiative», tiene insieme un forum di città che va da Mosca a Pechino a
Torino e ha per obiettivo quello che chiamano un «metrò euroasiatico»
che si propone di connettere le reti ferroviarie di questo vasto mondo. È
una specie di folletto che passa tre giorni a Istanbul, quattro in
Cina, un weekend a casa (Mosca) con passaggio abituale al bagno Sanduny.
Domani sarà a Roma dove si inaugura alle scuderie del Quirinale la
mostra sulla Via della Seta, antica e nuova. Lui sostiene soprattutto
quella futura e dice che per la Russia è l’unica strada realistica per
diffondere l’«effetto Mosca» lungo i suoi infiniti fusi orari.
Ma
che effetto è? Per capirlo bisogna venire nel cuore di questa città che
ha ormai quasi 13 milioni di abitanti e continua ad attrarne come una
calamita. La trasformazione in pochi anni è stata spettacolare. I Gum
della piazza Rossa sono stati i primi, vi si trovano coppie di sposi che
celebrano il loro giorno con foto tra le boutique. La metropolitana è
tuttora intitolata a V. I. Lenin, ma c’è il Wi-Fi in ogni linea, si
trovano persino passeggeri che leggono libri di carta, secondo
tradizione, e i mosaici con falci e martelli e bandiere rosse vengono
lucidati ogni giorno. Ma è dietro al Bolshoi e nel quartierino del
Kuznetsky Most che le luci brillano giorno e notte. Entrare nei vecchi
Zum sovietici o nel Petrovski passage è come sentirsi ai Lafayette di
Parigi o al KaDeVe di Berlino. Tutti i teatri sono illuminati, bar,
ristoranti, persino i parrucchieri per signora sono aperti fino alle 2
di notte e le ragazze di Mosca ci entrano ed escono saltellando con i
tacchi sulla neve, lasciando una scia di profumi e un’eco di risatine.
«È una città che non dorme mai», ci ha detto con ammirazione una di
loro. Pur essendo il presidente l’uomo con una delle facce più tristi
del mondo, qui si respira un vibrante edonismo putiniano.
Ma non è
di questo effetto che parla Ernst, piuttosto, quello di una città che
rappresenta gran parte dell’economia russa ed è l’emblema delle sue
contraddizioni: in questo paese dei balocchi (o se preferite il
villaggio Potëmkin di Putin) che è il cuore di Mosca, è praticamente
impossibile trovare merci di produzione russa, il Paese continua a
vivere delle sue ricchezze naturali, gas e petrolio, e solo ora dopo la
grande crisi degli anni scorsi che ha fatto perdere al rublo il 40 per
cento del suo valore e sbarellato i bilanci delle famiglie più povere o
anche solo normali, col prezzo del barile che risale si può immaginare
il ritorno alla crescita nel 2017. Ma non c’è traccia di quella svolta
di riforme che molti giudicano indispensabile, a cominciare dai
demografi che stando così le cose prevedono «inevitabile» il declino
della Russia salvo immissioni massicce di immigrati. A Mosca, a Mosca!
Come nelle tre sorelle di Cechov, tuttora rappresentato, proprio qui
accanto.
E poi questa è una città che conserva intatti i suoi
numerosi fantasmi che Enzo Bettiza collocava all’hotel Lux, dove
alloggiava Togliatti. Ora basta uscire dalle luci della piazza Rossa
dove si sta montando il villaggio di Natale con la pista di pattinaggio e
scendere verso il fiume per incontrare sul ponte il luogo dove venne
ucciso nemmeno due anni fa Boris Nemzov. Ci sono vasi di fiori, la sua
foto, delle scritte con quelle frasi un po’ così tipo «gli eroi non
muoiono mai». Era il più rappresentativo dell’opposizione liberale, ex
ragazzo prodigio della stagione dei democratici, a cavallo tra la fine
del comunismo e i tumultuosi anni Eltsin. Le mura del Cremlino
incombono. Per il suo omicidio sono accusati due ceceni come esecutori,
ma nessuna ipotesi di mandante. Immaginare che sia stato il presidente a
volere la sua fine è oltraggioso e fantasioso. Ma a Mosca anche i
sospetti non finiscono mai e qualche giorno fa al processo dei killer la
corte ha rispolverato una formula sovietica: «La sua attività politica
come motivo dell’omicidio non è oggetto del dibattimento». Si diceva
proprio così una volta dei dissidenti: crimini comuni, non politici.
Stimmate della dissidenza
Siamo
tornati all’epoca sovietica? Zoja Svetova è una che porta le stimmate
della dissidenza, suo padre Feliks, scrittore e attivista cristiano
ortodosso, fu inviato al Gulag, i suoi figli sono stati protagonisti
nelle manifestazioni di protesta contro Putin degli anni passati. E lei
si batte da sempre contro le prepotenze del potere, l’ultimo suo libro
tradotto in Francia si intitola «Gli innocenti saranno colpevoli». «No -
ci dice - in epoca sovietica c’erano carceri speciali per i politici,
ora non più, gli arrestati per reati di opinione sono sparsi insieme ai
comuni». Ma cosa rappresentava Nemzov? «Era l’anima dell’opposizione, un
uomo carismatico, l’unico che poteva unire. La sua fine ha avuto su di
noi l’effetto di una bomba». A che punto è ora il movimento? «Ci sono
ancora delle persone in carcere per le proteste contro le elezioni
truccate in piazza Balotnaya quattro anni fa. Basta niente per essere
accusati di terrorismo, anche un solo post su Facebook e si rischia la
perquisizione in casa. La gente ha paura, chi ha potuto è andato
all’estero».
Ma ci sono pur sempre le elezioni, le ha vinte il
partito del presidente, l’opposizione non ha eletto nemmeno un deputato e
Putin ha un grande consenso anche nei sondaggi. «Le ultime elezioni
della Duma - dice Zoïa Svetova - sono state organizzate in fretta e
furia, a metà settembre, la gente era appena tornata dalle vacanze, non
c’è nemmeno stata la possibilità di attaccare i manifesti e fare
campagna elettorale. Ha vinto Putin. Ma quanti hanno votato davvero? A
Mosca credo poco più del 30 per cento...».
All’istituto di
sondaggi Levada, il più accreditato centro studi dell’opinione pubblica
russa al quale il governo ha tolto finanziamenti accusando i suoi
ricercatori di agire da «agenti stranieri», pensano che la questione
della partecipazione al voto sia cruciale. Nelle precedenti elezioni
aveva votato il 60 per cento e questa volta il governo puntava ad
aumentare i consensi. Il risultato ufficiale è stato deludente: 48 per
cento. Lev Gudkov, direttore del Levada, pensa che in realtà sia ancora
più basso, 40-45 al massimo. Se si tiene conto del fatto che almeno il
25 per cento dell’elettorato è costituito da impiegati statali,
militari, poliziotti, pubblici ufficiali, persone a vario titolo
direttamente dipendenti dal sistema, la vera quota di opinione pubblica
che vota per il partito del presidente è abbastanza modesta.
Ma
non ci sono alternative. L’opposizione è stata schiacciata e minacciata,
nessuno contende al capo del Cremlino il ruolo di leader. Se nulla
cambia Vladimir Putin si avvia a vincere senza avversari la sua quarta
elezione presidenziale nel 2018. Le uniche scosse vengono dall’interno
del suo cerchio e son tutte da decifrare, come l’arresto del ministro
dell’economia Aleksiej Ulyukaev, incastrato due settimane fa dall’Fsb
(l’ex Kgb) con una tangente-trappola. Era un uomo di primo piano dei
liberali, che in questo caso vuol dire i più pragmatici e meno
disponibili al ritornello propagandistico del tutto va bene.
«Votare è inutile»
Molti
dei giovani putiniani rampanti non vanno a votare perché «inutile»,
perché è «noioso», perché «non cambia nulla». Questo non significa che
non siano con il presidente, ma la situazione politica si è talmente
normalizzata e appiattita che ognuno pensa al suo business e «vsiò»,
basta così. Non lo si può chiamare totalitarismo, è un regime
autoritario con tratti di totalitarismo. Il dominio della scena
pubblica, il controllo totale della Tv che sembra tornata all’epoca
sovietica fa sì che lo stesso Putin appaia in cerca di un nuovo slancio.
Giovedì ha tenuto il suo discorso sullo stato della Federazione
cospargendolo di messaggi, come ha raccontato su «La Stampa» di venerdì
Lucia Sgueglia: «Il 2017 sarà occasione per riflettere sulla natura
delle rivoluzioni. Il passato va rispettato, ma occorre valutare le
conseguenze».
La storia e la sua rivalutazione ad uso del potere è
diventato uno degli argomenti maggiori, una continua metafora pseudo
culturale che sostituisce la politica. Il ministro della cultura
Medinsky ci si dedica con zelo spesso caricaturale, difendendo i più
insostenibili falsi come quello del film sui ventotto eroi che avrebbero
difeso Mosca fermando da soli i panzer nazisti. Che succederà tra un
anno al centenario della rivoluzione d’ottobre? L’avvertimento di Putin,
che ha più volte definito il crollo dell’Urss la più grande tragedia
del Novecento, sembra preludere ad una pedagogica rivisitazione. Per ora
se ne colgono piccoli segni. Al «Garage», meraviglioso centro d’arte
contemporanea di Gorky park costruito da Dasha Zhukova, moglie del
magnate Abramovich (il padrone del Chelsea), si vendono gadget
rielaborati su vecchi simboli sovietici: una carrarmato con la scritta
Cccp, una zhigulì, la torre di Ostankino. Nelle librerie già sono
allestiti angoli con i vecchi album sovietici.
L’impatto di
passato e presente fa parte della narrativa e della popolarità di Putin.
Ce lo racconta Olga, una gentile ed elegante signora di sessant’anni
che incontriamo davanti a una tazza di tè al «Cofemania», accanto al
monumento a Tchajkovskij e alla bellissima grande sala del
Conservatorio. «Nel ’90 siamo passati dalla speranza alla disperazione.
Io insegnavo francese all’università, di colpo i nostri stipendi non
valevano più nulla. Ingegneri, medici, professori hanno dovuto
inventarsi le vite più assurde. C’erano quelli che facevano la spola con
l’estero, andavano con le borse vuote e tornavano con merci da vendere
per strada. Qui non c’era niente, li chiamavano «celnok». Io me la sono
cavata, ho potuto lavorare con un’impresa italiana ed è andata bene. Ma
ne ho visti tanti star male. Noi eravamo cresciuti dentro la musica
della letteratura russa, con un’idea forte della giustizia, non potevamo
vedere questi oligarchi che non erano nessuno diventare miliardari. Il
nostro Paese si era arreso. Siamo stati umiliati. All’estero non
capiscono questo, non conoscono la nostra storia, nemmeno adesso. Perché
se gli americani vanno in Iraq portano la democrazia, se i russi vanno
in Siria portano la guerra? Noi russi siamo sempre il capro espiatorio.
L’Europa ha privatizzato la parola «valori»: c’è troppa ipocrisia,
pensate di avere solo voi gli ideali? Io credo che Putin sia una persona
buona, è figlio del popolo, va in chiesa non solo quando ci sono il
patriarca e le Tv, anche quando nessuno lo vede, nelle piccole chiese di
provincia. Lui ci ha ridato la dignità».
Tra pochi giorni sarà il
venticinquesimo anniversario della caduta dell’Urss, la notte del 25
dicembre 1991 la bandiera rossa scese dalla cupola del Cremlino e
Mikhail Serghevich Gorbaciov uscì dalla storia. Ma tra tutti i passati
della Russia millenaria, questa è una circostanza da tempo sfumata
nell’oblio. Qui può succedere che l’archivio storico del
marxismo-leninismo continui a vivere circondato dalle boutique di Prada e
Vuitton, ma trovare qualcuno che si ricordi del padre della perestrojka
è praticamente impossibile. Nella grande libreria sulla via Tverskaja
davanti al municipio di Mosca, nel bancone dei libri più venduti ci sono
le biografie di Donald Trump, il «campione miliardario» e di Fidel
Castro, lo «stratega vittorioso». Vecchi e nuovi miti di Mosca, la città
che non dorme mai. È questo, più o meno, lo spirito del tempo.