Repubblica 4.12.16
Votiamo per Ll’Italia e per L’Europa. E Prodi spiega il suo sì
di Eugenio Scalfari
L’ARTICOLO
di Mario Calabresi e quello di Stefano Folli usciti su questo giornale
inquadrano perfettamente la crisi che l’Italia sta attraversando, una
crisi epocale che ha colpito perfino l’America con la vittoria di Donald
Trump e che colpisce in modo particolare l’Europa (e l’Italia), un
continente che stenta terribilmente a unificarsi, anzi sta disgregando
il poco che aveva creato, ogni giorno di più.
La crisi italiana
aggiunge una sorta di disfacimento all’analoga crisi europea, il peggio
si aggiunge al peggio. Il tutto è esploso con questo referendum che
abbiamo tra i piedi.
Mi permetto di ricordare il calendario: è
sabato il giorno in cui sto scrivendo e i miei 25 lettori mi leggeranno
domani mentre stanno votando o hanno già votato. Ovviamente né io né i
miei lettori conosciamo i due elementi che connotano il referendum:
l’affollamento ai seggi e l’esito dello scontro tra il Sì e il No.
L’affluenza è importante quasi quanto l’esito, quindi se andranno alle
urne in pochi, per esempio un 30 per cento degli aventi diritto al voto,
l’esito sarà scarsamente influente. Personalmente non ritengo che
andranno in pochi, ma non credo neppure che saranno moltissimi. Vedremo
nella notte di domenica (oggi per voi che leggete) e all’alba di lunedì.
Nel frattempo possiamo analizzare alcuni aspetti che caratterizzano i
votanti delle due parti. Attenzione: quando si vota per il Parlamento il
popolo dei votanti dà la delega a rappresentarlo ai deputati e senatori
(fin quando il Senato esisterà).
QUINDI si votano i partiti e i
movimenti, i programmi da essi presentati e anche le ideologie che ne
costituiscono la base culturale, gli ideali, i valori.
Il voto
referendario ha una natura del tutto diversa: i cittadini sono chiamati a
rispondere a un quesito che è stato posto da un numero consistente di
altri cittadini. La risposta a un quesito, il Sì o il No, decide. Cioè
nel caso referendario il popolo è direttamente sovrano, senza delegare
ad altri la propria sovranità.
Il quesito che oggi stiamo votando
si riassume nell’abolizione del bicameralismo perfetto e quindi
nell’instaurazione di un regime monocamerale. Una sola Camera decide,
l’altra, cioè il Senato, esiste ancora ma con compiti del tutto diversi e
comunque secondari.
Se vogliamo prenderci la briga di vedere
com’è la situazione nel Paese dove è nata storicamente la democrazia e
cioè l’Inghilterra, vediamo che la camera dei Comuni detiene interamente
il potere legislativo mentre la camera dei Lord non ha potere alcuno,
emette soltanto pareri; è nominata dalla Corona (in teoria) e cioè dal
Premier che propone i nomi e il Re o la Regina appongono la loro firma.
Questo
è il sistema del Paese che è stato la culla della democrazia, ma è
anche lo stato dei fatti in tutti i Paesi importanti d’Europa: in
Francia, in Germania, in Spagna, ovunque. In Italia non è stato mai
così, sebbene all’Assemblea costituente che chiuse i suoi lavori nel
1947 molti fossero favorevoli a una sola Camera, a cominciare dal
Partito comunista. Oggi il tema è stato riproposto da Renzi ed è su
questo che i cittadini sono chiamati a rispondere direttamente.
Si
può dissentire se il quesito referendario sia stato scritto bene o male
(secondo me è scritto male e i nuovi compiti attribuiti al Senato non
credo siano quelli giusti) ma comunque il nocciolo è la scelta del
monocamerale.
Sono tanti anni che il tema è all’ordine
dell’attenzione politica, sono state installate varie commissioni
bicamerali, alcune delle quali arrivarono anche a concludere ma
all’ultimo momento una delle parti buttò tutto in aria (lo fece
Berlusconi quando tutto sembrava concluso). Renzi c’è infine riuscito a
farlo, questo merito gli va riconosciuto. Il demerito che l’accompagna e
che non riguarda lui soltanto, ma anche le altre parti politiche a
cominciare soprattutto dai 5 Stelle, è stato quello di aver trasformato
il referendum in un’ordalia pro Renzi o contro di lui. Avete deformato
il tema ed avete sbagliato a farlo.
***
I No hanno due
motivazioni diverse che in certi casi si sommano tra loro, in altri
restano distinte. C’è chi vota No perché ritiene che in tal modo il
Paese cambierà e c’è chi vota esclusivamente per rabbia sociale, è
disoccupato o rischia di diventarlo o si sente escluso dal successo e ne
soffre psicologicamente. Tutti quelli che votano No se ne infischiano
che la compagnia in cui si trovano sia ampiamente differenziata: c’è
Forza Italia di Berlusconi, c’è la Lega di Salvini, ci sono i 5 Stelle
di Grillo e ci sono anche le schegge della sinistra-sinistrese, insieme
ad un pizzico di anarchici. Ma i No lucidamente consapevoli hanno
motivazioni che non sono ispirate da rabbia sociale. Non gli piace la
scrittura della riforma costituzionale ma soprattutto non gli piace
l’abolizione del bicameralismo che secondo loro diminuisce
pericolosamente il potere legislativo. In aggiunta si ritiene che Renzi
abbia una vocazione autoritaria che sarebbe accentuata dal
monocameralismo. L’esponente principale di chi vota No in piena
coscienza è Gustavo Zagrebelsky e, se gli obiettate che votando No si
muove in pessima compagnia, ti risponde che in un referendum la
compagnia conta pochissimo e a referendum avvenuto la compagnia, buona o
cattiva che fosse, non esiste più. Rimane il risultato ed è quello sul
quale si deve lavorare. Lui ci lavora. Con chi? Non lo sa, non ha un
partito ma ha un’autorevolezza.
È vero, lo conosco bene e siamo
stati buoni amici. Spero che continueremo ad esserlo, ma la speranza (o
presunzione) che lavorerà con successo per trarre dall’esito
referendario tutte le conseguenze politicamente positive dimostra in lui
l’esistenza di un Io alquanto esuberante.
Conosco molto bene che
cos’è un Io esuberante perché ce l’ho anch’io, ma ne sono consapevole e
tengo il mio Io al guinzaglio; molti non ne sono consapevoli e questo è
pericoloso se hanno un ruolo importante da sostenere. Ci sono molti
altri casi d’un Io esuberante ma non sto qui per fare ritratti e a
parlare dell’Io troppo marcato. Da tre anni in qua dovrei mettere Matteo
Renzi in testa a tutti. Del resto i protagonisti della politica hanno
tutti, salvo eccezioni, un Io marcato: è un fatto naturale. Il problema è
di sapere se lo mettono al servizio del bene comune. Loro sono convinti
di impersonare il bene comune. Ecco perché non dovrebbero mai essere
soli al comando. Debbono essere leader d’un duetto dirigente,
all’interno del quale c’è sempre una libera discussione.
In tutti i
regimi politici i pochi guidano i molti e se volete l’esempio più
classico pensate al Senato romano, almeno fino a Giulio Cesare, che non a
caso fu ucciso in Senato e dal gruppo più repubblicano. Alcuni di loro
di Cesare erano amici stretti, Bruto lui lo considerava un figlio. Con
Cesare era difficile discutere insieme del bene comune. Questo è il
punto. Volete comandare? Dovete avere intorno a voi una classe dirigente
(io la chiamo oligarchia) altrimenti precipiterete nella dittatura.
L’oligarchia è il contrario della dittatura, l’ho scritto varie volte e
ne ho fornito vari esempi storici. Perciò non mi ripeterò.
Una
personalità politica di rilievo nazionale e internazionale, Romano
Prodi, ha annunciato mercoledì scorso che voterà Sì e ce ne ha anche
spiegato il perché. Questa discesa in campo di un personaggio che può
essere definito una “riserva della Repubblica” ha sicuramente mosso le
acque ed ha convinto un numero rilevante di cittadini a votare Sì
superando non lievi perplessità. La sua spiegazione è questa: ci sono
motivazioni a favore ed altre contro la legge contenuta nel referendum,
ma Prodi voterà Sì perché — motivazioni sulla legge a parte — votare Sì
significa impedire che il Paese si disgreghi. Si aprirebbe una lunga
crisi e affiancherebbe quella europea. Ecco perché il Sì invece del No.
Alcuni,
che per mestiere cercano la pagliuzza nel fienile, si sono domandati a
che cosa mira Prodi se il Sì avrà la meglio. Pensa forse a candidarsi
come successore di Renzi a Palazzo Chigi?
Prodi non pensa affatto a
questo. Se vincerà il No tornerà a fare il semplice cittadino perché
non ha l’abitudine di discutere con chi ha cavalcato un cavallo diverso.
Se vincerà il Sì cercherà con i suoi suggerimenti critici di migliorare
gli interventi, le leggi, i programmi in corso e quelli che il prossimo
futuro comporterà. In Italia e in Europa. Per quanto riguarda Renzi,
Prodi sostiene che non deve in nessun caso dimettersi. Lo so perché
siamo molto amici Romano ed io ed abbiamo sempre avuto comuni opinioni,
sia quando era presidente dell’Iri sia quando fondò l’Ulivo insieme ad
Arturo Parisi e a Walter Veltroni, che combatté quella battaglia
creativa e nel governo che ne risultò fu il vicepresidente del
Consiglio.
È qui doveroso ricordare che Veltroni, chiusa la
stagione prodiana, fu uno dei fondatori del Pd che era nato dall’Ulivo e
a lui fu dato il compito di organizzarlo e guidarlo alle imminenti
elezioni. Fu lui a chiamarlo partito riformatore e il programma fu da
lui delineato al Lingotto di Torino e confermato all’unanimità dalla
direzione del partito. Alle elezioni aveva ottenuto il 34 per cento,
cifra eguale a quella del Partito comunista quando raggiunse il suo
massimo all’epoca di Berlinguer.
A quel partito bisognerebbe
tornare con i debiti aggiornamenti soprattutto in chiave europea e
Renzi, a mio avviso, può e deve farlo in ogni caso, sia se vincerà sia
se perderà il referendum. Così la pensa anche il presidente Mattarella e
così dovrebbe pensare anche la dissidenza interna del Pd a cominciare
da Bersani. Cuperlo insegna.
Ora aspettiamo i risultati. Una nuova
fase si apre. Speriamo che sia appunto una fase di riforme positive e
speriamo che l’Italia si dia carico di se stessa e anche dell’Europa,
senza la quale non si sopravvive in una società globale dove contano
soltanto gli Stati continentali. Gli altri — l’ho scritto più volte —
usano scialuppe di salvataggio che spesso affondano nei mari tempestosi.