Repubblica 2.12.16
Il ritorno del sindacato
di Roberto Mania
L’ULTIMO
accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, con tutto il
carico di simbolismi che ancora riesce a trascinarsi dietro; poi
l’intesa, dopo sette anni, per i contratti pubblici nonostante il
rischio di una strumentalizzazione elettorale; la riforma, infine, del
modello di negoziazione nei settori dell’artigianato e del commercio
sembrano segnare un nuovo inizio per le relazioni industriali e definire
il profilo del sindacato nella stagione della disintermediazione
politica. Un sindacato che fa il suo mestiere: gli accordi. Con
soluzioni innovative, pragmatiche, a-ideologiche. Un terreno antico che
appare moderno dopo l’abbuffata di politica che ha riempito il tavolo
sindacale negli ultimi decenni.
Quasi vent’anni fa Sergio
Cofferati, allora leader della Cgil, intitolò il suo libro “A ciascuno
il suo mestiere”. Legittimava, nonostante quel titolo, il ruolo politico
del sindacato, la sua azione di rappresentanza parallela a quella
sempre più incerta dei partiti nel passaggio tra la prima e la seconda
Repubblica. Raccontava — non senza qualche presa di distanza — l’epopea
del sindacato della concertazione, quello che scriveva le leggi, metteva
i veti, riempiva le piazze. Un po’ di lotta, un po’ di governo. Un
sindacato ircocervo. Da tempo quella stagione non torna e quel sindacato
non c’è più.
La politica fa sempre meno parte della forza
sindacale. L’affermarsi del tripolarismo ha contribuito a smontare la
potenziale sponda sindacale per ciascuno degli schieramenti politici. Il
modello del Labour party o dei socialdemocratici tedeschi che non è
riuscito ad attecchire nella fase del nostro bipolarismo ora non ha
alcuna chance di trovare una versione italiana. Gli orientamenti del
gruppo dirigente della Cgil, della Cisl e della Uil come quelli di
Confindustria non influenzano minimamente le scelte dei propri iscritti e
in fondo nemmeno quelle dei partiti.
Sarà così anche per il
referendum di domenica, a dispetto dell’impegno che tutti (più o meno
pubblicamente) hanno messo nella campagna elettorale. La scarsa capacità
attrattiva dei sindacati sul terreno politico la si è vista alla prova
l’ultima volta con il fallimento (anche un po’ annunciato, per la
verità) della Coalizione sociale promossa dalla Fiom di Maurizio
Landini. Il quale ha capito che era meglio fare il proprio mestiere
(tanto più se ancora coltiva l’ambizione di lanciare prima o poi un’Opa
sulla segreteria generale della Cgil) e firmare il nuovo contratto dei
metalmeccanici, unitario dopo ben due separati. Ma c’è di più in quel
contratto: c’è la fine della rincorsa all’inflazione, il rafforzamento
(finalmente) degli accordi aziendali per distribuire gli incrementi
retributivi e soprattutto l’avvio di un nuovo modello di welfare. La
scarsità delle risorse, l’invecchiamento progressivo e costante della
popolazione, l’emergere di nuovi bisogni e delle nuove diseguaglianze
stanno mettendo a dura prova la sostenibilità complessiva dei sistemi
sociali pubblici. Aver scelto di finanziarne una parte (integrativa)
attraverso gli “aumenti” contrattuali è stata una mossa lungimirante a
cui il sindacato iperpoliticizzato non ci aveva più abituati. E il fatto
che a questo modello, il quale implicitamente ammette le défaillance
sempre più estese del nostro welfare state, abbiano aderito anche i duri
della Fiom è un cambio di rotta sindacale e culturale. Non a caso la
stessa strada è stata imboccata (si vedranno poi le soluzioni tecniche)
anche nell’intesa quadro per il pubblico impiego.
Un’occasione per
uscire dal grigiore progettuale in cui è calata è offerta ora anche
alla Confindustria. Per la prossima settimana il presidente Vincenzo
Boccia ha convocato i sindacati. Punta a un “patto per l’industria”,
riscrivendo non solo le regole della contrattazione. Perché è troppo
poco pensare che il mestiere dell’imprenditore possa limitarsi al gioco
della negoziazione sindacale.
Dopo lo sciopero degli investimenti
(-30% negli anni della crisi), il fragile capitalismo italiano ha
bisogno di rigenerarsi, superando i tanti dualismi che l’attraversano:
aziende grandi contro aziende piccole, Nord contro Sud, imprese
esportatrici contro quelle domestiche; e di darsi una nuova identità in
grado di affrontare la globalizzazione. Un patto non scritto sulla
sabbia ma con impegni e vincoli. Un patto tra soggetti sociali, senza
più ambizioni politiche. Facendo ciascuno il proprio mestiere. Un “patto
tra produttori”, come si diceva nel secolo scorso.
Così nella
stagione che celebra la disintermediazione politica con le sue
propaggini sociali (dalla share economy alla gig economy) le vecchie
lobby novecentesche, date sempre per morte, sembrano trovare una via per
la loro rivalsa. Paradossi.