Repubblica 2.12.16
Chi piega la Carta alla lotta politica
di Gustavo Zagrebelsky
CARO
Eugenio Scalfari, ieri mi hai chiamato in causa due volte a proposito
del mio orientamento pro-No sul referendum prossimo venturo e, la
seconda volta, invitandomi a ripensarci e a passare dalla parte del Sì.
La “pessima compagnia”, in cui tu dici ch’io mi trovo, dovrebbe indurmi a
farlo, anche se, aggiungi, sai che non lo farò. Non dici: “non so se lo
farà”, ma “so che non lo farà”, con il che sottintendi di avere a che
fare con uno dalla dura cervice.
I discorsi “sul merito” della
riforma, negli ultimi giorni, hanno lasciato il posto a quelli sulla
“pessima compagnia”. Il merito della riforma, anche a molti di coloro
che dicono di votare Sì, ultimo Romano Prodi, appare alquanto
disgustoso. Sarebbero piuttosto i cattivi compagni l’argomento
principale, argomento che ciascuno dei due fronti ritiene di avere buoni
motivi per ritorcere contro l’altro.
Un topos machiavellico è che
in politica il fine giustifica i mezzi, cioè che per un buon proposito
si può stare anche dalla stessa parte del diavolo. Non è questo. Quel
che a me pare è che l’argomento della cattiva compagnia avrebbe valore
solo se si credesse che i due schieramenti referendari debbano essere la
prefigurazione d’una futura formula di governo del nostro Paese. Non è
così. La Costituzione è una cosa, la politica d’ogni giorno un’altra. Si
può concordare costituzionalmente e poi confliggere politicamente. Se
un larghissimo schieramento di forze politiche eterogenee concorda sulla
Costituzione, come avvenne nel ’46-’47, è buona cosa. La lotta
politica, poi, è altra cosa e la Costituzione così largamente condivisa
alla sua origine valse ad addomesticarla, cioè per l’appunto a
costituzionalizzarla. In breve: l’argomento delle cattive compagnie,
quale che sia la parte che lo usa, si basa sull’equivoco di confondere
la Costituzione con la politica d’ogni giorno.
Vengo, caro
Scalfari, a quella che tu vedi come un’ostinazione. Mi aiuta il
riferimento che tu stesso fai a Ventotene e al suo “Manifesto”, così
spesso celebrati a parole e perfino strumentalizzati, come in quella
recente grottesca rappresentazione dei tre capi di governo sulla tolda
della nave da guerra al largo dell’isola che si scambiano vuote parole e
inutili abbracci, lo scorso 22 agosto. C’è nella nostra Costituzione,
nella sua prima parte che tutti omaggiano e dicono di non voler toccare,
un articolo che, forse, tra tutti è il più ignorato ed è uno dei più
importanti, l’articolo 11. Dice che l’Italia consente limitazioni alla
propria sovranità quando — solo quando — siano necessarie ad assicurare
la pace e la giustizia tra le Nazioni. Lo spirito di Ventotene soffia in
queste parole. Guardiamo che cosa è successo. Ci pare che pace e
giustizia siano i caratteri del nostro tempo? Io vedo il contrario. Per
promuovere l’una e l’altra occorre la politica, e a me pare di vedere
che la rete dei condizionamenti in cui anche l’Italia è caduta impedisce
proprio questo, a vantaggio d’interessi finanziario-speculativi che
tutto hanno in mente, meno che la pace e la giustizia. Guardo certi
sostegni alla riforma che provengono da soggetti che non sanno nemmeno
che cosa sia il bicameralismo perfetto, il senato delle autonomie, la
legislazione a data certa, ecc. eppure si sbracciano a favore della
“stabilità”. Che cosa significhi stabilità, lo vediamo tutti i giorni:
perdurante conformità alle loro aspettative, a pena delle
“destabilizzazioni” — chiamiamoli ricatti — che proprio da loro
provengono.
Proprio questo è il punto essenziale, al di là del
pessimo tessuto normativo che ci viene proposto che, per me, sarebbe di
per sé più che sufficiente per votare No. La posta in gioco è grande,
molto più grande dei 47 articoli da modificare, e ciò spiega l’enorme,
altrimenti sproporzionato spiegamento propagandistico messo in campo da
mesi da parte dei fautori del Sì. L’alternativa, per me, è tra subire
un’imposizione e un’espropriazione di sovranità a favore d’un governo
che ne uscirebbe come il pulcino sotto le ali della chioccia, e
affermare l’autonomia del nostro Paese, non per contestare l’apertura
all’Europa e alle altre forme di cooperazione internazionale, ma al
contrario per ricominciare con le nostre forze, secondo lo spirito della
Costituzione. Si dirà: ma ciò esigerebbe una politica conforme e la
politica ha bisogno di forze politiche. E dove sono? Sono da costruire,
lo ammetto. Ma il No al referendum aprirà una sfida e in ogni sfida c’è
un rischio; ma il Sì non l’aprirà nemmeno. Consoliderà soltanto uno
stato di subalternità.
Questa, in sintesi, è la ragione per cui io preferisco il No al Sì e perché considero il No innovativo e il Sì conservativo.
Ti ringrazio dell’attenzione. A cose fatte avremo tempo e modo di ritornare su questi temi con lo spirito e lo spazio necessari.