Repubblica 15.12.16
“Così Petrarca costruì il mito di se stesso”
Francisco Rico, grande filologo spagnolo, rivela come il poeta reinventò sempre la sua biografia
“È stato il primo intellettuale della storia a capire l’importanza dell’immagine pubblica”
“La modernità del personaggio è tutta nella tensione continua tra vita e letteratura”
intervista di Benedetta Craveri
BARCELLONA
Filologo e storico della letteratura di fama internazionale, Francisco
Rico — Paco per gli amici — nato a Barcellona ma di famiglia
castigliana, è oggi il più illustre campione della grande tradizione
culturale spagnola. Basterebbero a farne fede le sue imprescindibili
edizioni di “Lazarillo de Tormes” (2001) e del “Don Quijote de la
Mancha” (2008). Invitato nelle università e nelle accademie di mezzo
mondo, passando con uguale disinvoltura dallo spagnolo all’italiano, al
francese, all’inglese, Rico, membro della Real Academia Española, è
indubbiamente un erudito sui generis, che unisce all’autorevolezza di un
ambasciatore del tempo di Carlo V la elegante leggerezza di un dandy.
Ma che l’Italia sia per lui — studioso di Petrarca e di Boccaccio —
anche un luo–
go dell’anima, lo conferma oggi l’ultimo titolo
della lunga lista dei libri tradotti nella nostra lingua, I venerdì del
Petrarca (Adelphi, pagg. 219, euro 14), seguito nello stesso volume da
un Profilo biografico di Petrarca in collaborazione con Luca Marcozzi.
Un affascinante ritratto di un Petrarca segreto che è al tempo stesso
una rigorosa lezione di metodo filologico e una presa di distanza nei
confronti di una concezione troppo restrittiva della sua disciplina.
Professor
Rico, lei sostiene che anche la filologia è una narrazione, creazione
letteraria la cui posta in gioco non è “di ideare personaggi, ma di
comprendere delle persone”. Non è una visione troppo eterodossa della
sua disciplina?
«Certo che sì. Per me la filologia non è scienza
ma, per dirla all’antica, è umanità, ars humanitatis, e merita di essere
scritta con rigore ma con la stessa volontà di stile di qualunque altro
genere letterario».
Lei mostra bene come Petrarca abbia
perseguito fin da giovane il progetto di costruire, tassello dopo
tassello, la propria autobiografia, la prima della letteratura
occidentale moderna. Cosa ha potuto indurlo a un gesto così innovativo?
«A
cominciare(quando aveva già 50 anni) dalla scelta del suo nome
definitivo, che prima fluttuava tra “Pentraco”, “Petrachus” e altre
forme, Petrarca costruiva la sua biografia perché viveva più pienamente,
più autenticamente, nella scrittura che nella realtà. Teneva molto
all’immagine, ancor di più a quella che avrebbe mostrato a se stesso:
«Intero e pieno — diceva — senza lacerarsi in mille sentimenti
contrastanti».
Ci può spiegare la strategia complessa di indizi e
di omissioni, di detto e non detto, di cui Petrarca si serve, nel corso
della sua intera opera, per mettere in scena il suo personaggio
pubblico?
«Lui non poteva negare direttamente cose che aveva
affermato in passato, perché i suoi testi erano ormai nelle mani di
molti. Ciò che faceva era dare nuove interpretazioni dei fatti. Così,
dell’incontro con Laura, della laurea napoletana o del suo atteggiamento
(prima favorevole e poi critico) verso Cola di Rienzo offre distinte
versioni, che non coincidono tra loro, per far sì che l’ultima
cancellasse le precedenti».
Lei scrive che nell’abbracciare la
totalità della propria “peregrinatio tra vita e letteratura”, Petrarca
mirava a un insegnamento morale di carattere universale, ma che questa
narrazione esemplare celava una rivelazione autobiografica più
complessa.
«Sì, perché se la biografia che voleva vivere e
scrivere rispondeva a un’immagine ideale, quell’ideale poteva soltanto
essere universale, morale e religioso ».
Petrarca, tuttavia,
voleva anche lasciare una traccia occulta della sua vicenda privata e
lei ha individuato nei molti venerdì che si rincorrono nei suoi scritti —
ricordiamo quello dell’incontro fatidico con Laura il 6 aprile 1327, e
quello della morte di lei, il 6 aprile 1348 — una data feticcio.
«La
propria vita gli si presentava come un libro segmentato in capitoli e
sezioni che segnavano tappe e cambiamenti nella sua immagine pubblica:
la grande “mutatio” dei quarant’anni, prima e dopo Laura, la rinuncia
alla lussuria nell’occasione del Giubileo del 1350, eccetera. Ma certi
momenti ed episodi venivano segnati anche come con un post-it colorato:
quelli che corrispondono a un venerdì sono tanti e così rilevanti, che
non c’è dubbio che quel giorno fosse significativo nella sua vita intima
».
Come giudicare la scelta, a dir poco audace, di Petrarca di
annotare i suoi fatti personali in margine a un preziosissimo codice di
Virgilio oggi custodito alla Biblioteca Ambrosiana?
«Tutti
scrivevano nei libri. Ma per dare la sua ultima versione della storia di
Laura, Petrarca sceglie il codice più prezioso della sua biblioteca,
sapendo che il volume sarebbe passato in altre mani e quella versione
avrebbe finito col diventare pubblica».
Dobbiamo pensare a una
sola Laura o a tante Laure in una? E dobbiamo iscriverla sotto il segno
dell’amor sacro o dell’amor profano, della letteratura o della vita?
«Una
e tante. Tendo a pensare che una “Laura” esistette realmente, ma è
anche una sorta di compendio di tutte le sue esperienze amorose (ed
erotiche), privilegiando le più nobili per tradizione letteraria e
decoro o dignità spirituale».
Tutta la vita di Petrarca è
attraversata tanto dalla necessità di trovarsi dei protettori e puntare a
un ruolo di consigliere del principe, quanto dal desiderio di
raccoglimento e di ozio studioso. Due esigenze per lui irrinunciabili?
«Irrinunciabili
perché imprescindibili. Una vita come la sua si poteva soltanto
ottenere con benefici ecclesiastici e protezione dei potenti».
Perché quello di Petrarca le appare come “il carattere tipico del nevrotico”?
«Perché ossessivo, ansioso, irritabile, contraddittorio, in conflitto con se stesso».
In
che misura passioni mondane come l’interesse e l’amore si conciliano in
Petrarca con la sua condizione di chierico e con la sua battaglia
contro il vizio?
«Non era più peccatore di chiunque altro
dell’epoca. Il suo cristianesimo, con risvolti superstiziosi, era
profondo e orientava tutti i suoi scritti».
Cosa ha fatto di Petrarca fino al XIX secolo il poeta per antonomasia dell’Europa moderna?
«Fino
ad allora, la lirica gli deve tutto (e in Italia il poeta nazionale è
lui, non Dante); il moralista restò nel dimenticatoio a metà del
Cinquecento; ma la sua lezione per quanto concerne lo studio dei
classici fu decisiva nella genesi dell’umanesimo maturo ».
IL
LIBRO I venerdì del Petrarca di Francisco Rico ( Adelphi pagg. 219 euro
14) L’autore riceve oggi a Roma il premio De Sanctis dedicato alle
migliori opere di saggistica