il manifesto 15.12.16
L’archeologia orientale è in guerra
Convegno.
I maggiori archeologi e studiosi del Vicino oriente il 16 e 17 dicembre
saranno a Firenze per affrontare insieme il rischio a cui sono
sottoposti i siti in Iraq e in Siria
di Valentina Porcheddu
A
causa degli eventi bellici che stanno sconvolgendo paesi di
antichissima origine quali Iraq e Siria, l’archeologia orientale non può
più essere considerata soltanto una disciplina accademica o scientifica
ma deve allargare il proprio orizzonte.
È questo il presupposto
in base al quale il Camnes (Center for Ancient Mediterranean and Near
Eastern Studies) – fondato nel 2010 – ha convocato per il 16 e 17
dicembre a Firenze, nel Palagio di Parte Guelfa, i maggiori studiosi
italiani di archeologia del Vicino oriente per dibattere pubblicamente
sulle prospettive del settore. «L’archeologo non è uno statista o uno
stratega – dice Stefano Valentini, che dirige il Camnes assieme a Guido
Guarducci – ma in virtù delle sue conoscenze può contribuire alla
soluzione delle crisi in atto».
SECONDO DAVIDE NADALI, docente di
archeologia e storia dell’arte del Vicino oriente antico alla Sapienza
di Roma, e membro del comitato scientifico che organizza l’incontro
fiorentino «noi archeologi siamo ambasciatori sul campo perché durante
le missioni di scavo ci rapportiamo sia con i rappresentanti politici e
istituzionali del paese che con la comunità del territorio in cui
operiamo. Dei contesti rurali, che normalmente sfuggono all’attenzione
di un semplice turista, impariamo a comprendere gli aspetti più
autentici. Ciò ci consente di avere il polso della situazione riguardo
le trasformazioni della società».
Impegnato dal 1998 al 2010 negli
scavi di Ebla in Siria, Nadali ricorda come a Tell Mardikh (nome
moderno della città carovaniera, ndr) negli ultimi anni si potesse
riscontrare, attraverso il comportamento di alcuni operai più giovani,
una radicalizzazione di tipo islamista. L’archeologo dovrebbe essere
usato come fonte di informazione ma non di tipo spionistico alla stregua
dei primi esploratori di antichità irachene, che erano funzionari al
servizio dei governi occidentali e archeologi per hobby. Ora occorre
lavorare per il dialogo.
Proprio a questo proposito, Nadali spiega
come la missione archeologica di Tell Zurghul (antica Nigin) nella
provincia meridionale del Dhi Qar in Iraq, di cui è a capo con Andrea
Polcaro dell’università degli studi di Perugia, stia portando avanti una
collaborazione con la scuola del villaggio.
LO SCOPO È QUELLO di
creare un circuito in cui l’istruzione vada di pari passo con la
prevenzione e la custodia del sito archeologico. «In Iraq e Siria stiamo
assistendo a eventi di natura straordinaria come templi che vengono
fatti esplodere – afferma Valentini – Non possiamo reagire con strumenti
‘tradizionali’. L’archeologia in Medioriente soffre di un retaggio
colonialista. L’Occidente dovrebbe impegnarsi affinché le comunità
scientifiche locali crescano. Penso, inoltre, che una coscienza etica
vada sempre anteposta agli interessi della ricerca. Non bisogna
intestardirsi a presenziare nelle zone di guerra ma concentrare le
energie sul potenziamento degli archivi e l’elaborazione di strategie di
azione post-bellica, in modo da essere pronti quando sarà possibile
tornare sul campo in condizione di pace».