il manifesto 15.12.16
L’esperienza della morte in vita
«Tortura» di Donatella Di Cesare, per Bollati Boringhieri
Quando il dominio sul corpo del nemico si fa simbolo dell'esercizio del potere
di Mauro Palma
Pronunciare
la parola indicibile è già operazione di chiarezza. Invita a indagarne
il significato, a vedere se o meno corrisponda a situazioni, pratiche,
fatti che conosciamo, che sappiamo esistere; li rende presenti con tutti
gli interrogativi che tale presenza determina.
È quindi positivo
che la parola tortura sia tornata a essere detta. Ma, seppure tolta
dall’imbarazzo linguistico, non di meno la tortura continua a essere
negata dagli apparati di potere che la praticano. Poiché «nessun regime
neppure quello dittatoriale, ammetterà mai il ricorso alla tortura
perché significherebbe ammettere la propria illegittimità». Sono le
parole dello psicoanalista Miguel Benasayag, torturato durante la
dittatura del generale Videla in Argentina, che ricorda come i suoi
torturatori, che pur realizzavano una sorta di prossimità feroce tra il
loro corpo e il suo che martoriavano, si guardavano dall’essere
identificati come funzionari dello Stato; non affermavano la visibilità
del potere assoluto, ma si celavano dietro una fantasiosa appartenenza a
corpi separati, civili.
L’EPISODIO LO RIPORTA Donatella Di
Cesare, che dal duplice punto di vista della filosofia teoretica e
dell’analisi storico-critica, ripercorre la persistenza della tortura,
il suo consolidarsi anche in termini dialogici nel presente e la
continuità del tratto indelebile che lascia nella vittima, come «propria
morte esperita in vita» (Donatella Di Cesare, Tortura, Bollati
Boringhieri, pp. 217, euro 11).
Molte pagine del suo libro sono
dedicate al dibattito sorto dopo il settembre 2001, in larga parte oltre
Atlantico, ma per taluni aspetti anche nel vecchio continente. Un
dibattito che non ha superato il tabù della negazione, ma lo ha
aggirato, attraverso locuzioni contorte che ruotano attorno a concetti
di eccezionalità, necessità, utilità dando a essi sinistri significati.
DI
CESARE NE TROVA le premesse già nella posizione assunta da Thomas
Nagel, più di quaranta anni fa nel periodo della guerra in Vietnam,
circa il dilemma morale tra teorie assolutiste e teorie utilitariste, le
prime che danno priorità a ciò che si fa, agli schemi valoriali di
riferimento, le seconde centrate invece su ciò che accadrà, sulle
conseguenze in gioco. Nessun problema per Nagel nel sostenere queste
ultime, liquidando l’assolutismo – e quindi il divieto assoluto della
tortura nelle Dichiarazioni e Convenzioni dal secondo dopoguerra – come
un ideale regolativo insensatamente astratto e provvidenzialmente
irrealizzabile.
Anche se il contesto dell’analisi del filosofo
analitico è quello bellico, la sua posizione apre alla possibilità di
considerare comunque la tortura una opzione eventuale. Tema, questo che
da una prospettiva diversa verrà ripreso da Michel Walzer
nell’affermazione della necessità per chi ha responsabilità politica di
misurarsi anche con le «mani sporche», quasi «nobilitando» la scelta di
accettare il fardello morale di un crimine, non reso meno da grave da
considerazioni apparentemente necessitanti. Per giungere così al
dibattito degli ultimi quindici anni, alla posizione di Alan Dershowitz
che Di Cesare sintetizza in una intrigante parola chiave:
accountability. Intrigante perché si è abituati a declinarla nel suo
significato positivo, di assunzione di responsabilità. Giacché la
tortura persiste – ragiona il penalista americano, che si era abituati a
collocare nel fronte democratico – ne regoliamo la pratica, la rendiamo
trasparente e limitata.
SCRIVE IN PROPOSITO l’autrice: «Al
torturatore nobile Dershowitz preferisce l’esperto che mentre conferisce
di volta in volta il mandato, autorizzando la tortura, si impegna anche
a far luce garantendo la trasparenza, consentendo quella
accountability, senza la quale non sarebbe immaginabile la democrazia».
Questa pretesa di «portare il diritto nelle stanze oscure degli
interrogatori» ha in parte lambito la discussione in alcuni Stati
europei che, a metà del primo decennio di questo secolo, hanno proposto
di limitare l’assolutezza del divieto di tortura enunciato nella
Convenzione europea per i diritti umani, bilanciandolo con le esigenze
di sicurezza, quale altro bene da tutelare in modo assoluto.
Una
posizione, questa, respinta, ma che ritorna di tanto in tanto quando
l’uso legale della forza, il diritto e l’esercizio di giustizia vengono
declinati come strumenti di lotta verso un presunto nemico, sia esso un
singolo, una organizzazione, un gruppo sociale il cui stesso esistere
viene assunto come potenziale aggressore di chi ha la responsabilità di
agire in nome della collettività. Lo schema relazionale che si
stabilisce diviene allora un derivato della dinamica di guerra e il
dominio sul corpo del nemico diviene simbolo e concretezza
dell’esercizio di potere.
IL LIBRO SPAZIA lungo gli esempi negli
anni recenti che rimandano a questa torsione (l’etimo è lo stesso della
parola tortura), dalla tortura politica latino-americana agli episodi
europei, inclusi quelli che hanno riguardato l’Italia: gli interrogatori
in occasione del sequestro Dozier, le morti purtroppo ormai famose di
giovani fermati e privati della libertà, l’epifania della violenza del
potere nei giorni di Genova. Tutti casi in cui la parola negata,
tortura, è stata scritta in sentenze; anche per dire che non vi è ancora
nel nostro codice la possibilità di riconoscerla, chiamarla con il
proprio nome e punirla adeguatamente.
Ma, anche casi ripresi per
ricordare che la previsione del reato, assolutamente essenziale, non
risolve del tutto il nostro rapporto con la tortura, con la corporeità
perversa che essa rappresenta, con il suo intrinseco rifiuto del limite
necessario. Ancora una volta il diritto non basta; ancora una volta – ci
ricorda l’autrice – occorre interrogarci più in profondità.