Repubblica 14.12.16
La nuova geografia al tempo di Trump
di Roberto Toscano
LA
SITUAZIONE internazionale sembra destinata a trasformarsi in modo
accelerato. L’annuncio della fine della battaglia di Aleppo, con la
sconfitta delle forze ribelli, non significa soltanto che il regime di
Assad può ora contare di sopravvivere ai cinque anni di guerra civile,
ma soprattutto che Vladimir Putin può vantare che, nonostante quella che
lui ha definito la catastrofe della fine dell’Unione sovietica, la
Russia conta ancora, come se davvero fosse una grande potenza.
Ma
l’azzardo di Vladimir Putin trova oggi un fondamento non solo nell’uso
spregiudicato della forza (dall’annessione della Crimea alla secessione
di fatto del Donbass), ma dal fatto che il grande avversario, l’America,
sta per passare sotto la guida politica di un presidente che sembra
riconoscere che non è possibile né ignorare né escludere la Russia. Nel
corso della campagna elettorale Trump aveva sorpreso per le sue
espressioni di ammirazione per Putin in quanto uomo politico deciso,
duro, e non impacciato da quella correttezza politica che per Trump
costituisce l’innegabile segnale della debolezza tipica dei
progressisti, a partire da Obama. Affinità che potrebbero essere
limitate allo stile, alla forma dell’azione politica piuttosto che ai
suoi contenuti, se non fosse che successivamente sono arrivati segnali
ben più sostanziali che fanno ritenere possibili svolte concrete di
natura politica.
Difficile interpretare diversamente la critica di
Trump alla Cia — una critica senza precedenti da parte di qualcuno che
sta per trasferirsi alla Casa Bianca — per avere avallato, sulla base
dei dati dell’intelligence, l’ipotesi che gli “hackers di Stato” russi
siano intervenuti nella campagna presidenziale americana per sabotare
Hillary Clinton e per favorire Donald Trump. Ma al di là di questa
polemica è sul terreno delle nomine che emergono segnali di una
possibile profonda revisione della politica russa di Washington. Nel
curriculum del generale Michael Flynn, designato Consigliere per la
sicurezza nazionale, vi è il ruolo di editorialista (retribuito) della
rete Rt, organo ufficioso del “putinismo”. Ancora più significativo è
l’annuncio della nomina di Rex Tillerson, Ceo della Exxon Mobil, a
ricoprire il ruolo di Segretario di Stato. Tillerson, che nel 2013 è
stato insignito da Putin dell’“Ordine dell’amicizia” per la
collaborazione con la Russia nello sfruttamento delle risorse
petrolifere dell’Artico, si era pubblicamente espresso contro
l’imposizione di sanzioni alla Russia in relazione alle vicende ucraine.
Ma
non si tratta solo di Russia. Che con l’arrivo di Trump alla Casa
Bianca il mondo si trovi molto probabilmente alla vigilia di novità
sostanziali lo fanno pensare segnali relativi a altre grandi questioni
internazionali. L’Iran, ad esempio: tema su cui sono perfettamente
allineati tutti i personaggi che stanno per entrare nel nuovo governo
americano. Quando era responsabile della Dia, l’intelligence della
Difesa, Flynn aveva addirittura cercato di collegare in modo totalmente
arbitrario l’Iran al sanguinoso attacco al Consolato americano di
Bengasi. Il futuro Segretario alla Difesa James Mattis ha ripetutamente
denunciato l’accordo nucleare e Mike Pompeo, futuro capo della Cia, lo
ha ripetutamente definito “disastroso”. Il più bellicoso contro l’Iran è
un personaggio quasi caricaturale nella sua irrefrenabile passione per
l’azione militare (e il suo disdegno per il diritto internazionale):
John Bolton, che dopo il 20 gennaio assumerà probabilmente l’importante
ruolo di Vice Segretario di Stato. Non è azzardato prevedere un
inasprirsi di rapporti che nel corso della presidenza Obama avevano
appena cominciato a spostarsi verso un limitato disgelo. Non sono a
questo punto da escludere pericolosi incidenti nel Golfo Persico, mentre
diventano sempre più dubbie le sorti del governo Rouhani e di
quell’ipotesi centrista-riformista (autentica ma fragile, sottoposta
com’è alla controspinta dei radicali del regime) che ha nell’accordo
nucleare il primo terreno di verifica.
Russia e Iran sono temi
centrali, ma non certo i soli su cui possiamo attenderci svolte
politiche gravide di conseguenze: pensiamo soltanto alla Cina, e alla
“storica” telefonata di Trump alla presidente di Taiwan, e alla
dichiarazione del presidente eletto secondo cui il trasferimento
dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme (una decisione
carica di significato politico, e non solo simbolico) costituisce una
forte priorità.
Impaziente dei compromessi che emergono ai tavoli
della diplomazia, Trump promette di rovesciare quei tavoli, incurante
delle conseguenze in quanto convinto che non vi siano limiti
all’affermazione unilaterale di un’America finalmente libera dalle
remore politiche, giuridiche ed etiche che hanno caratterizzato il
doppio mandato presidenziale di Barack Obama. Non si tratta di una
svolta realista contrapposta ai limiti del multilateralismo e ai
fallimenti dell’internazionalismo liberale, ma della pericolosa utopia
del recupero di una mitica passata grandezza, possibile solo se verranno
rimossi gli impacci, le regole, le mediazioni, i compromessi.
La
sfida che si profila è davvero sistemica, ed andrà ben oltre la
schematica alternativa filoamericanismo/ antiamericanismo. Non sarà
facile per nessuno — in particolare per l’Europa — rispondere a questa
sfida. Tanto più dal momento in cui sia a Washington che a Mosca saranno
al comando due personaggi imprevedibili in quanto spregiudicati — anche
se uno solo, Putin, guidato da un disegno preciso e coerente.